contropiano Pierluigi Ciocca
Sarà difficile collocare nella lista dei "gufi" anche Pierluigi Ciocca, ex vicedirettore generale della Banca d'Italia dal 1995 al 2006, due volte candidato alla carica di Governatore (sempre stoppato da Berlusconi), autore prolifico e molto rispettato (compreso Ricchi per sempre? Una storia economica d’Italia (1796-2005), edito da Bollati Boringhieri).
La sua critica della politica economica dei governi recenti, ma soprattutto dell'imprenditoria italiana, affiata all'articolo che qui di seguito riportiamo, apparso su il manifesto del 28 ottobre, è una sintesi perfetta del perché l'economia italiana non può riprendersi continuando su questa strada.
E' una critica del pensiero mainstream, tutto austerità e divieto di investimenti pubblici, anche se pienamente interna a una cornice che auspica un "buon funzionamento" dell'economia capitalistica a livello nazionale. Ciò la rende ancora più corrosiva, perché non accusabile di "utopismi" o incomprensione dei cambiamenti storici in corso a livello globale. Non dubitiamo infatti che in materia Ciocca abbia da insegnare molto a gente come Padoan (senza neanche perder tempo con i Renzi o le Boschi, a corto dei concetti chiave per districarsi in questa "tempesta perfetta").
La sferza si abbatte però sprattutto sulle principali imprese italiane, su quella masa di "prenditori" che pretendono il profitto senza il rischio, e che perciò tampinano "la politica" pretendendo sempre misure di favore che diluiscono ancora di più lo "spirito d'impresa". Una citazione per tutte:
Il progresso tecnico è da tempo spento. La produttività totale è diminuita del 6–7% rispetto ai primi anni 2000. Nella stessa manifattura il prodotto per ora lavorata ha ristagnato. È per questo – e non per eccessi salariali — che dal 2000 il costo del lavoro per unità manifatturiera prodotta è salito del 40%, rispetto al 15% in Francia e allo 0% in Germania.Pronunciata da un "tecnico" di questo clibro è una bocciatura senza appello, definitiva. Che smonta alla radice tutte le sparate propagandistiche sul Jobs Act e dintorni, gli 80 euro e le tasse sulla casa, ecc.
Per chi desidera orizzontarsi in modo saldo in questa materia, e magari anche per le formazioni politiche che si propongono un cambiamento radicale (ancorché "riformistico") del paese, un testo da studiare attentamente.
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L’economia italiana patisce da diversi lustri due mali congiunti: domanda globale anemica, stallo della produttività.
La bassa domanda globale frena la ripresa, la fuoruscita dalla recessione. L’improduttività delle imprese nega la crescita, il trend di sviluppo dell’economia. Ripresa e crescita vengono nei media spesso confuse. Sono invece da distinguere, pur nelle reciproche connessioni.
Dopo quella del 2008–2009, la nuova recessione inaugurata dal rigorismo del governo Monti alla fine del 2011 ha falciato il Pil del 5% nel 2012–2014: come nel 1929!
Tecnicamente, la recessione può dirsi finita nel primo semestre 2015, con risultati di produzione appena positivi dopo tre anni.
Ma la ripresa è lenta. L’incremento del Pil previsto dal Fondo Monetario è dello 0,8% per il 2015, dell’1,3% per il 2016. La ripresa è lenta rispetto all’abisso in cui è piombata l’attività economica: alla fine del 2014 gli investimenti erano del 35% più bassi che nel 2007.
Oltre che lenta la ripresa è esposta a più di un motivo di fragilità. È stata finora alimentata soprattutto da scorte, la componente più instabile della domanda. Non sarà agevolata da ulteriori cali del costo del danaro, del cambio dell’euro, del prezzo del petrolio. Il quantitative easing della Bce non stimola la domanda, nell’assenza di una politica fiscale europea espansiva. Con lo svilimento dell’euro che persegue rischia di eccitare svalutazioni competitive su scala mondiale (la reazione della Cina docet).
La ripresa è frenata dal rischio di deflazione che la Bce non riesce a sventare, dopo essersela lasciata sfuggire allorché fra luglio 2012 e settembre 2014 la base monetaria diminuì di un terzo. Vi è un «rischio Volkswagen», con riflessi europei e italiani. Infine, la ripresa non è sostenuta come si potrebbe dalla politica di bilancio del governo.
La crescita di lungo periodo nel capitalismo moderno dipende fino al 70% dal progresso tecnico. Senza produttività, non c’è sviluppo sostenuto e sostenibile.
Preoccupano tre ordini di considerazioni concernenti l’economia italiana.Il progresso tecnico è da tempo spento. La produttività totale è diminuita del 6–7% rispetto ai primi anni 2000. Nella stessa manifattura il prodotto per ora lavorata ha ristagnato. È per questo – e non per eccessi salariali — che dal 2000 il costo del lavoro per unità manifatturiera prodotta è salito del 40%, rispetto al 15% in Francia e allo 0% in Germania.
Sempre nella manifattura, il livello della produttività del lavoro italiano è inferiore del 25% a quello tedesco e a quello inglese.
Sussidiata dal governo, l’occupazione rischia di aumentare più della produzione. Nel primo semestre è salita dello 0,8% rispetto allo stesso semestre del 2014, il Pil solo dello 0,4%. Ciò abbatte la produttività e il progresso di trend dell’economia.
La politica economica governativa è inadeguata sia per la domanda/ripresa sia per la produttività/crescita. Su entrambi i fronti l’elemento chiave è rappresentato dagli investimenti pubblici (infrastrutture, sicurezza dei cittadini e del territorio, ricerca, scuola). Essi imprimono la più forte spinta alla domanda.
In fasi di ristagno, oltre il primo anno il loro moltiplicatore della domanda globale può salire da 1,5 a 2 e nel medio termine fino a 3. È molto maggiore del moltiplicatore – solo 0,8 — di consumi pubblici, trasferimenti, detassazione.
Anche l’apporto, diretto e indiretto, delle infrastrutture alla produttività del sistema può essere cospicuo. È quindi deplorevole che da anni in Italia non siano state neppure manutenute le infrastrutture esistenti, per qualità del 40% inferiori a quelle degli altri paesi del G7.
I governi Berlusconi-Tremonti avevano effettuato investimenti della PA mediamente pari al 3% del Pil, già al disotto del 3,5% che era stato toccato in precedenza. I governi Monti, Letta, Renzi hanno tagliato gli investimenti pubblici dal 2,8% del Pil nel 2011 al 2,2% nel 2014 e a una percentuale forse inferiore al 2% quest’anno. Questi ultimi tre governi hanno abbattuto le opere pubbliche a prezzi correnti del 20%: da 45 miliardi nel 2011 a 36 miliardi nel 2014. Se non lo avessero fatto, il Pil, ceteris paribus, sarebbe oggi di quasi 30 miliardi più alto e il deficit di bilancio e il debito pubblico più bassi.
Non è espansivo della domanda contenere uscite correnti – a maggior ragione investimenti! — impiegando quei danari per trasferimenti e per ridurre le tasse, sulla casa o su qualunque altro cespite: il de-moltiplicatore di quelle minore uscite e il moltiplicatore dei maggiori trasferimenti e delle minori imposte sono simili, dell’ordine dello 0,8 appena richiamato. L’effetto netto è quindi pressoché nullo.
La riforma dei rapporti di lavoro può essere variamente valutata nei suoi aspetti giuridici e sociali. Ma ha ripercussioni di segno incerto, comunque non quantificabili, su ripresa e crescita.
I sussidi alle imprese affinché assumano personale sono inefficaci o controproducenti in assenza di positive prospettive di domanda. Se accrescono l’occupazione, ma a parità di produzione, le imprese, con più lavoro e lo stesso capitale, abbattono ulteriormente la produttività nell’immediato, ovvero riducono gli investimenti e lo stock di capitale così frenando la domanda globale e la produttività di medio periodo.
Non conoscendo nel dettaglio la legge di stabilità che si sta definendo, occorre chiedersi se Governo e Parlamento intendano, o meno, fare quattro cose cruciali.
La prima: completare il riequilibrio del bilancio con una finalmente rigorosa spending review aprendo al tempo stesso lo spazio agli investimenti pubblici più idonei a sostenere la domanda e a favorire la produttività (si possono risparmiare 20–30 miliardi negli appalti e forniture e nei trasferimenti a imprese ed enti, le cui cifre sono gonfiate anche dalla corruzione).
La seconda: riscrivere secondo una visione d’assieme un diritto dell’economia (societario, fallimentare, processuale, amministrativo, del risparmio, della concorrenza) che deprime – per punti percentuali — la produttività.
La terza: imporre – non solo con l’antitrust — la concorrenza dinamica, senza la quale le imprese non sono stimolate a perseguire l’efficienza.
Va infine corretta una distribuzione del reddito oscenamente sperequata, incidendo sui più ricchi evasori fiscali per volgere il gettito recuperato a lenire le povertà e a ridurre le aliquote su lavoratori, pensionati, aziende che non evadono.
Ma anche la migliore politica economica fallirà se le imprese italiane dovessero nell’insieme non rispondere, persistendo nell’attesa neghittosa di un ritorno a profitti facili.
Nel 1992–2006, mentre la produttività scemava, furono realizzati profitti record. Lo furono grazie alla spesa pubblica a pioggia, all’evasione ed elusione fiscale, alla caduta del cambio, all’indebolirsi del sindacato, al calo della concorrenza. I profitti facili hanno allontanato per vent’anni le imprese dalla via maestra dell’investimento, della ricerca, dell’innovazione.
L’unica certezza, purtroppo suffragata dall’esperienza, è che le imprese non vanno accontentate quando, invece di aumentare la produttività, chiedono danari pubblici, privilegi, cambio svalutato, bassi salari.
I problemi italiani sono antichi, strutturali, quindi principalmente interni.
Tuttavia per la ripresa conta il quadro ciclico europeo. Il tono complessivo dell’Eurozona è dato dalla Germania. La Germania rifugge da una politica di bilancio che sostenga la propria domanda effettiva. L’economia tedesca paga a questo orientamento di fondo prezzi alti, che chi governa sceglie di far gravare sulla società civile, la quale evidentemente accetta di sopportarli.
La Germania sacrifica a questa sua politica di bilancio punti di reddito nazionale; cede all’estero attraverso l’avanzo commerciale – 8,5% del Pil! — risorse reali altrimenti impiegabili all’interno; espone i propri confini alla pressione degli immigrati. Questi cercano in Germania, dove la disoccupazione è strutturalmente bassa, il lavoro che non trovano in Italia, Spagna, Francia, Grecia, le economie Mediterranee frenate anche dal fermo della «locomotiva» tedesca.
Si deve escludere che il governo, la classe dirigente, gli economisti di Berlino ignorino questi costi economici per la società tedesca. Quindi la finalità perseguita non può che essere metaeconomica. Di politica estera?
Più che la memoria dell’iperinflazione di Weimar pesa sui tedeschi il ricordo della Germania asservita perché debitrice dopo i due conflitti mondiali? Può la Cancelliera pensare che per la nazione tedesca essere creditrice significhi supremazia politica sul resto d’Europa?
Sarebbe davvero grave, al di là degli aspetti strettamente economici, se in Europa l’economia fosse subordinata alle finalità di politica estera di un solo paese…
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