I risultati
elettorali non sono ancora completi, ma lo scenario è chiarissimo e
rende possibile un primo abbozzo di bilancio: un paese spaccato in tanti
pezzi, che corrispondono quasi esattamente alle diverse condizioni
sociali maturate nei decenni e nel corso degli ultimi dieci anni di
crisi.
Leghista al Nord, dove qualcosa da difendere c’è (imprese che
fanno profitti e altre che rischiano di chiudere, occupazione precaria e
sottopagata), “grillino” al Sud, dove si è già perso quasi tutto e la
paura di non poter risalire è concreta, manifesta (i tagli alla spesa
pubblica hanno segato, indirettamente, anche le gambe alle clientele).
Incerto al centro, risucchiato per frammenti su entrambi lati.
L’Italia
del “rancore” stavolta ha spazzato quel poco che restava della vecchia
“classe politica” della seconda repubblica. Ha seppellito i Bersani e i
D’Alema insieme all’alter ego di un quarto di secolo, Silvio Berlusconi.
Non ci sono stati giochi di prestigio e promesse clientelari che
abbiano potuto fermare questo tsunami provocato da sommovimenti
tellurici così profondi da non presentare traccia sulla superficie del
conflitto sociale. Anche
i brogli non possono più avere la dimensione necessaria a spostare
l’ago della bilancia. Il malessere che non si traduce in progetto di
cambiamento si accontenta della prima risposta che trova, per quanto
scadente possa essere.
C’è poco spazio per le interpretazioni, per le speranze di “rivincita” al prossimo giro. Il
simbolo stesso della “rottamazione”, l’attore venuto dal ventre della
massoneria toscana e chiamato a incanalare per qualche tempo quella
richiesta di cambiamento generale, è finito tritato, trascinando con sé
ciò che restava di un “partito” nato già – un quarto di secolo fa – con
le stigmate di due establishment politici un tempo concorrenti (Dc e
Pci).
Ciò che resta è la mancanza di un baricentro credibile. Impossibile fare un governo qualsiasi senza cancellare anche
quel poco di tangibile detto in una campagna elettorale priva di idee
su come risollevare un paese che va impoverendosi ogni giorno di più
(nonostante un momento di pausa nella crisi, impropriamente chiamato
“crescita”).
Quel
poco di tangibile era sostanzialmente un “no ad alleanze contronatura”.
I grillini normalizzati da Luigi Di Maio hanno giurato che faranno un
governo con chi ci sta sui programmi, ma hanno addirittura presentato in
anticipo una squadra di ministri non trattabile (il che dovrebbe
teoricamente impedire le solite trattative sulla base di posti a
tavola). Pd e berlusconiani hanno fatto la stessa campagna elettorale,
giurando che non avrebbero fatto governi con “i populisti” (grillini e
leghisti). Salvini e compagnia hanno promesso di andare al governo solo
con gli alleati-concorrenti della coalizione di centrodestra.
Nessuno
di loro potrà rispettare questi “impegni”, se vuole avvicinarsi alle
residue leve di governo. Non potrà andare avanti neanche quella che era
sembrata la “soluzione indolore”: tenere in piedi l’esecutivo Gentiloni
con una maggioranza “renzusconiana”, rattoppata alla bell’e meglio con
transfughi da varie liste.
Il
quadro politico è dunque apparentemente paradossale: quel che “c’è da
fare” nei prossimi mesi e anni è scritto nelle direttive di Bruxelles,
nei giornali mainstream, nei commenti degli opinionisti più informati.
Ma nessuno dei candidati a “fare quel che c’è da fare” se n’è fin qui
occupato minimamente.
Ci
attende una manovra correttiva di molti miliardi già a maggio. Saranno
dolori veri, dopo le piccole dosi di morfina rilasciate con la legge di
stabilità del governo Gentiloni. Soprattutto ci attende l’attuazione
vera del Fiscal Compact, che costringerà qualsiasi governo dei prossimi
venti anni ad accantonare un avanzo primario minimo del 5% annuo per
ridurre il debito pubblico. Roba da 50 miliardi l’anno in uscita, prima
ancora di decidere cosa si può fare e cosa no. I più informati,
discretamente, hanno già indicato alcune delle vene da cui trarre tanto
sangue: le pensioni, che questa volta verrebbero “riformate” riducendo
gli assegni erogati mensilmente, in stile Grecia.
Manca
però l’esecutore, il boia sociale che impugnerà la mannaia in nome e
per conto dei “mercati internazionali” e della Troika. Nessuno vuole
apparire tale prima di avere quella mannaia in mano (è la parte giocata
da Emma Bonino, con risultati minimi rispetto ai costi della sua onerosa
campagna elettorale).
Abbiamo insomma una distanza abissale e drammatica tra una popolazione disorientata in cerca di un possibile
“difensore” e un ristretto ceto di aspiranti boia che, ovviamente, non
intendono presentarsi come tali prima di cominciare ad “operare” (in
attesa che i maghi della “comunicazione” costruiscano una “narrazione”
accettabile).
Non è una dinamica nata oggi, ma solo ora appare con questa nettezza. Le rapide ascese e gli altrettanto rapidi capitomboli dei
nuovi “leader” sono una logica conseguenza della tenaglia costruita da
promesse irrealizzabili dentro i vincoli europei e realtà degli atti di
governo. Chiunque andrà a Palazzo Chigi sa benissimo di poter restare lì
giusto il tempo di realizzare qualche altra “riforma” imposta dalla Ue,
e poi sparire. Come Renzi.
Analizzeremo
a parte il risultato e le prospettive di Potere al Popolo, lista nata
appena tre mesi fa e per la quale sembrava un ostacolo insuperabile
persino la raccolta delle firme per presentarsi alla gara. L’entusiasmo
di attivisti vecchi e nuovi avrebbe meritato molto di più, certamente,
ma non si inverte una tendenza con un
semplice atto di volontà. Andrà esaminato con cura il voto collegio per
collegio, insieme alle assemblee territoriali, per definire meglio quel
che già durante questa campagna elettorale, forsennata e censurata da
tutti i media, è apparso chiaro: dove c’è un’attività politico-sociale
vera (comitati di lotta, mutualismo, sindacato conflittuale, ecc) il
nostro “blocco sociale” risponde in qualche misura anche sul terreno
elettorale. Là dove questa attività non c’è o non si vede, non puoi più
presentarti a chiedere un voto in nome di un ideale o di un simbolo.
Ma
è solo da questo tentativo che può venir fuori il seme di una
rappresentanza politica da impiantare e far crescere nel conflitto
sociale che – già nei prossimi mesi – dovrà far fronte a manovre
“lacrime e sangue”.
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