Qual è l’obiettivo oggi in grado di rifondare la prospettiva teorico-politica della sinistra? Come concepire un futuro “migliore” secondo criteri argomentati e da chiunque contestabili? Quali caratteristiche avrebbe un “buon posto per vivere” che colga e rafforzi alcune tendenze storiche che stanno spingendo le persone a divaricare il mondo della vita dal mondo delle merci?
1. «Uno dei segni più nitidi del declino dell’intelligenza critica è l’incapacità di un numero crescente di nostri contemporanei di immaginare una figura dell’avvenire che non sia una semplice amplificazione del presente».[1] In questo breve articolo, rimandando a una trattazione maggiormente sistematica,[2] effettuo un esercizio d’immaginazione critica: come possiamo oggi concepire un futuro che valutiamo “migliore” secondo criteri esplicitamente argomentati e da chiunque contestabili? Quali caratteristiche avrebbe un “buon posto per vivere” che colga e rafforzi alcune tendenze storiche che stanno spingendo le persone a divaricare il mondo della vita dal mondo delle merci?
2. Il buon posto per vivere che qui evoco s’ispira all’ideale secondo cui la mia libertà si esprime soltanto alla condizione che si manifesti la vostra, e viceversa. «La regola della convivenza non consiste nel fatto che la mia libertà finisce dove comincia la libertà dell’altro; cioè non sta nel fatto che la libertà dell’altro è il limite della libertà mia; sta nel fatto che la libertà dell’altro è la condizione della libertà mia; se l’altro non è libero, non sono libero neanche io».[3] Non posso scindere la mia libertà dalla vostra, o la vostra dalla mia: la libertà è collettivamente indivisibile, o non è. Tuttavia, si vive in un buon posto non perché esso sbandiera un magnifico ideale, bensì perché ne approssima la realizzazione.
La regola aurea per approssimare quell’ideale è “né comandare, né obbedire”.[4] Essa indica che se nessuno è in grado di prevaricare gli altri, tutti hanno la garanzia di non essere subalterni. Ciò succede se i soggetti sono eguali in termini di potere: se nella società si attenuano, fino a scomparire, i nessi asimmetrici e gerarchici tra i soggetti, allora svanisce la possibilità che qualcuno ordini e qualcuno subisca. La regola aurea è dunque il mezzo per rendere concreto ed effettivo l’ideale della libertà condivisa. Se io comando su voi, amplio le mie opportunità e spesso ottengo gratificazioni, mentre voi, obbedendo, vi sentite di solito limitati e frustrati. Eppure siamo accomunati di fronte alla libertà. Se comando voi, perdo la mia libertà tanto quanto se vi obbedisco: perdo infatti la possibilità di godere della vostra libertà, e quindi sono io stesso non libero. Quando i soggetti non sono eguali in termini di potere, nemmeno possono condividere la libertà.
3. Ogni criterio o principio di giustizia stabilisce di trattare in modo eguale gli eguali. Una differenza tra l’uno e l’altro criterio deriva dal maggiore o minore grado d’inclusività. Dati i membri di una certa collettività umana, è autenticamente egualitario il criterio “a ciascuno lo stesso”, che tratta tutti egualmente.[5] Quasi nessun criterio di giustizia si avvicina a una tale onni-inclusività, poiché di solito, oltre ad assegnare parti eguali (dei benefici o degli oneri) agli eguali, eroga parti disuguali ai disuguali, in ragione del merito, del talento, dello sforzo, della capacità, del bisogno, del risultato, del rango, della forza, e così via. Un criterio che formalmente raggiunge la piena inclusività è l’isonomia: quest’antico termine greco indica l’esclusione di ogni discriminazione giuridica non giustificata, stabilendo che la legge e i diritti sono eguali per tutti.[6] Tuttavia, «Thomas Jefferson poteva essere proprietario di schiavi e nello stesso tempo considerare di per sé evidente che il creatore aveva donato a tutti gli uomini certi diritti inalienabili», semplicemente evitando di collocare gli schiavi tra gli uomini;[7] ovvero, l’inclusività dell’isonomia si spinge fin dove le relazioni di potere tra i soggetti e tra i gruppi lo consentono.
Ciò porta al criterio dell’isocrazia, secondo cui è ingiusta ogni ripartizione disuguale del potere. Esso è, a me sembra, l’unico criterio universalistico sostanziale, e quindi è il solo principio che assegna parti eguali a tutti: il pareggiamento del potere in tanto ha senso, in quanto non esclude alcuno; basta che un unico soggetto conservi o conquisti – in modo non casuale e transeunte – un maggior potere, affinché l’isocrazia si disintegri. Come la libertà condivisa (vedi §2), anche l’isocrazia vale per l’intero corpo sociale, senza eccezione alcuna, oppure svanisce. La coerente purezza del requisito d’indivisibilità aiuta a comprendere perché siano proprio questa coppia – l’ideale della libertà condivisa e quello, più completo, dell’isocrazia – ad attraversare la cultura libertaria moderna (e, più modestamente, ad alimentare la mia riflessione).
4. Se dunque un buon posto per vivere è caratterizzato dall’eguaglianza di potere dei cittadini, chiediamoci come tale eguaglianza possa essere concepita e praticata. La concezione più adeguata a una società radicalmente pluralistica è l’eguaglianza complessa.[8] Prendiamo il caso di due soggetti, A e B, che attraversano numerose sfere istituzionali, in ognuna delle quali circola uno specifico bene sociale. Supponiamo che A controlli una maggiore quota di bene, rispetto a B, nelle sfere 1 e 2, mentre B controlla una maggiore quota di bene, rispetto a A, nelle sfere 3 e 4. Si ha eguaglianza complessa quando A non può utilizzare il suo vantaggio su B nelle sfere 1 e 2 per avvantaggiarsi su B anche nelle sfere 3 e 4, e viceversa.
Questa concezione complessa dell’eguaglianza sociale si scontra, tuttavia, con la capacità semplificatrice del potere. In termini intuitivi e per il momento imprecisi, il potere è la mia capacità d’azione rispetto agli altri. Mentre non posso compensare una cattiva automobile con un buon amico, posso usare una forma di potere per ottenerne un’altra. Ad esempio, con il potere economico posso, sotto determinate condizioni, accrescere il potere civile, e viceversa. Ciò succede proprio perché il potere è la mia capacità di modificare il raggio d’azione in una sfera sociale. Il potere, dunque, non accetta che la sfera in cui circola un bene sociale sia separata dalla sfera in cui circola un altro bene; al contrario, esso modifica continuamente i confini di ogni sfera, affinché il soggetto acquisisca maggiori vantaggi relativi. È il caso di una società in cui i soldi, oltre che beni di consumo, comprano voti elettorali, accessi a istituzioni prestigiose, cure mediche migliori e licenze edilizie privilegiate.
Insomma, il potere semplifica la complessità dell’eguaglianza rendendo disuguali i cittadini. Più esattamente, il potere trasforma l’eguaglianza sociale complessa in una forma di disuguaglianza semplice, nella quale tutti i cittadini sono valutati unicamente nei riguardi del vantaggio X, che è il livello di potere di ciascuno sugli altri. La semplicità del potere consiste nella capacità – che esso soltanto possiede – di valicare i confini delle varie sfere istituzionali, di convertire forzatamente un bene nell’altro, di aspirare al dominio nel sistema sociale complessivo. Occorre e basta essere disuguali detenendo un maggiore potere, per spiazzare ogni tentativo di costruire l’eguaglianza complessa.
Ancor più importante, vale la condizione rovesciata: per non travolgere la complessità dell’eguaglianza, occorre e basta livellare il potere di ogni cittadino. Soltanto se la disuguaglianza semplice tra chi comanda e chi obbedisce si attenua fino a scomparire, la società si apre alla ricerca dell’eguaglianza complessa. L’isocrazia è la forma del vivere associato che, affievolendo il potere semplificante del potere, minando la possibilità che qualcuno domini attraverso le sfere istituzionali, favorisce l’eguale valorizzazione delle differenze. Essa, senza puntare direttamente all’eguaglianza sociale complessa, la rende possibile.
Questo stesso punto cruciale lo riformulo così: «la libertà di ciascuno non si realizza che nella uguaglianza di tutti».[9] Ma uguaglianza di che cosa? Del reddito procapite? Della ricchezza? Delle opportunità di autorealizzazione? Dei punti di partenza? Della felicità soggettiva? Del benessere collettivo? Della non-interferenza nella sfera privata? Dell’intervento dello Stato? Dell’influenza politica? Dello status sociale? Storicamente, le risposte sono tante. L’approccio che qui sostengo suggerisce che l’obiettivo diretto del buon posto per vivere è di tendere verso l’eguaglianza di potere dei cittadini, per avvicinare indirettamente l’obiettivo dell’eguaglianza complessa.
5. Ho delineato le premesse valoriali del buon posto per vivere. L’esercizio dell’immaginazione critica rimane però sospeso a mezz’aria; per compiersi, deve altresì discutere sia la congruenza di quelle premesse con l’effettiva nostra costituzione antropologica, sia l’assetto delle principali istituzioni economiche e politiche. Non è possibile riassumere queste analisi, per le quali rimando al mio libro. Concludo con una domanda: qual è l’obiettivo oggi in grado di rifondare la prospettiva teorico-politica della sinistra? In estrema sintesi, la risposta che suggerisco sta nel passaggio dall’isonomia all’isocrazia: l’ideale della libertà condivisa, che non si è mai realizzato come libertà degli eguali davanti alla norma, può essere avvicinato come libertà degli eguali nel potere.
NOTE
[1] Jean-Claude Michéa, Il vicolo cieco dell’economia (2002), Elèuthera, Milano, 2004, p.58.
[2] Nicolò Bellanca, Isocrazia. Un buon posto per vivere, in corso di pubblicazione.
[3] Claudio Napoleoni, “Nella storia non c’è salvezza” (1988), in Id., Cercate ancora, a cura di Raniero La Valle, Editori Riuniti, Roma, 1990, p.125.
[4] Vedi Eduardo Colombo, Lo spazio politico dell’anarchia, Elèuthera, Milano, 2008, cap.IV.
[5] Giovanni Sartori, Elementi di teoria politica, Il Mulino, Bologna, 1987, pp.99-104.
[6] Friedrich A. Hayek, La società libera (1960), Edizioni Seam, Formello (RM), 1998, specie pp.223-225.
[7] Richard Rorty, Verità e progresso (1998), Feltrinelli, Milano, 2003, p.157.
[8] Michael Walzer, Sfere di giustizia (1983), Feltrinelli, Milano, 2008; David Miller, “Complex equality”, in David Miller & Michael Walzer (a cura di), Pluralism, justice, and equality, Oxford University Press, Oxford, 1995. [9] Michail Bakunin, “Catechismo rivoluzionario” (1851), in Id., La libertà degli uguali, Elèuthera, Milano, 2009, p.95.
(30 settembre 2015)
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