Nei giorni scorsi c’è stato un evento politico che cambia il quadro entro cui sono abituate a muoversi le formazioni e i movimenti che abitualmente chiamiamo “sinistra europea”.
Il Partie de Gauche (componente centrale di France Insoumise, visto che è stato fondato da Lean-Luc Mélénchon) è uscito dal Partito della Sinistra Europea,
ovvero l’insieme delle formazioni che fin qui hanno concorso a formare,
alle elezioni comunitarie, il gruppo parlamentare. Come si intuisce
facilmente, il termine “partito”
è qui usato in modo immaginifico, trattandosi di un’alleanza tra
formazioni di orientamento ideologico molto plurale (comunisti,
“rosso-verdi”, socialisti, democratici di sinistra) che hanno spesso in
comune poco più dell’attività al parlamento di Strasburgo.
La notizia è rilevante per almeno due ragioni oggettive: a) France Insoumise è una delle formazioni numericamente più importanti di
questo schieramento (ha preso il 19,6% nelle elezioni presidenziali di
un anno fa, sfiorando il ballottaggi con Macron), la Francia è uno dei
due “motori” dell’Unione Europea e la seconda economia dell’eurozona; b)
tra un anno ci sono le elezioni europee e le varie “sinistre”
continentali stanno annusandosi per vedere quali assemblaggi inventare
per superare la soglia di sbarramento – là dove questo obiettivo, il 4%,
è incerto – e per definire un briciolo di identità comune
riconoscibile.
L’uscita di France Insoumise, dunque, in questo mondo rappresenta una vera e propria bomba nucleare.
Soprattutto per la motivazione addotta dai francesi: «A
un anno dalle elezioni europee, non è più possibile unire nello stesso
partito europeo gli oppositori e gli artigiani dell’austerità».
Non
si tratta di una distinzione “ideologica”, perché solo in apparenza –
ossia nella “comunicazione” – tutte le forze della Sinistra Europea sono
contrarie alle politiche di austerità imposte dalla Troika (Bce, Ue,
Fmi). Per la quasi totalità di quelle forze, infatti, il tema è quasi
soltanto oggetto di campagna elettorale o pratiche poliche all’interno
del proprio paese, visto che sono fuori dai governi nazionali e hanno in genere ben scarse probabilità di accedervi.
Quindi non obbligate a dimostrare concretamente, alla propria gente e
agli altri popoli europei, di esser seriamente intenzionati a fare quel
che dicono.
Per una di queste forze, però, la situazione è diametralmente opposta.
Syriza, il movimento-partito di Tsipras, è da quasi quattro anni al
governo della Grecia e da tre – dopo l’incredibile voltafaccia operato
davanti alla vittoria del “NO” nel referendum del 15 luglio 2015 –
applica con diligenza tutte le direttive-capestro ordinate da Bruxelles,
Francoforte e Fmi. Non è una illazione malevola, visto che la Troika,
qualche giorno fa, ha “promosso” Atene mettendo fine al
commissariamento, anche se restano da pagare 110 miliardi di debito in
10 anni…
La France Insoumise aveva chiesto alla Sinistra Europea, qualche mese fa, di estromettere Syrizia dal gruppo, proprio
per l’applicazione di politiche ufficialmente rifiutate non solo dal
“programma politico” del movimento di Tsipras, ma persino dal voto
referendario: «qualsiasi
applicazione di questa politica da parte di un membro della Sinistra
europea ignora qualsiasi posizione anti-austerity presa dagli altri
membri». O peggio: «Syriza
è diventata la rappresentante della linea di austerità in Grecia al
punto di attaccare il diritto di sciopero, abbassare drasticamente le
pensioni, privatizzare interi settori dell’economia; tutte le misure
contro le quali i nostri partiti combattono in ciascuno dei nostri Paesi».
La Linke tedesca – partito-guida della SE – si era opposta, ma la frattura non si è ovviamente solo per questo ricomposta, producendo per ora l’uscita del movimento di Mélénchon.
Il quale, però, può contare sul consolidamento dei rapporti con Podemos e Bloco de Esquerda (la Dichiarazione di Lisbona tra i tre è stata poi sottoscritta anche da Potere al Popolo e
da altre organizzazioni europee), oltre che sui rapporti avanzati con
molti partiti di sinistra europei, e perfino con una consistente “fronda” della stessa Linke guidata da Sarah Wagenknecht.
In
vista delle elezioni del prossimo anno, insomma, si vanno delineando
due possibili schieramenti: uno “classico”, fatto di movimenti o partiti
di “sinistra europeista” critica nei confronti delle politiche di
austerità ma disposte ad appoggiare governi centristi o di
centrosinistra (definizione abbastanza difficile da riconoscere,
nell’attuale panorama continentale), pur di far argine contro la marea
populista e razzista; e uno esplicitamente critico nei confronti dell’Unione Europea,
costruita su trattati di impronta ordoliberista che di fatto hanno
favorito soltanto le banche e il capitale multinazionale e, in misura
minore, Germania e paesi del Nord.
France Insoumise ha
del resto da tempo presentato un programma politico che prevede, in
caso non impossibile di vittoria elettorale a breve-medio termine, un Piano Bche contempla l’uscita unilaterale dai trattati, la ripresa di controllo della Banca centrale,
il controllo su capitali e merci, una nuova cooperazione tra gli Stati,
in particolare quelli euromediterranei ecc. Insomma, la fine
dell’Unione Europea e la nascita di una comunità di Stati fondata su
altri princìpi di politica interna, industriale, ecc; “un’alleanza
di paesi del Sud Europa per uscire dall’austerità ed impegnarsi in
politiche concertate di rinnovamento ecologico e sociale delle attività
economiche”.
A
noi sembra che questa “chiarificazione” interna alla sinistra europea
non possa che essere salutare, perché è veramente difficile essere
credibili davanti al proprio blocco sociale senza rispondere alla
domanda che questo pone ormai da tempo: “ma
se ti voto e ti mando lì, chi mi assicura che non farai esattamente
come gli altri, fregandotene dei miei interessi e bisogni vitali?”.
Abbiamo
visto, in Italia, che a questa domanda le varie sinistre hanno evitato
accuratamente di rispondere, anche perché almeno quella neoliberista –
il Pd, fondamentalmente, compresi gli “scissionisti” – è universalmente
riconosciuta dal “popolo” come grande responsabile della disfatta
sociale che ha azzerato diritti sociali, welfare, istruzione,
occupazione, contratti. La stessa destra ora al governo, che pure aveva
rastrellato voti proprio criticando le politiche europee (sui migranti
come sull’euro, sui trattati come sulle sanzioni a Mosca), non appena
insediatasi a Palazzo Chigi ha immediatamente dismesso ogni
“rivendicazione” economica, continuando ad agitare soltanto lo
spauracchio dei migranti.
Si
apre insomma una possibilità vera di costruire opposizione di massa
alle politiche europee e del governo grillin-leghista. E di farlo
insieme ad altre forze politiche europee che rompono lo schema fin qui
egemone (o si appoggiano i “neoliberisti europeisti” oppure ci si
consegna alla destra razzista) e si impegnano a fare del rifiuto delle
politiche di austerità la vera discriminante tra progressisti e
reazionari. Tra chi sta davvero col popolo e chi con le banche o le
multinazionali.
Il
“nazionalismo”, come si vede, non c‘entra nulla. Le destre nazionaliste
sono pienamente accettate a Bruxelles, anche se ovviamente “pressate”
per aggiustare le proprie pretese senza mettere in discussione gli
equilibri e i trattati.
L’Unione Europea di oggi non è soltanto neoliberista, ma pienamente euronazionalista e di destra. Lo
sforzo che le élites stanno facendo è di piegare il “nazionalismo
nazionale” in direzione di un “nazionalismo europeo” che consenta loro
di affrontare con maggiori forze la competizione con gli altri poli
decisivi della “competizione globale”: Usa, Cina, Russia, ecc.
Una sinistra di classe, in questa situazione, o agisce
per rompere lo schema o finisce per accettarlo. E’ la stessa
alternativa che si era posta nel 1914 a tutti i partiti socialisti
d’Europa: votare o non votare i “crediti di guerra”?
La divisione tra socialisti nazionalisti e comunisti internazionalisti nacque da lì, non dal confronto ideologico.
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