Il termine fascismo nasce con i Fasci siciliani (1891 – 1893), ma la prima fortuna politica di questo appellativo si colloca tra il 1914 e il 1919, a partire dai Fasci di azione rivoluzionaria, che propagandavano l’intervento italiano nella prima guerra mondiale, precedendo quindi l’adunata dei Fasci di combattimento di Milano del 23 Marzo 1919, atto di nascita del movimento mussoliniano.
controlacrisi.org franco astengoIl fascismo nasce, quindi, come punto di aggregazione di reduci dalla
guerra rimasti ai margini nel processo di riorganizzazione della vita
pubblica nell’immediato dopoguerra, riorganizzazione fondata sui nuovi
grandi partiti di massa e sulla convivenza tra questi e gli antichi ceti
notabilari dell’Italia liberale.
I reduci di guerra si mossero così sulla base di contorni politici piuttosto vaghi, prevalentemente rappresentativa di ceti intermedi, all’insegna di slogan che oggi potremmo riassumere come quelli della “rottamazione” o del “tutti a casa”.
Il fascismo, in questo modo si inserì, nei primordi, in un filone di generico ribellismo, schierandosi tuttavia da subito su di una linea violentemente anti-socialista e anti – democratica, all’insegna di una non meglio precisata “selezione di valori”.
Il fascismo respinse ogni egualitarismo e in tale senso la paternità ideologica del fascismo deve essere attribuita, in larga parte, al nazionalismo.
In tempi come quelli attuali di crisi verticale del quadro internazionale il tema del nazionalismo, elemento esercitato a piene mani da Renzi e dal suo “cerchio magico” (addirittura nel senso dell’Italia “faro di civiltà”) dovrebbe fare una qualche impressione in un lavoro comparativo svolto da sinceri democratici.
Non a caso proprio il nazionalista Alfredo Rocco sarà, più tardi, l’autentico “architetto” del fascismo diventato regime.
Nella sua prima formulazione l’ideologia dei fasci apparve debitrice anche verso movimenti come il futurismo e l’arditismo, esaltatori dell’italianità della guerra e della giovinezza, e portatori di un generico rifiuto della “normalità” borghese (in questo senso, sempre riferendoci agli esordi, esiste una possibilità di comparazione sul piano internazionale con l’Action Francais di Maurras).
Dopo il fiasco elettorale del novembre 1919, dall’autunno del 1920, grazie ai massicci finanziamenti di organizzazioni agrarie, soprattutto in Val Padana, e, in misura minore, di gruppi finanziari e industriali, il fascismo si riprese assumendo sul piano organizzativo il volto dello squadrismo.
Uno squadrismo tollerato, quando non aiutato dalle istituzioni dello Stato.
Nel nostro caso, quello di oggi, non c’è squadrismo ma l’attacco al mondo del lavoro attuato attraverso l’adozione del cosiddetto “modello Marchionne” suggerisce, ancora una volta, lo sviluppo di un qualche livello di analogia.
Sul piano ideologico il fascismo lasciò cadere le pregiudiziali contro la monarchia e la chiesa cattolica.
L’ambiguità ideologica diventerà, da questo punto in avanti, una costante del pensiero fascista che si articolerà in una complessa varietà di posizioni.
Lo stesso Mussolini, del resto, non nasconderà mai il proprio “relativismo” sul terreno filosofico – politico.
La linea di oggi è quella del “né di destra, né di sinistra”, mentre si punta decisamente verso l’elettorato di destra.
Davanti al ripiegare del movimento socialista, però, il fascismo si schiera in modo esplicito all’estrema destra.
I liberali, ormai in pieno disfacimento, credettero di poter compiere un’operazione d’inserimento del fascismo nelle istituzioni attraverso un processo di progressiva integrazione e assorbimento “nella legalità” e ne favorirono, attraverso la presentazione di liste di “Blocco Nazionale”, l’ingresso in Parlamento con le elezioni del maggio 1921.
Un’analisi rivelatasi, alla fine, del tutto fallace.
Con l’ingresso in Parlamento il fascismo si avvia alla trasformazione in partito che viene formato (con la denominazione Partito Nazionale Fascista) nel Novembre del 1921.
La denominazione di oggi sarà quella del “Partito della Nazione”?
Il PNF teorizzò, da subito, quello che sarà definito “doppio binario”, quello legale e quello insurrezionale e l’ascesa al potere avvenne in una forma a metà dei due versanti con la marcia su Roma del 28 ottobre 1922.
Giunto al potere, mentre si dedicava all’edificazione delle strutture istituzionali di un regime poi giudicato a posteriori d’imperfetta vocazione totalitaria, il fascismo affrontò l’elaborazione di un apparato teorico – politico.
Ma l’intellettualità fascista era costituita, in primo luogo, non da ideologi ma da organizzatori.
Lo stesso filosofo Giovanni Gentile, entrato nel primo governo Mussolini e autore di quella che è stata definita la “più fascista delle riforme” quella della scuola, svolse lungo il ventennio un ruolo di straordinario organizzatore culturale.
Un ruolo di organizzatore culturale che gli consentì di egemonizzare gran parte del ceto intellettuale italiano.
Sul piano teorico Gentile fu un convinto sostenitore della continuità tra il liberalismo classico, incarnato nell’Italia della “destra storica”, e il fascismo: la “storicità” del fascismo (cui si contrapponeva il bolscevismo con la sua “antistoricità”) avrebbe dovuto dimostrare, partendo dalla volontà di conciliare le esigenze dell’individuo e quelle dello Stato (in un processo di subordinazione dell’una verso l’altra), la possibilità di realizzazione dello Stato Etico.
La Stato delineato da Alfredo Rocco, invece, fu tratteggiato in termini più marcatamente organicistici.
Lo Stato fu considerato come il “grande tutto”: in esso sarebbe stata superata la lotta di classe per proiettarsi, poi, grazie alla riconquistata solidarietà nazionale, nella competizione internazionale in nome della potenza demografica e del destino della nazione.
Tra Gentile e Rocco, comunque, la differenza – sul piano delle prospettive tendenziali – risultarono, alla fine, sfumate o comunque unificate, in primo luogo, dal punto vero di intersezione delle anime del fascismo: quello relativo al culto del “Duce”.
Il “Duce” rappresentava la guida che tracciava il cammino, il capo assoluto.
Il culto del Capo, è bene ricordarlo, è tornato molto di moda nell’attualità in forma anche diversa da quella che ha caratterizzato il ventennio precedente dalla presenza di un “imprenditore passato alla politica”.
Ai nostri giorni la “cultura dello Stato” è naturalmente affatto diversa, ma egualmente finalizzata alla detenzione del potere in una società massificata e neutralizzata dall’espressione di una cultura dell’individualismo e del consumo: fenomeni favoriti dall’espansione nell’uso dei mezzi di comunicazione di massa in esclusiva funzione di marketing riducendo l’offerta politica altresì come quella culturale a “prodotto”.
Gli intendimenti di fondo però tra il tipo di massificazione sociale imposta negli anni’30 e quella determinata adesso sono identici: il potere posto al di fuori dalla verifica democratica.
La verifica del consenso riservata all’esercizio di un’autonomia del politico appannaggio esclusivo di un ceto politico provvisto della possibilità esclusiva di usufruire di incentivi selettivi, esattamente come i gerarchi del ventennio.
Torniamo però al filo conduttore del nostro discorso.
Accanto al mussolinismo, lo statalismo fu il dato unificante del fascismo.
Pur rimanendo rilevante il peso del PNF e delle sue gerarchie, fu lo Stato a prevalere, anche sul piano teorico.
Lo stesso dibattito, del resto molto vivace, sul corporativismo, pur mettendo in luce una pluralità di posizioni (dalla rigida gabbia statuale prevista da Rocco, fino alla “corporazione proprietaria” di Ugo Spirito), finì con l’assestarsi nella forma più blanda sostenuta da Bottai rispetto a quella propugnata da Alfredo Rocco.
“Corporazione proprietaria” rappresenta un altro termine che sta trovando pratica applicazione nell’attualità del dibattito politico, specialmente quando si osserva il tentativo di distruzione dei corpi intermedi rappresentativi delle diverse realtà sociali.
Il fascismo tese a presentarsi, inoltre, come squisitamente “italiano” e “romano”: torna qui il tema ricorrente del nazionalismo – bellicista.
Un tema anch’esso di effettiva pregnanza per quel che riguarda l’oggi, a partire dal reclamare, da parte del governo in carica, di un ruolo “primario” in vista di una nuova avventura bellica in Africa (c’è da augurarsi che la ipocrita confessione di Blair –uno dei modelli – freni le velleità del neo – colonialismo occidentale, e quindi del colonialismo di ritorno in salsa tricolore).
L’alleanza con la Germania hitleriana e l’intervento nella seconda guerra mondiale, accentuarono i caratteri ideologici propri del fascismo degli esordi, come il bellicismo e, di converso, fecero emergere tratti ideologici propri di quella successiva fase rimasti in ombra quali il razzismo e l’antisemitismo.
Alcuni di questi caratteri, ma soprattutto il rifiuto della democrazia e la lotta senza quartiere proclamata al bolscevismo, consentirono di identificare un ruolo internazionale del fascismo, attivo in Europa, e felicemente definito da Palmiro Togliatti come “regime reazionario di massa”.
Una definizione che ha consentito, anche dopo la caduta del regime, di leggere il fenomeno del fascismo in senso transpolitico, come una sorta di cesarismo tipico del XX secolo basato su di un capo carismatico.
Un capo carismatico che portava avanti la ricerca del consenso delle masse attraverso una strumentazione di tipo propagandistico e pedagogico, l’adozione di slogan rivoluzionari (intensi per lo più in una direzione aggressivamente nazionalistica) nemica tanto della democrazia quanto del comunismo.
In ogni caso le interpretazioni del fascismo puntano oggi a una articolazione di giudizio (ben oltre la rigida definizione di Dimitrov: “Dittatura terroristica degli elementi reazionari, più sciovinistici e più imperialistici del capitale finanziario”).
Queste interpretazioni si pongono in relazione all’analisi socio – politica del nesso tra fascismo e classi sociali, con particolare riguardo alle classi medie, insistendo molto (anche grazie agli spunti offerti da Adorno e da Horkheimer) sulla tema della personalità autoritaria e su di un presunto ruolo “modernizzatore”.
Quanto di questi fermenti ancora agiscono, o possono continuare ad agire ed essere riattualizzati oggi all’interno del sistema politico italiano proprio nell’intreccio autoritarismo/modernizzazione dovrebbe essere compito degli analisti più attenti: forse è proprio il caso di richiamare, comunque, il massimo dell’attenzione rivolta all’analisi del passato posta in funzione a leggere la realtà attuale.
(Principali autori di riferimento: Palmiro Togliatti, Ernst Nolte, Angelo D’Orsi, Renzo De Felice).
I reduci di guerra si mossero così sulla base di contorni politici piuttosto vaghi, prevalentemente rappresentativa di ceti intermedi, all’insegna di slogan che oggi potremmo riassumere come quelli della “rottamazione” o del “tutti a casa”.
Il fascismo, in questo modo si inserì, nei primordi, in un filone di generico ribellismo, schierandosi tuttavia da subito su di una linea violentemente anti-socialista e anti – democratica, all’insegna di una non meglio precisata “selezione di valori”.
Il fascismo respinse ogni egualitarismo e in tale senso la paternità ideologica del fascismo deve essere attribuita, in larga parte, al nazionalismo.
In tempi come quelli attuali di crisi verticale del quadro internazionale il tema del nazionalismo, elemento esercitato a piene mani da Renzi e dal suo “cerchio magico” (addirittura nel senso dell’Italia “faro di civiltà”) dovrebbe fare una qualche impressione in un lavoro comparativo svolto da sinceri democratici.
Non a caso proprio il nazionalista Alfredo Rocco sarà, più tardi, l’autentico “architetto” del fascismo diventato regime.
Nella sua prima formulazione l’ideologia dei fasci apparve debitrice anche verso movimenti come il futurismo e l’arditismo, esaltatori dell’italianità della guerra e della giovinezza, e portatori di un generico rifiuto della “normalità” borghese (in questo senso, sempre riferendoci agli esordi, esiste una possibilità di comparazione sul piano internazionale con l’Action Francais di Maurras).
Dopo il fiasco elettorale del novembre 1919, dall’autunno del 1920, grazie ai massicci finanziamenti di organizzazioni agrarie, soprattutto in Val Padana, e, in misura minore, di gruppi finanziari e industriali, il fascismo si riprese assumendo sul piano organizzativo il volto dello squadrismo.
Uno squadrismo tollerato, quando non aiutato dalle istituzioni dello Stato.
Nel nostro caso, quello di oggi, non c’è squadrismo ma l’attacco al mondo del lavoro attuato attraverso l’adozione del cosiddetto “modello Marchionne” suggerisce, ancora una volta, lo sviluppo di un qualche livello di analogia.
Sul piano ideologico il fascismo lasciò cadere le pregiudiziali contro la monarchia e la chiesa cattolica.
L’ambiguità ideologica diventerà, da questo punto in avanti, una costante del pensiero fascista che si articolerà in una complessa varietà di posizioni.
Lo stesso Mussolini, del resto, non nasconderà mai il proprio “relativismo” sul terreno filosofico – politico.
La linea di oggi è quella del “né di destra, né di sinistra”, mentre si punta decisamente verso l’elettorato di destra.
Davanti al ripiegare del movimento socialista, però, il fascismo si schiera in modo esplicito all’estrema destra.
I liberali, ormai in pieno disfacimento, credettero di poter compiere un’operazione d’inserimento del fascismo nelle istituzioni attraverso un processo di progressiva integrazione e assorbimento “nella legalità” e ne favorirono, attraverso la presentazione di liste di “Blocco Nazionale”, l’ingresso in Parlamento con le elezioni del maggio 1921.
Un’analisi rivelatasi, alla fine, del tutto fallace.
Con l’ingresso in Parlamento il fascismo si avvia alla trasformazione in partito che viene formato (con la denominazione Partito Nazionale Fascista) nel Novembre del 1921.
La denominazione di oggi sarà quella del “Partito della Nazione”?
Il PNF teorizzò, da subito, quello che sarà definito “doppio binario”, quello legale e quello insurrezionale e l’ascesa al potere avvenne in una forma a metà dei due versanti con la marcia su Roma del 28 ottobre 1922.
Giunto al potere, mentre si dedicava all’edificazione delle strutture istituzionali di un regime poi giudicato a posteriori d’imperfetta vocazione totalitaria, il fascismo affrontò l’elaborazione di un apparato teorico – politico.
Ma l’intellettualità fascista era costituita, in primo luogo, non da ideologi ma da organizzatori.
Lo stesso filosofo Giovanni Gentile, entrato nel primo governo Mussolini e autore di quella che è stata definita la “più fascista delle riforme” quella della scuola, svolse lungo il ventennio un ruolo di straordinario organizzatore culturale.
Un ruolo di organizzatore culturale che gli consentì di egemonizzare gran parte del ceto intellettuale italiano.
Sul piano teorico Gentile fu un convinto sostenitore della continuità tra il liberalismo classico, incarnato nell’Italia della “destra storica”, e il fascismo: la “storicità” del fascismo (cui si contrapponeva il bolscevismo con la sua “antistoricità”) avrebbe dovuto dimostrare, partendo dalla volontà di conciliare le esigenze dell’individuo e quelle dello Stato (in un processo di subordinazione dell’una verso l’altra), la possibilità di realizzazione dello Stato Etico.
La Stato delineato da Alfredo Rocco, invece, fu tratteggiato in termini più marcatamente organicistici.
Lo Stato fu considerato come il “grande tutto”: in esso sarebbe stata superata la lotta di classe per proiettarsi, poi, grazie alla riconquistata solidarietà nazionale, nella competizione internazionale in nome della potenza demografica e del destino della nazione.
Tra Gentile e Rocco, comunque, la differenza – sul piano delle prospettive tendenziali – risultarono, alla fine, sfumate o comunque unificate, in primo luogo, dal punto vero di intersezione delle anime del fascismo: quello relativo al culto del “Duce”.
Il “Duce” rappresentava la guida che tracciava il cammino, il capo assoluto.
Il culto del Capo, è bene ricordarlo, è tornato molto di moda nell’attualità in forma anche diversa da quella che ha caratterizzato il ventennio precedente dalla presenza di un “imprenditore passato alla politica”.
Ai nostri giorni la “cultura dello Stato” è naturalmente affatto diversa, ma egualmente finalizzata alla detenzione del potere in una società massificata e neutralizzata dall’espressione di una cultura dell’individualismo e del consumo: fenomeni favoriti dall’espansione nell’uso dei mezzi di comunicazione di massa in esclusiva funzione di marketing riducendo l’offerta politica altresì come quella culturale a “prodotto”.
Gli intendimenti di fondo però tra il tipo di massificazione sociale imposta negli anni’30 e quella determinata adesso sono identici: il potere posto al di fuori dalla verifica democratica.
La verifica del consenso riservata all’esercizio di un’autonomia del politico appannaggio esclusivo di un ceto politico provvisto della possibilità esclusiva di usufruire di incentivi selettivi, esattamente come i gerarchi del ventennio.
Torniamo però al filo conduttore del nostro discorso.
Accanto al mussolinismo, lo statalismo fu il dato unificante del fascismo.
Pur rimanendo rilevante il peso del PNF e delle sue gerarchie, fu lo Stato a prevalere, anche sul piano teorico.
Lo stesso dibattito, del resto molto vivace, sul corporativismo, pur mettendo in luce una pluralità di posizioni (dalla rigida gabbia statuale prevista da Rocco, fino alla “corporazione proprietaria” di Ugo Spirito), finì con l’assestarsi nella forma più blanda sostenuta da Bottai rispetto a quella propugnata da Alfredo Rocco.
“Corporazione proprietaria” rappresenta un altro termine che sta trovando pratica applicazione nell’attualità del dibattito politico, specialmente quando si osserva il tentativo di distruzione dei corpi intermedi rappresentativi delle diverse realtà sociali.
Il fascismo tese a presentarsi, inoltre, come squisitamente “italiano” e “romano”: torna qui il tema ricorrente del nazionalismo – bellicista.
Un tema anch’esso di effettiva pregnanza per quel che riguarda l’oggi, a partire dal reclamare, da parte del governo in carica, di un ruolo “primario” in vista di una nuova avventura bellica in Africa (c’è da augurarsi che la ipocrita confessione di Blair –uno dei modelli – freni le velleità del neo – colonialismo occidentale, e quindi del colonialismo di ritorno in salsa tricolore).
L’alleanza con la Germania hitleriana e l’intervento nella seconda guerra mondiale, accentuarono i caratteri ideologici propri del fascismo degli esordi, come il bellicismo e, di converso, fecero emergere tratti ideologici propri di quella successiva fase rimasti in ombra quali il razzismo e l’antisemitismo.
Alcuni di questi caratteri, ma soprattutto il rifiuto della democrazia e la lotta senza quartiere proclamata al bolscevismo, consentirono di identificare un ruolo internazionale del fascismo, attivo in Europa, e felicemente definito da Palmiro Togliatti come “regime reazionario di massa”.
Una definizione che ha consentito, anche dopo la caduta del regime, di leggere il fenomeno del fascismo in senso transpolitico, come una sorta di cesarismo tipico del XX secolo basato su di un capo carismatico.
Un capo carismatico che portava avanti la ricerca del consenso delle masse attraverso una strumentazione di tipo propagandistico e pedagogico, l’adozione di slogan rivoluzionari (intensi per lo più in una direzione aggressivamente nazionalistica) nemica tanto della democrazia quanto del comunismo.
In ogni caso le interpretazioni del fascismo puntano oggi a una articolazione di giudizio (ben oltre la rigida definizione di Dimitrov: “Dittatura terroristica degli elementi reazionari, più sciovinistici e più imperialistici del capitale finanziario”).
Queste interpretazioni si pongono in relazione all’analisi socio – politica del nesso tra fascismo e classi sociali, con particolare riguardo alle classi medie, insistendo molto (anche grazie agli spunti offerti da Adorno e da Horkheimer) sulla tema della personalità autoritaria e su di un presunto ruolo “modernizzatore”.
Quanto di questi fermenti ancora agiscono, o possono continuare ad agire ed essere riattualizzati oggi all’interno del sistema politico italiano proprio nell’intreccio autoritarismo/modernizzazione dovrebbe essere compito degli analisti più attenti: forse è proprio il caso di richiamare, comunque, il massimo dell’attenzione rivolta all’analisi del passato posta in funzione a leggere la realtà attuale.
(Principali autori di riferimento: Palmiro Togliatti, Ernst Nolte, Angelo D’Orsi, Renzo De Felice).
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