sabato 31 ottobre 2015

Il terzo nella foto, morto senza che nessuno gli chiedesse perdono

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Tutti conosciamo questa immagine: è diventata un’icona e anche un monumento, solo che dal monumento è stato eliminato uno dei tre protagonisti. La nostra non è una critica né una denuncia: anche noi, mentalmente, eliminiamo dalla foto quel secchetto dai capelli rossi che sembrava essere in prestito nella scena. L’anno è il 1968: il massacro di My Lay in Vietnam, il Maggio francese, l’assassinio di Martin Luther King e di Bob Kennedy negli Stati Uniti, i carri armati russi che mettono fine alla Primavera di Praga, la strage di Tlatelolco e, pochi giorni dopo, l’inizio delle olimpiadi in Messico, con il sangue degli studenti ancora fresco.
Nella finale dei 200 metri piani, il podio è occupato da due atleti neri nordamericani e da un australiano, parecchio più basso e magrolino degli altri due. I due neri salgono sul podio per ricevere le medaglie scalzi, indossando un guanto nero ciascuno e, quando suona l’inno nazionale statunitense, abbassano la testa e alzano il pugno inguantato, facendo il saluto delle Pantere Nere (erano scalzi in allusione ai loro fratelli delle piantagioni di cotone della Louisiana, che non avevano diritto a portare scarpe).

La foto fece il giro del mondo: nel regno della fraternità ecumenica attraverso lo sport, faceva il suo fulminante ingresso la protesta politica. Quasi mezzo secolo dopo mi scrive un lettore, uno di quelli esigenti che è una benedizione avere, e mi chiede di raccontare la storia della foto e del bianco che vi appare come in prestito: l’australiano Peter Norman. Io avevo otto anni nel 1968 ed ero stato educato nei valori del Barone De Coubertin; ancora mi ricordo della costernazione che provocò quell’episodio ma, come gli altri, ignoravo tutto di Peter Norman.
I velocisti neri Tommie “Jet” Smith e John Carlos sapevano, già all’inizio del 1968, di avere ottime probabilità di vincere una medaglia: i loro tempi miglioravano costantemente, non avevano rivali in vista, l’oro se lo sarebbero giocato tra loro; erano anche membri di un gruppo di atleti che avevano creato l’OPCR (Programma Olimpico per i Diritti Civili), che appoggiava la lotta contro la segregazione razziale. Di fronte all’indifferenza del Comitato Olimpico alle loro richieste, decisero che quando sarebbero saliti sul podio, per protesta avrebbero portato un distintivo dell’organizzazione. Smith era nato in Texas, settimo di undici fratelli, figlio di un bracciante delle piantagioni di cotone. Carlos era di Harlem, figlio di un calzolaio. Entrambi sapevano chiaramente per chi correvano. Nelle batterie sbaragliarono i loro rivali e anche in finale furono davanti, Carlos in testa e Smith alle calcagna fino allo sprint degli ultimi cinquanta metri, nel quale superò il compagno e già stava alzando le braccia quando vide con la coda dell’occhio l’australiano Norman, che aveva corso tutta la gara in sesta posizione, ridurre lo svantaggio fino ad incunearsi tra i due.
Per comprendere interamente la scena, bisogna dire che Norman era quasi venti centimetri più basso dei due afroamericani, ogni loro falcata, per lui, era una falcata e mezza; tuttavia, dal suo arrivo in Messico qualcosa era cambiata in lui: migliorava continuamente i suoi tempi. Fino a quel momento non era riuscito a mettere in ombra quelli di Smith e Carlos, ma ora stava accadendo l’impossibile. Norman corse i duecento metri in 20.07, un tempo che nessuno aveva ottenuto fino ad allora; obbligò “Jet” Smith a dare tutto in quegli ultimi metri e diventare così il primo atleta al mondo ad infrangere la barriera dei venti secondi (fissò il cronometro sui 19.86). Carlos arrivò terzo, con il suo 20.10.
Nello spogliatoio, prima di salire sul podio, Smith e Carlos incontrarono Norman e lo avvisarono di ciò che stavano per fare; l’australiano veniva da una famiglia di “salvi” (così erano chiamati nel suo Paese i volontari dell’Esercito della Salvezza). Quando Smith e Carlos gli chiesero se credesse nei diritti civili e nell’uguaglianza di fronte a Dio, rispose: ”Credo che ogni uomo abbia diritto a bere la stessa acqua. Credo in ciò che credete voi”. Indicò poi il distintivo dell’OPCR e chiese se ne avessero uno per lui; un altro atleta nordamericano gli diede il suo. Smith e Carlos si chiedevano da dove fosse sbucato quel bianchetto che pensava più a ciò che stavano per fare che alla sua medaglia d’argento; nella confusione, si accorsero di avere perso un paio di guanti: “Usatene uno ciascuno”, suggerì Norman. Dal podio non poterono vedere tutto ciò che accadeva sulle tribune: l’intero stadio in silenzio quando, alle prime note dell’inno, Smith e Carlos alzarono il pugno guantato.
Entrambi furono sospesi ed espulsi dal Villaggio Olimpico appena scesi dal podio (anche l’atleta che diede il suo distintivo a Norman fu sospeso). Appena tornati a casa iniziarono i problemi; uno di loro finì a lavare auto in Texas e l’altro a caricare valigie al porto di New York, insulti erano scritti continuamente sulle loro porte di casa, ogni notte il telefono suonava e arrivavano minacce anonime. Dovettero passare più di dieci anni perché potessero tornare al mondo dell’atletica, ormai come allenatori e poi come portavoce dell’uguaglianza nello sport.
Per Norman fu peggio. In Australia, le minoranze razziali subivano una forma più silenziosa ma altrettanto crudele di discriminazione (nel censimento del 1968 furono contate le pecore, ma non gli aborigeni). Esprimere appoggio all’equità razziale significò condannarsi all’ostracismo; non solo gli si rese difficile continuare a correre, ma non riusciva neppure a trovare lavoro. Più volte fu invitato a chiedere perdono per l’episodio del Messico ma rifiutò sempre e continuò ad allenarsi per conto suo, ottenendo tempi migliori di quelli dei suoi rivali. Nei quattro anni seguenti batté tredici volte il limite necessario a qualificarsi per i duecento metri alle Olimpiadi di Monaco del 1972, ma non fu convocato nella squadra nazionale e, per la prima volta nella storia dei Giochi, l’Australia non ebbe uno sprinter nelle finali dei cento e ducento metri. Norman tentò di dedicarsi al football australiano professionistico, ma una lesione al tendine di Achille lo portò quasi a perdere la gamba per cancrena. Divenne dipendente dai calmanti che gli prescrivevano, poi alcolista, poi si riprese e iniziò a militare nel movimento sindacale e a lavorare in una macelleria; usava la sua medaglia olimpica come fermaporta del suo ufficio.
Quando fu annunciato che l’Australia avrebbe organizzato i Giochi nel 2000, Norman si illuse che lo avrebbero invitato ai festeggiamenti; gli organizzatori di Sidney invitarono tutti i vincitori di medaglia olimpica australiani a sfilare nel giorno dell’inaugurazione: Norman non solo fu escluso, ma non gli fornirono nemmeno i biglietti per entrare allo stadio. Era il miglior velocista della storia australiana, ma non esisteva; anche nella statua eretta nel campus di San José, California, per commemorare quel podio di Messico ’68, il secondo gradino era vuoto.
Norman è morto senza che nessuno gli chiedesse perdono, il 9 ottobre 2006; gli ormai sessantenni Smith e Carlos andarono a Melbourne e portarono il feretro a spalla, la banda che accompagnava il corteo funebre suonava “Chariots of fire”. Il nipote di Norman, Matt, ha realizzato un documentario su suo zio: non ottenne alcun finanziamento nel suo Paese, ma riuscì a completarlo lo stesso; dopo che il documentario è stato presentato nel circuito dei festival, ottenendo diversi premi, il Comitato Olimpico ha dichiarato il 9 Ottobre “Giornata Mondiale dell’Atletica”. Il record di 20.07 rimane tuttora imbattuto in Australia: nessun altro record, nell’atletica mondiale, è durato così a lungo.

Trad. it. Gorri

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