Nel
2013 ho accettato la candidatura come capolista in Sicilia e sono
stato eletto in Senato con il Pd, partito che allora parlava di una
"Italia Bene Comune". Non amo i salta fossi e quando il
segretario-premier ha modificato geneticamente quel partito, provocando
una scissione silenziosa, aprendo a potentati locali e comitati
d'affare, e usando la direzione come
una sorta di ufficio stampa di Palazzo Chigi, ho continuato a condurre
la mia battaglia nel gruppo con il quale ero stato eletto.
Però è vero che ho votato troppe volte in dissenso: sulla scuola, la riforma costituzionale, l'Italicum, il jobs act, la Rai. Ed è vero che una nutrita minoranza interna, che sembrava condividere alcune delle mie idee, si è ormai ridotta a un gioco solo tattico, lanciando il sasso (ieri sulla legge costituzionale, oggi sulla legge di stabilità) per poi ritirare la mano.
Ieri, poi, Luigi Zanda mi ha dedicato - senza avvertire né me né altri di quale fosse l'ordine del giorno - una intera assemblea, cercando di ridurre le mie posizioni politiche a una semplice questione disciplinare, stilando la lista dei dissidenti "buoni", Amati, Casson e Tocci e del "cattivo", Mineo. Il Pd non espelle nessuno - ha detto Zanda - ma nelle conclusioni ha parlato di "incompatibilità" tra me e il lavoro del gruppo. Non espulsione, dunque, ma dimissioni fortemente raccomandate.
Come deluderlo? Da oggi lascio il gruppo, auguro buon lavoro ai senatori democratici e continuerò la mia battaglia in Senato, cominciando dalla legge di stabilità che, come dice Bersani, "sta isolando il Pd".
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