Una quasi certezza è il referendum
confermativo della riforma costituzionale, che tra febbraio
e aprile dovrà essere votata in seconda lettura e a maggioranza
assoluta prima dal senato e poi dalla camera (è ancora in fase di
esaurimento la prima lettura, sarà una formalità). Poi la
Cassazione aspetterà fino alla fine di luglio le richieste di
referendum che arriveranno senz’altro dai parlamentari, ma
potrebbero arrivare anche da 500mila elettori. Se i renziani
presenteranno loro stessi la richiesta (bastano 65 senatori o 126
deputati) — in linea con la retorica del premier «il referendum lo
chiediamo noi» — la Cassazione aspetterà ugualmente tre mesi per
permettere ad altri soggetti (cittadini o regioni) di costituirsi
come soggetto riconosciuto nella campagna elettorale. Dopodiché
scatteranno altri tempi tecnici previsti dalla legge 352 del 1970,
per cui anche velocizzando al massimo (per esempio convocando il
consiglio dei ministri durante le ferie per il necessario decreto)
il referendum confermativo si potrà tenere al più presto a fine
ottobre. Al più tardi a dicembre. Giovedì prossimo il
Coordinamento per la democrazia costituzionale — giuristi
e politici riunitisi otto mesi fa, e c’erano anche parlamentari
della sinistra Pd che poi hanno votato il disegno di legge di riforma
costituzionale — presenterà il comitato per il No. Si preparano
con largo anticipo alla campagna, cominciando con un documento che
riprende le tesi presentate dai costituzionalisti Carlassare,
Rodotà, Villone, Ferrara, Azzariti e Pace dieci giorni fa sul
manifesto.
Lo stesso Comitato raccoglierà le
firme per sottoporre a referendum abrogativo la nuova legge
elettorale 52/2015, l’«Italicum». Due i quesiti, già depositati in
Cassazione (ma la raccolta delle firme scatterà in primavera
e l’eventuale referendum si terrebbe tra aprile e giugno del 2017).
Uno dei due propone l’abrogazione dei capilista a voto bloccato,
è identico a quello sul quale l’associazione Possibile di Civati ha
provato invano a raccogliere le firme in estate. L’altro quesito
punta a cancellare il premio di maggioranza e il ballottaggio,
virando l’Italicum verso una legge proporzionale con sbarramento
basso. È nuovo, anzi è una della ragioni per cui Coordinamento
e Possibile hanno marciato divisi. Questi due referendum
elettorali (eventualmente insieme ad altri di cui si discute in
questi giorni, sulla «buona scuola» o il jobs act, anche questi già
tentati da Possibile) potranno tenersi solo se nel 2017 non ci
saranno elezioni anticipate. In quel caso resterebbero congelati
e si ripeterebbe il caso di un’elezione politica con una legge che
rischia di essere cancellata a parlamento già eletto.
Se la legge costituzionale sarà
approvata definitivamente con il referendum a fine 2016, ci sarà
un’altra possibilità per mettere in questione l’Italicum. Molto
velocemente, in non più di quaranta giorni, quindi prima di
eventuali elezioni anticipate nel 2017. Lo permette il
meccanismo introdotto dalla riforma Renzi-Boschi con la norma
transitoria che consente alla minoranza di interrogare la
Consulta sulle leggi elettorali. Il Comitato del No, però,
comprensibilmente, non può puntare tutto sull’approvazione di una
riforma che avversa, e così ha messo in campo una serie di ricorsi ai
tribunali civili di tutti i capoluoghi nel tentativo di replicare
lo schema che ha portato alla fine della vecchia legge elettorale.
L’autore è lo stesso che ha partecipato all’abbattimento del
«Porcellum», Felice Besostri, e gli argomenti riprendono le
motivazioni della Consulta nella famosa prima sentenza del 2014. Ai
tribunali si chiederà di riconoscere il diritto dei cittadini al
voto «personale, uguale e libero», messo in forse dall’irragionevole
premio di maggioranza, dal ballottaggio e dai capilista
bloccati. L’Italicum — clausola strappata da Berlusconi — non
è applicabile fino a luglio 2016, dunque non è percorribile la
strada del ricorso d’urgenza (non c’è un pericolo «imminente»).
Besostri tenterà con il «procedimento sommario di cognizione» .
Punto a favore: proprio il precedente del Porcellum ha reso
praticabile l’approdo delle leggi elettorali alla Consulta. Punto
a sfavore: i tempi della giustizia. Allora dall’iniziativa in
tribunale alla sentenza della Consulta passarono quasi
cinque anni.
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