mercoledì 28 ottobre 2015

L’importanza di lottare con i curdi

 
dinamopress
Nel fine settimana numerose mobilitazioni a sostegno della resistenza curda. Anche Roma in piazza per dimostrare solidarietà e complicità a chi in Turchia lotta contro l’autoritaritarismo di Erdogan e in Siria combatte i fascisti dell’ISIS. Oggi alle 18, dibattito/assemblea a La Sapienza.
Il corteo “Roma per il Kurdistan” arriva dopo un anno in cui anche da Roma abbiamo provato a tessere relazioni continuative con la resistenza curda e con la rivoluzione del Rojava oltre ai singoli momenti di piazza: attraverso le staffette sanitarie, le carovane internazionali, le missioni di osservatori elettorali, un lavoro continuo di informazione indipendente, eventi a sostegno di singoli progetti. Durante questo anno in Turchia e in Siria sono cambiate moltissime cose, che è importante analizzare per capire a pieno l’importanza di questo corteo.
Una Turchia europea o un’Europa turca?
A luglio abbiamo assistito a una doppia offensiva nell’area orientale del Mediterraneo contro due, ovviamente diversissimi, esperimenti di alternativa. Mentre nella cornice dell’Europa neoliberale, i poteri finanziari affondavano il risultato del grande OXI espresso dal popolo greco e le possibilità di rottura del primo governo Syriza, al di là di Evros il Sultano turco scatenava un’offensiva su larga scala contro il popolo curdo e le opposizioni interne. Nel nord dell’Iraq, bombardamenti sulle postazioni del PKK e su numerosi villaggi. Centinaia di civili sterminati. In Siria, Kobane ancora isolata e occasionalmente sotto tiro da parte dell’esercito turco. All’interno, mano di ferro contro tutte le opposizioni: giornali assaltati e chiusi, giornalisti arrestati, Lupi Grigi e ultranazionalisti scatenati e, soprattutto, curdi sotto attacco. Oltre 2.000 membri dell’HDP arrestati, Demirthas inquisito per terrorismo, diversi co-sindaci rimossi, Cizre assediata per una settimana e poi violenze, omicidi e bombe come non se ne vedevano da tempo.
Nel frattempo, decine di migliaia di profughi di guerra lasciavano la Turchia diretti verso l’Europa, partendo indisturbati dalle coste di Bodrum, facendo saltare i principali dispositivi europei di governance dei flussi, producendo una grande ondata di solidarietà nel vecchio continente, ma anche ponendo un problema ai governi europei. Un problema irrisolvibile all’interno dellla cultura politica e umana che 20 anni di contrasto dei flussi migratori e de-umanizzazione dei migranti, di “educazione alla ferocia”, hanno prodotto. Un problema che l’Unione Europea ha scelto di affrontare con la solita miopia: provando a confinarlo al di là della sua frontiera. Quell’ “al di là”, che prima era la Libia di Gheddafi, è oggi la Turchia di Erdogan.
Nelle ultime settimane ci sono stati diversi incontri tra il leader turco e i rappresentanti dei governi europei, principalmente Merkel, per siglare un accordo sul contenimento dei flussi di profughi. In cambio Erdogan chiede soldi, liberalizzazione dei visti, importanti passi avanti nel processo di integrazione, la definizione della Turchia come “Paese sicuro” (cosa che complicherebbe moltissimo la richiesta di asilo di chi fugge dalle persecuzioni del Sultano). Si potrebbe dire molto sui singoli punti, sulle gravissime violazioni del diritto internazionale che si profilano e sugli effetti terribili che rischia di avere sulla vita di migliaia di rifugiati. Qui, però, interessa sottolineare ciò che il testo non dice. Ad esempio che, in un modo o nell’altro, nonostante per ora sia stato siglato solo un pre-accordo, i capi di governo europei hanno fatto campagna elettorale per Erdogan, il quale, ovviamente, ha utilizzato a scopi propagandistici questi incontri e soprattutto la tematica della liberalizzazione dei visti, molto sentita tra i turchi. O che l’Unione Europea continua ad evolversi sempre più rapidamente verso un’istituzione post-democratica. Dopo aver congelato per anni il processo di integrazione della Turchia a causa dei discorsi islamofobi prodotti in funzione anti-migranti, sembra oggi disposta a riprenderlo con uno Stato che si trova nel bel mezzo di una pericolosa accelerazione autoritaria, di cui è impossibile prevedere gli esiti. Non solo, nel riattivare questo processo aiuta nella corsa elettorale proprio chi cerca a tutti i costi la maggioranza assoluta per approvare una riforma costituzionale che aumenti esponenzialmente i suoi poteri anti-democratici. Interessante notare come i curdi, nella loro ottica post-statuale e post-nazionale, siano favorevoli all’integrazione europea: senza alcuna ingenuità, ma con la consapevolezza che lo spazio delle contraddizioni sarebbe sicuramente maggiore rispetto a quello di una Turchia sempre più autoritaria.
In questo contesto, la sola possibilità di pace e democrazia per quel paese si chiama partito dei popoli, HDP. L’HDP è un’organizzazione che nasce dalla resistenza curda, ma che ha avuto la capacità di articolare una proposta politica aperta a tutte le opposizioni anti-Erdogan e a tutte le minoranze vessate dai nazionalisti turchi. Una forza politica che lotta quotidianamente nelle strade, nelle città assediate, che ha subito una repressione brutale, con migliaia di arresti e decine di morti, che utilizza le elezioni come uno degli strumenti utili nella battaglia per l’autodeterminazione e per il confederalismo democratico.
Domenica sera, a urne chiuse, si capirà se la campagna elettorale del Sultano, portata avanti a colpi di mortaio e di bombe, ha sortito il suo effetto. Cioé se Erdogan sarà riuscito ad ottenere la maggioranza assoluta o a formare un governo con gli ultra-nazionalisti. O se, al contrario, l’HDP lo avrà impedito nuovamente. In entrambi i casi si preannunciano tempi molto duri e sarà dovere dei movimenti, anche qui da noi, fare tutto il possibile per sostenere chi resiste.
Rojava: un fiore nel deserto
Viviamo un presente in cui le ipotesi rivoluzionarie e le possibilità di alternativa radicale al capitalismo, e alle sue forme di organizzazione politica e sociale, sono confinate nell’ambito delle utopie. L’esperienza del Rojava costituisce invece un’esperienza tangibile che il sogno del comunismo, di un comunismo libertario e oltre lo Stato, è possibile. Abbiamo studiato a fondo la proposta politica di autogoverno e di democrazia radicale del confederalismo democratico e alcuni di noi hanno visitato i cantoni del Rojava. Senza nascondere i problemi, senza trionfalismi, ci sembra che quell’esperienza sia davvero un fiore nel deserto: un fiore sbocciato in un paese dilaniato dalla guerra, un fiore che deve crescere in un mondo dilaniato dal capitalismo.
I movimenti hanno avuto mancanze e difficoltà a prendere posizione nel conflitto siriano. E questo va detto. Come va detto con chiarezza che chiunque abbia a cuore la democrazia e la giustizia sociale non possa che opporsi a qualsiasi tiranno, compreso Assad. Probabilmente, una delle difficoltà più grosse è stata la mancanza di riferimenti chiari, con cui costruire anche rapporti politici e di scambio. Il Rojava, le YPG/YPJ, il PYD, sono questo riferimento.
La lotta per l’autodeterminazione che i curdi stanno combattendo in Siria si inserisce in uno scenario del conflitto sempre più complicato. L’intervento di Putin – che da giorni bombarda indiscriminatamente tutte le forze di opposizione ad Assad, producendo morte tra i civili e migliaia di profughi – e la strategia degli americani di riempire di armi i ribelli, stanno rendendo la Siria lo scenario di uno scontro sempre più grande. La posizione dei curdi, come ben raccontato in questo articolo, se tatticamente viene corteggiata da entrambe le grandi potenze, strategicamente è fuori dai loro piani: il modello sociale che propongono è troppo lontano sia da quello americano, che russo. C’è poi un terzo attore, cioè l’esercito turco, che non ha nessuna intenzione, né tatticamente, né strategicamente, di lasciare spazio a YPG/YPJ. Proprio ieri un comunicato delle Unità di Difesa Popolare del Rojava denunciava gli attacchi che l’esercito di Erdogan sferra da giorni contro Kobane, contro la città simbolo della lotta all’ISIS. Altre bombe con eco elettorale.
In questo contesto, il sostegno internazionale alla rivendicazione dell’apertura di un corridoio umanitario per Kobane rimane ancora importantissimo. Altrettanto importanti saranno i progetti per la ricostruzione della città, su cui anche qui in Italia diverse realtà stanno lavorando: dalla costruzione della scuola “Antonio Gramsci”, alla ricostruzione della Casa delle Donne di Kobane, al sostegno alla staffetta sanitaria (maggiori informazioni, prossimamente su retekurdistan.it).
Le mobilitazioni del fine settimana toccano diversi elementi dell’agire e delle tematiche dei movimenti: dal tema della pace, a quello di nuove forme di democrazia radicale; dalla questione del diritto di scelta e di libera circolazione, a quella di un’Europa che sia spazio democratico e vettore di diritti, e non rimanga ostaggio delle sue stesse paure; dalla denuncia dei massacri di Stato di Erdogan, alla solidarietà verso la resistenza dei curdi e della rivoluzione del Rojava. Un anno dopo le piazze globali che sostenevano la resistenza di Kobane contro l’ISIS, un giorno prima di un voto che segnerà il destino di milioni di persone.
A Roma, l’appuntamento è alle 15 in piazza dell’Esquilino.

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