Dietro le formule nebulose del Jobs Act del governo si rivela la volontà di rendere la prestazione della manodopera più flessibile sia in entrata che in uscita, cioè meno garantita per i dipendenti sia nell’assunzione che nel licenziamento. Ma un’alternativa è possibile. ll testo dell’introduzione al Workers Act di Sbilanciamoci!
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Il lavoro diventa soggetto a tutte le versioni e forme diverse di precariato; il contratto a tempo indeterminato, definito in modo ingannevole “a tutele crescenti”, allarga tempi e spazi di precariato a cominciare senza remora alcuna dai primi tre anni, quando è perfino esente da imposizione fiscale per l’impresa. La troppo vasta tipologia dei contratti, con regolamenti relativi, non è stata corretta salvo in parte nel contratto a progetto, dov’era diventata scandalosa. In genere la molteplicità delle misure recepisce quella che – quando l’attuale Pd era ancora Pci e il sindacalismo cattolico aveva i suoi anni di gloria – era comunemente definita “giungla contrattuale”. I ripetuti annunci di semplificazione sono brutalmente smentiti da una legislazione il cui arruffamento non è indice di confusione, quanto moltiplicazione delle vie offerte al datore di lavoro di trattare i suoi dipendenti con il metodo “usa e getta”.
Si tratta di un arretramento poderoso dei lavoratori nei rapporti di forza con il capitale, perseguito dal governo nella convinzione – almeno presentata come tale – di agevolare l’imprenditore in un rilancio della crescita dell’economia, come se la sua attuale fluttuazione dallo zero allo zerovirgola si dovesse alle pretese eccessive imposte dai dipendenti, dai “lacci e lacciuoli” da loro messi allo sviluppo. L’assenza di qualsiasi piano di reindustrializzazione e di riduzione della disoccupazione crescente in Italia dimostra la miopia dell’attuale esecutivo nell’operare questa stretta.
Essa non è dovuta alla crisi, ma ne profitta per ridurre le tutele dei lavoratori e l’importo dei salari, insomma per allargare i profitti dell’impresa e indurre una ripresa degli investimenti a spese dei salariati, senza modificare il prodotto o le tecniche di produzione. È una svolta di 180 gradi rispetto alla linea keynesiana che aveva sorretto la crescita del dopoguerra; una svolta che non solo penalizza i dipendenti ma non riesce a vivificare il mercato, che già fa sapere di non contare su più di un punto di crescita come conseguenza dell’applicazione del Jobs act. Il cardine della politica di austerità si rivela non solo socialmente ingiusto, ma inefficace, producendo tensioni sociali e soffocamenti; l’esempio più negativo è quello che Bruxelles insiste ad imporre alla Grecia con filosofia del rimborso totale e in tempi stretti del debito, ma è una politica che pesa su tutti i paesi del sud Europa, mettendone in pericolo l’integrazione. È evidente l’intenzione di dare all’Europa una configurazione squilibrata fra nord e sud, confermando il potere dei primi, mentre si accantona ogni tentativo di definire condizioni uguali per tutti nella fiscalità e nelle strutture produttive.
Il Jobs act ha imposto di forza una diminuzione dei diritti del lavoro che interpella il parlamento e i partiti decisivi in esso, in primis il Pd, sulla svolta culturale avvenuta in questi anni; l’idea che un paese si fa del rapporto di lavoro è infatti fondamentale per la qualità della democrazia e della socialità che si persegue. L’idea del lavoro ha conosciuto una crescita difficoltosa ma costante dalla seconda guerra mondiale e dalla sconfitta del fascismo fino agli anni novanta del secolo scorso, e un’involuzione decisiva nella legificazione dell’attuale governo; è significativo che essa avvenga sotto l’egida di un premier espresso dal più grande partito di sinistra, fino a venti anni fa simbolo del movimento operaio. Non siamo una eccezione, sono chiamati governi di sinistra o di coalizione con la sinistra quelli che trascinano l’Europa sulla via dell’austerità, con la restrizione dei diritti sociali, del welfare e della spesa pubblica.
Questa svolta culturale ha radici lontane. C’è da riflettere sul fatto che il movimento sociale più partecipato e liberatorio, quello del 1968, che esplode alla fine di un decennio di lotte, apre in Italia la strada a due nuove e decisive forme del politico: il movimento delle donne (femminista) e quello ecologico, fra loro disuniti, ma prorompenti su strati e soggetti sociali nuovi rispetto al movimento operaio, e spinti più che a integrarlo a metterlo sotto accusa per la balbuzie con i quali i suoi esponenti politici e sindacali, piuttosto che sposarne gli intenti, vi restano in concreto estranei. Femministe e verdi accusano la già eccessivamente conclamata “fabbrica” di sordità sulla questione delle donne (sordità dovuta al maschilismo dominante sia a destra che a sinistra) e, peggio, di aver appoggiato o addirittura spinto a uno sviluppismo industriale sconsiderato, cieco ai limiti del pianeta e quindi opposto alla sostenibilità della produzione e dei territori.
Sta di fatto che questi grandi filoni di critica del presente investono masse crescenti ma divise e incapaci di parlarsi, ciascuna in contrapposizione alle altre e aspirante all’egemonia. La cosiddetta crisi della politica è stata una porta spalancata al liberismo che pareva espulso dall’orizzonte e vi è trionfalmente rientrato, e con tanto più impatto in quanto che essa si verifica contemporaneamente al precipitare delle società dette comuniste. L’Unione sovietica, la Repubblica popolare cinese e Cuba, rivoluzioni nate in condizioni storiche diverse ma che hanno avuto in comune l’obiettivo della liberazione del lavoro dal capitale sono tutte e tre passate – dopo il 1989 – a forme esplicite di capitalismo di stato, aperto all’iniziativa privata.
È stato il caso più evidente di eterogenesi dei fini di un movimento internazionale giovanile che, mirando a un approfondimento inedito del pensiero politico moderno e delle sue principali istituzioni attraverso uno scavo delle radici dell’autoritarismo ai fini di una più compiuta liberazione della persona, perde di vista la mondializzazione del capitale, e ritenendo impossibile metterla in causa , ha finito con l’offuscare dalle coscienze l’importanza del rapporto di lavoro, un tempo considerato “centrale”.
Certo non da solo; le modifiche dell’organizzazione proprietaria e della produzione, il venir meno della grande fabbrica, già contenitore della parte essenziale della forza lavoro e quindi luogo deputato delle sue elaborazioni politiche e sindacali, ha favorito la presa profonda nella società di alcune realtà e di alcune favole: la fine della figura operaia, proprio mentre essa assumeva proporzioni inedite sul globo, la fine di una identificabile proprietà del mezzo di produzione, il moltiplicarsi delle esternalizzazioni e delle tipologie contrattuali, il dilagare del prodotto immateriale rispetto alla fisicità del prodotto industriale, l’immaterialità delle tecniche del processo produttivo, la crescita, rispetto alle capacità elementari del lavoro parcellizzato, del ricorso a un “intelletto generale” che implicava facoltà e molteplici saperi della vita urbana. Tutto questo ha prodotto e accompagnato la frammentazione della coscienza dei lavoratori e il minore impatto delle loro organizzazioni tradizionali. Sta di fatto che dagli anni ottanta in poi l’aderenza di una “coscienza operaia” alle trasformazioni proprietarie e del processo produttivo è andata sfocandosi e indebolendosi, mentre nel formarsi in misura crescente di movimenti puntuali ma separati, appare perduta un’interpretazione comune dell’avversario capitalistico e del “che fare” degli sfruttati. I gruppi di ricerca infittiscono ma non comunicano, neanche nelle forme razionali: c’è la separatezza dei sindacati anche in Europa, il frantumarsi di un’opinione politica comune, fatta eccezione per Syriza in Grecia e Podemos in Spagna.
Neanche quando il governo lancia un’operazione capitalistica su grande scala, come il Jobs act, essa produce una scossa immediata di percezione da parte del blocco popolare, probabilmente perché di “blocco” non si può più, o non ancora, parlare – e qui si viene alla proposta di coalizione sociale di Maurizio Landini. In Italia occorre molto tempo perché si realizzi una manifestazione nazionale di protesta, mentre l’infiacchirsi dei meccanismi maggioranza/opposizione in democrazia induce reazioni scomposte del governo.
Non va dimenticato infatti che il frutto più velenoso della “crisi della politica”, visibile specialmente negli eventi elettorali, è l’impoverimento della rappresentanza e delle sue regole primarie che dà luogo al confuso emergere di un “partito della nazione” immaginato da Renzi, in cerca di un’investitura popolare, che rinnovi i fasti del 40% ottenuto alle elezioni europee, sul quale si basa l’autorità di cui fa sfoggio per indebolire il patto costituzionale. La ricezione inizialmente senza intoppi – tranne quelli venuti dalla Cgil o, come questo lavoro, da Sbilanciamoci!, nel silenzio del Partito democratico – è significativa di un’ennesima caduta culturale e morale del paese. Di qui l’importanza negativa del Jobs act e di questo tentativo di opporgli una critica e un’alternativa, offerte come materiale di lavoro alla classe operaia e ai suoi gruppi di studio, cui spetta discuterle ed eventualmente modificarle.
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