Così il premier avrebbe fatto marcia
indietro sulla detassazione dei primi castelli. Non l’aveva mai
prevista? Si è lasciato convincere?, si interroga la stampa più
maliziosa. Nel secondo caso la sinistra dem avrebbe inferto un colpo
mortale al feudalesimo solo 226 anni dopo la Rivoluzione
francese. In entrambi i casi è evidente che la questione conta meno
di zero. Ragion per cui occupa da giorni editoriali, commenti,
vignette, indignate dichiarazioni su gran parte dei media italiani.
Insomma sta in buona compagnia, quanto a rilevanza effettiva, con
tutti gli altri “successi” conseguiti dalla sinistra del Pd sotto il
regno di Matteo Renzi.
Intanto la legge di stabilità
striscia nell’ombra verso l’approvazione garantita dalla fiducia.
Furbetta, a volte roboante, nei confronti delle severe regole
europee, ma tutto sommato piuttosto obbediente. Bruxelles potrà
anche storcere il naso sulla detassazione della prima casa (che
essendo un bene di consumo, contrariamente ad altre rendite da
capitale, figura tra i bersagli prediletti dall’ideologia fiscale
liberista dedita a garantire l’accumulazione del capitale) ma sa
bene che il terreno perso potrà essere recuperato tra tagli,
privatizzazioni e tassazioni indirette. Queste ultime, causa
scatenante di innumerevoli rivolte nel corso della storia, godono
oggi di un certo anonimato e scarsa attenzione. In fondo nessuno ti
chiama a pagare per nome e cognome. Mal comune mezzo gaudio. Su questo
piano siamo tutti ampiamente mitridatizzati e non c’è governo che
non lo sappia.
Dunque, insiste Bruxelles e Roma
recepisce, bisogna detassare il lavoro. Lo sgravio si sdoppia però
in due voci: favorire i profitti d’impresa o la busta paga dei
dipendenti, o entrambi in determinate proporzioni. Il risparmio
fiscale delle imprese si suppone indirizzato agli investimenti
e dunque a nuova occupazione. Si suppone perché trattasi di un
risultato del tutto aleatorio. In primo luogo e nel migliore dei casi
gli investimenti possono essere indirizzati alla sostituzione di
lavoro vivo con lavoro morto. In secondo luogo, così come le enormi
somme di denaro immesse nelle casse delle banche, i risparmi fiscali
possono prendere la via del circuito finanziario. Infine, tasse
o non tasse, se il mercato e cioè i consumi non “tirano”, gli
imprenditori si guarderanno bene dall’assumere nuovo personale,
come hanno più volte dichiarato. Consumi che dovrebbero invece
crescere grazie al ridotto carico fiscale sulle buste paga, ma che, se
fortemente tassati a loro volta come prescritto dalla dottrina
liberista, non produrrebbero alcun effetto espansivo. C’è
naturalmente la scommessa sul primato dell’export. Ma chi ci crede
nell’attuale congiuntura globale? O nelle retoriche del «facciamo
meglio della Germania»?
A forza di vantarci di non essere «come
i Greci», sembra che lo stratosferico debito pubblico italiano
sia completamente scomparso. Sono lontani i tempi in cui il «signor
Spread» era più popolare delle star del calcio e oggetto di
accalorate discussioni in ogni bar del paese. Compiti fatti,
problema risolto. Questa l’orgogliosa narrazione governativa.
Occupatevi, se vi garba davvero litigare, di manieri e scontrini.
E se, invece, fosse proprio l’esame
e la rinegoziazione di quel debito e le regole di rientro
stabilite dalle «istituzioni» europee il tema principale da
affrontare quanto alla pressione fiscale e ai suoi effetti recessivi?
Certo non è facile, dopo aver sbeffeggiato Atene e sacralizzato gli interessi dei creditori, immaginando di poter rosicchiare in cambio qualche margine di tolleranza a Francoforte e Bruxelles. Magari sulla pelle dei migranti. «Quali tasse e quali tagli, lo decidiamo noi!», tuona il premier. Ma è evidente che non è affatto così, che la decisione sia imposta per via diretta o indiretta. Né prima, né durante, né dopo la crisi greca vi è stato alcun discorso serio sull’Europa e le sue politiche economiche e finanziarie da parte del governo di Roma, impegnato, semmai, in una gestione meschina (e perdente) del vantaggio nazionale. Cosicché la questione fiscale ci viene riproposta in termini assolutamente arcaici, quando non interessatamente banali, prescindendo allegramente dal peso della rendita finanziaria e dal dumping fiscale all’interno dell’Unione. Come una partita che possa risolversi all’interno dei singoli paesi o nella loro autonoma e furbastra contrattazione con Bruxelles. E’ il paradosso di quell’europeismo nazionalista che ha disgraziatamente occupato il campo del progetto di integrazione europeo.
Certo non è facile, dopo aver sbeffeggiato Atene e sacralizzato gli interessi dei creditori, immaginando di poter rosicchiare in cambio qualche margine di tolleranza a Francoforte e Bruxelles. Magari sulla pelle dei migranti. «Quali tasse e quali tagli, lo decidiamo noi!», tuona il premier. Ma è evidente che non è affatto così, che la decisione sia imposta per via diretta o indiretta. Né prima, né durante, né dopo la crisi greca vi è stato alcun discorso serio sull’Europa e le sue politiche economiche e finanziarie da parte del governo di Roma, impegnato, semmai, in una gestione meschina (e perdente) del vantaggio nazionale. Cosicché la questione fiscale ci viene riproposta in termini assolutamente arcaici, quando non interessatamente banali, prescindendo allegramente dal peso della rendita finanziaria e dal dumping fiscale all’interno dell’Unione. Come una partita che possa risolversi all’interno dei singoli paesi o nella loro autonoma e furbastra contrattazione con Bruxelles. E’ il paradosso di quell’europeismo nazionalista che ha disgraziatamente occupato il campo del progetto di integrazione europeo.
Il governo di Atene ha appena
licenziato la direttrice dell’agenzia delle entrate sulla quale sono
state aperte due delicate inchieste giudiziarie. Si temono
veementi reazioni da Bruxelles perché l’autonomia dell’organismo
tributario dal governo ne risulterebbe minacciata. Organismo che
si suppone debba, invece, sottostare alle ragioni indiscusse
dell’austerità e dunque a quelle dei creditori. Ma non è il caso di
preoccuparsi: «Noi non siamo mica la Grecia!»
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