Si
profila un disastro ad Afrin. Nelle scorse settimane le difese delle
Ypg/Ypj curde, accompagnate dalle Forze di Difesa Nazionale (NDF) legate
al governo siriano sono rapidamente collassate di fronte all’avanzata
dell’esercito turco e dei suoi proxy, nonché di fronte ai martellamenti
dell’aviazione di Ankara, portati nell’ambito dell’operazione “ramo di
ulivo” con lo scopo di rimuovere il cosiddetto Cantone di Afrin a guida
del ramo siriano del Pkk; attualmente le forze filo-turche si trovano
alle porte di Afrin (800 metri secondo alcune fonti, 2 km secondo altre)
e sono sul punto di dividere in due la sacca in mani curde.
Al
momento la situazione non sembra avere sbocchi: si avvicina una
battaglia urbana sanguinosa con le forze filo-turche in netto vantaggio
di uomini e mezzi; a nulla sono valsi i rinforzi giunti a migliaia ad
Afrin dalle altre aree che le SDF controllano per conto degli USA; tale
afflusso nel nord-ovest del paese di miliziani delle Ypg, fra l’altro,
hanno costretto nei giorni scorsi i comandi militari yankee a dichiarare
che la fase offensiva della battaglia contro l’Isis nelle aree
orientali della Siria è sospesa per mancanza di uomini (si è trattata
della prima ammissione aperta da parte della coalizione a guida USA che
le Ypg sono in pratica l’unica forza militare efficace nell’ambito delle
SDF, cosa che tutto il mondo sapeva ma, per l’appunto, non era mai
stata ammessa apertamente per salvare le forme nei rapporti con la
Turchia). A nulla è valso anche il limitatissimo accordo con il governo
di Damasco che ha portato allo schieramento ad Afrin delle NDF, milizie
che, essendo forze popolari per lo più volontarie non parte integrante
dell’esercito siriano, sono state colpite dall’aviazione turca senza
alcuna remora.
Vediamo ora come procederà la battaglia urbana.
Come
considerazione a contorno si può dire che la Turchia sta riuscendo a
sfruttare la situazione di isolamento politico del Cantone di Afrin,
colpito in un momento in cui i rapporti fra le Ypg e l’asse Siria-Russia
erano ai minimi termini: nella battaglia nella provincia di
Deir-ez-Zor, infatti, le milizie curde si sono legate strettamente agli
interessi strategici degli USA conquistando ai danni dell’Isis quasi
tutti i giacimenti petroliferi situati a est dell’Eufrate e rivendicati
dall’esercito siriano, che è stato costretto ad attestarsi sulla riva
occidentale del grande fiume; ciò, evidentemente, nella convinzione mal
riposta che questo servizio reso agli USA sarebbe stato ricambiato con
la protezione del Cantone di Afrin, da mesi nelle mire turche. Tuttavia,
come prevedibile, il Pentagono ha fatto orecchie da mercante ed ha
abbandonato Afrin col pretesto dell’assenza di miliziani dell’Isis
nell’area.
Nondimeno
la Russia, anche a causa di quanto accaduto a Deir-ez-Zor, ha anch’essa
privilegiato i rapporti con la Turchia, con cui aveva in piedi gli
accordi sulle de-escalation zone, e ha dato il disco verde
all’operazione “ramo di ulivo”, impedendo probabilmente anche un più
vasto accordo fra Damasco e le autorità di Afrin.
Così
un’area che era stata toccata relativamente poco dalla guerra e che,
quindi, era tra l’altro il rifugio di centinaia di migliaia di profughi,
rischia di passare di mano dal modello progressista e democratico delle
Ypg all’oscurantismo islamista delle milizie filo turche, che
andrebbero a ricongiungersi con i commilitoni, i quali già controllano
il triangolo Abab, Azaz, Jarablus dalla precedente operazione militare
turca “scudo dell’Eufrate”.
Il rafforzamento di tali milizie, duramente
colpite nei mesi precedenti dalle vittorie dell’esercito siriano a nord
di Hama e nella parte sud-orientale della provincia di Idlib, e, in
generale, dell’area di influenza turca potrebbero, tra l’altro,
alimentare le ambizioni smisurate di Ankara e prolungare ulteriormente
la guerra.
Si
tratta, pertanto, di un vero disastro. Che, stando alle dichiarazioni
del Presidente Erdogan, potrebbe estendersi alla città di Manbij,
prossimo obiettivo dichiarato. Per quel che riguarda Manbij, non è
chiaro se nell’area vi sia una presenza militare americana a fare da
potenziale deterrente; tuttavia, stando alle dichiarazioni ufficiali del
pentagono, l’alleanza con le SDF riguarda esclusivamente le aree
situate sulla sponda orientale dell’Eufrate, quindi nemmeno Manbij.
Al
netto di ciò, riporre speranze nell’”alleato”, come si è visto, non
garantisce alcuna protezione sicura alle Ypg; né a est, né a ovest
dell’Eufrate, aggiungiamo noi. Pertanto, l’alternativa sarebbe anche in
questo caso implementare un più largo accordo di coesistenza con
Damasco, che dovrebbe prevedere una qualche forma di condivisione del
potere nell’area di Manbij e il collocamento di soldati dell’esercito
siriano sul confine con la Turchia al fine di togliere ad Ankara il
pretesto del “pericolo terrorista sul confine” e di poter svolgere una
funzione di deterrenza più ampia rispetto a quella che stanno svolgendo
le NDF ad Afrin. Tale opzione converrebbe, ovviamente, anche a Damasco e
forse anche alla Russia, la quale, concessa Afrin, potrebbe non avere
voglia di alimentare eccessivamente gli appetiti neo-ottomani. Tuttavia,
al momento non pare la più probabile.
Intanto
sull’altro fronte caldo, ovvero l’ex-area di de-escalation del Ghouta
Orientale che Damasco e Mosca hanno deciso di porre interamente sotto il
controllo dell’esercito siriano, le Forze Tigre stanno rapidamente
avanzando e sono riuscite a dividere in due la sacca jihadista, dove le
formazioni salafite sotto egida delle potenze straniere (Ahrar al-Sham,
Faylaq al-Rahman, Jaysh al-Islam e altre) collaborano con i “terroristi
riconosciuti” di Hayat Tahrir al-Sham, ex al-Nusra e continuano a
bersagliare il centro della capitale con colpi di mortaio e ad impedire
la fruizione dei corridoi umanitari ai civili in fuga.
Anche
qui si approssima una dura battaglia urbana e i media occidentali, a
fronte del sostanziale silenzio su Afrin, sono pieni di report che
accusano Damasco di ogni sorta di atrocità, comprese le ormai trite e
ritrite menzogne sull’utilizzo di armi chimiche che ci accompagnano
ormai dal 2013.
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