Il
mito delle risorse scarse, il mantra dei soldi che non ci sono, è la
più potente retorica in mano alla classe dominante perché spoglia le
questioni economiche della loro essenza politica trasformando, come per
magia, precise scelte di campo in apparenti vincoli di necessità.
Dietro
alla chiusura di un ospedale non vi sarebbe la scelta di favorire la
sanità privata ma il debito della Regione, che impone sacrifici. Dietro
alla mancata manutenzione delle scuole non vi sarebbe lo smantellamento
sistematico dello stato sociale ma la disciplina di bilancio. La
possibilità stessa di immaginare un’alternativa politica a povertà,
disoccupazione e sfruttamento viene negata sulla base di
un’apparentemente lucida aritmetica della scarsità, una presunta
razionalità economica che non lascia scampo, proiettando l’ombra lunga
del debito pubblico su ogni rivendicazione e su ogni aspirazione ad un
futuro migliore. Quel debito incombente significa che abbiamo già speso
troppo, abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi ed ora non ci resta
che pagare, rinunciando progressivamente a lavoro, sanità, istruzione,
trasporti, stili di vita, cultura e tutto quello che il Novecento ci
aveva, per l’appunto, solo prestato. Un tempo si scontravano visioni del
mondo differenti in un conflitto a tratti appassionato, oggi ci viene
raccontata una storia diversa e pacificante: saremmo pure d’accordo nel
garantire quei diritti a tutti ma, purtroppo, sono finiti i quattrini –
che ci possiamo fare?
La
retorica del “non ci sono i soldi” è uno schema semplice che si
articola in due passaggi, debito e sacrifici, efficacemente sintetizzati
da un recente tweet di Emma Bonino: “Non si può continuare a
indebitarsi e gli italiani lo sanno bene. L’Italia è come la famiglia
Rossi: se è indebitata non può continuare a spendere, chiedendo soldi al
cognato. Insomma, non è il momento di comprare il motorino al figlio.”
Dovremmo sacrificare le nostre aspirazioni, il motorino del piccolo
Rossi, per ripagare il debito che grava sulle nostre spalle – proprio
come farebbe una qualsiasi famiglia o azienda privata. Sembra una regola
dettata dal buon senso ma, come vedremo, non lo è affatto.
Come
tutti i miti, anche quello della scarsità ha una sua precisa
architettura che affonda le radici in una premessa ingannevole,
l’equivalenza tra debito individuale e debito pubblico: quella tra la
famiglia Rossi e lo Stato è una falsa analogia, una mera suggestione
priva di fondamento su cui viene edificato il castello retorico del “non
ci sono i soldi”. Una volta chiarita la fallacia di quella premessa,
l’intero castello crolla mettendo a nudo gli interessi che si celano
dietro al mito del debito pubblico.
Perché esiste il debito pubblico?
Quando le tasse non sono sufficienti a coprire le spese dello Stato, la
parte di spesa eccedente le tasse – in gergo il deficit o disavanzo
pubblico – deve essere finanziata tramite debito: lo Stato prende in
prestito i soldi necessari. Storicamente, la necessità di finanziare i
servizi pubblici ben oltre ciò che sarebbe consentito dalle sole entrate
fiscali ha costretto tutti gli Stati a prendere in prestito parte delle
risorse necessarie. D’altro canto basta guardarsi intorno: la Germania,
modello di virtù e parsimonia, ha un debito pubblico di circa 2.000
miliardi di euro – pari al 70% del PIL, ossia pari a più di due terzi
della produzione annuale del Paese. Le principali economie mondiali
hanno tutte, invariabilmente, un consistente debito pubblico: dagli
Stati Uniti, dove supera il 100% del PIL, al Giappone, dove si trova
abbondantemente oltre il 200% del PIL, passando per l’Italia dove
ammonta al 130% del PIL. È curioso notare che nella retorica sul debito
pubblico non si menzionano mai Paesi privi di debito pubblico. Il fatto è
che gli esempi di questo tipo si contano sulla punta delle dita e
contribuirebbero, piuttosto, a sfatare il mito: Macao, Brunei, Palau,
Isole Vergini Britanniche, Liechtenstein ossia, nell’ordine, un casinò
cinese, un giacimento petrolifero col sultano, una base militare
americana nel Pacifico e dei paradisi fiscali di poche migliaia di
abitanti. Dove non c’è il debito pubblico non c’è neppure un vero e
proprio Paese, nel senso che non c’è alcun settore pubblico strutturato.
Più che esempi di virtù fiscale, questi non-Paesi sono la dimostrazione
che senza debito pubblico – molto semplicemente – non vi è uno Stato,
perché non possono esservi quei servizi essenziali su cui poggia una
società moderna. Il debito pubblico è quindi parte integrante del
concreto funzionamento di un’economia avanzata. Tuttavia, una volta
appurato che il debito, fuori dal mito, è la normalità, si potrebbe
credere che l’accumulazione di continui disavanzi, da cui origina il
debito pubblico, abbia comunque effetti negativi sull’economia, e che
dunque sia meglio contenerla al minimo necessario – come ci impone
l’Europa con i suoi vincoli.
Ma che effetti ha la spesa in deficit sull’economia?
Il disavanzo pubblico genera reddito privato (e di conseguenza maggiore
gettito): il denaro che lo Stato spende per costruire una scuola, ad
esempio, è il reddito di chi realizza quel lavoro, dall’architetto alla
ditta di costruzioni, ma non solo; questi soggetti, a loro volta,
spenderanno una parte di quel reddito in consumi, alimentando così un
circolo virtuoso che produce altri redditi e stimola l’occupazione.
Secondo la visione neoliberista, però, questo maggiore reddito generato
dalla spesa in deficit sarebbe solo apparente perché andrebbe a
sostituirsi, e non ad aggiungersi, alla spesa privata: il libero mercato
è di per sé perfettamente in grado di garantire il pieno impiego di
tutti i lavoratori disponibili e dunque non vi è alcun bisogno
dell’inefficiente interferenza dello Stato. Per tornare all’esempio, la
scuola l’avrebbero comunque costruita i privati e, probabilmente,
l’avrebbero costruita meglio. Peccato che questa visione idilliaca del
libero mercato si scontri con la realtà della crisi: 15 milioni di
disoccupati nella sola zona dell’euro stanno lì a mostrare come non vi
sia alcuna tendenza al pieno impiego in un sistema lasciato in balia del
profitto privato. Se vi sono disoccupati, la spesa pubblica in deficit
ha il potere di creare opportunità di lavoro altrimenti assenti: le crea
direttamente, se pensiamo all’architetto e alla ditta che edifica la
scuola. Le crea anche indirettamente, se pensiamo a tutti quelli che
beneficeranno dei consumi che scaturiscono da quel primo atto di spesa,
come ad esempio il supermercato dove gli operai che hanno costruito la
scuola andranno a fare la spesa, grazie a i soldi guadagnati lavorando.
Emerge
così una prima differenza essenziale tra i debiti della famiglia Rossi
ed il debito pubblico. I primi sono contratti per pagare qualcosa al di
fuori del ristretto nucleo familiare: quei soldi vengono incassati dal
concessionario che vende il motorino e dunque spariscono da casa Rossi,
dove resta solo il debito. Al contrario, i soldi presi in prestito dallo
Stato vengono spesi, in larghissima parte, all’interno del Paese e
continuano a circolare in quel sistema economico stimolando la crescita:
passano dallo Stato agli operai che costruiscono la scuola, poi dagli
operai al supermercato dove questi fanno la spesa e così via.
La
retorica della scarsità parte dunque da una premessa inconsistente, la
falsa analogia tra debito privato e debito pubblico. Se riformulata
correttamente, quell’analogia conduce a conclusioni opposte e consente
di smontare il mito del debito pubblico mostrando tutte le virtù della
spesa in deficit: per rendere l’idea di cosa significhi spendere le
risorse prese in prestito all’interno del medesimo sistema che si sta
indebitando, proviamo a immaginare che la famiglia Rossi si indebiti per
comprare al figlio il motorino del padre.
La famiglia Rossi avrebbe così un nuovo reddito esattamente
corrispondente al debito contratto, proprio come un Paese che si
indebita per costruire una scuola e genera, in questa maniera, il
reddito di chi quella scuola la costruisce. E l’analogia, una volta
formulata senza inganni, può proseguire rendendo evidenti gli effetti
positivi della spesa a debito. Se il signor Rossi, infatti, spende parte
di quel denaro per acquistare una torta cucinata dalla moglie –
esattamente come avviene quando gli operai che hanno costruito la scuola
vanno a fare la spesa al supermercato – l’ammontare di reddito generato
dall’acquisto del motorino supera il debito inizialmente contratto
dalla famiglia Rossi, perché il prezzo della torta incassato dalla donna
va a sommarsi al prezzo del motorino incassato dall’uomo. Lo
spauracchio del debito si è tramutato nel suo contrario, mostrando
limpidamente gli effetti espansivi della spesa in disavanzo
sull’economia.
Va
bene, si potrebbe obiettare, il debito non è un problema e la spesa in
deficit fa bene all’economia, ma resta ancora da chiarire un punto
importante, l’ultima spiaggia del mito.
Chi ce li presta i soldi?
Sembra così rientrare dalla finestra lo spettro del “non ci sono i
soldi”: anche ammesso che la spesa in deficit sia una cosa positiva, si
pone il problema di trovare un creditore disposto a concederci il
prestito necessario. Secondo la retorica della scarsità, un debito molto
elevato può apparire insostenibile spingendo i creditori a negare ogni
finanziamento allo Stato. Tornando all’apologo della Bonino, cosa fare
se il cognato volta le spalle alla famiglia Rossi?
Lo
Stato può rivolgersi essenzialmente a due tipologie di creditori: i
creditori privati, dai normali cittadini alle banche, che trovano nel
debito pubblico un impiego per la loro ricchezza, cioè una forma di
risparmio, ed il creditore pubblico per eccellenza, la banca centrale,
che ha il potere di creare moneta e può impiegarlo per finanziare la
spesa in deficit. Partiamo dalla tipologia di creditore più simile al
cognato della famiglia Rossi, il creditore privato che presta i propri
soldi allo Stato. Fino a che vi è ricchezza accumulata, ci sarà qualcuno
disposto ad impiegare quella ricchezza investendo nel debito pubblico:
in Italia, per esempio, a fronte di oltre 2.000 miliardi di debito
pubblico vi sono oltre 4.000 miliardi di ricchezza finanziaria delle
sole famiglie. Peraltro, abbiamo visto che la spesa in deficit, che crea
il debito pubblico, genera corrispondentemente reddito privato
alimentando così quella ricchezza che poi potrà assumere la forma di
titoli pubblici. Lo Stato può così continuare a finanziare il proprio
debito pubblico senza problemi sui mercati, perché vi sarà sempre
risparmio accumulato da prendere in prestito.
Possiamo
quindi sfatare una delle più patetiche narrazioni del mito del debito
pubblico, frutto avvelenato della falsa analogia con il debito privato,
ovverosia l’idea che quel debito lo dovranno ripagare i nostri figli e
nipoti, le future generazioni. La realtà dei fatti, che mostra come
abbiamo visto tutte le economie avanzate convivere con un debito
pubblico consistente, rende evidente che nessuno dovrà mai azzerare il
debito pubblico, come invece è normale che sia per un debito privato: il
primo infatti può essere ripagato, di volta in volta, tramite nuovo
debito in una sequenza potenzialmente infinita perché, a differenza di
quello privato, il debito pubblico è l’altra faccia della medaglia di un
circolo virtuoso di consumi che stimola la crescita e crea ricchezza,
questa sì un’eredità lasciata ai nostri figli e nipoti proprio grazie
all’accumulazione di debito.
È
pur vero che, invece di prestare i soldi allo Stato, i creditori
privati potrebbero prestarli a famiglie e imprese. In quel caso il
creditore va incontro al rischio di fallimento del debitore privato,
come mostrano i 400 miliardi di euro di crediti deteriorati causati
dalla crisi: famiglie che non riescono più a pagare il mutuo e imprese
travolte dal crollo dei consumi. Ma il debitore pubblico, lo Stato, può
fallire? E veniamo, così, al cuore della questione.
Storicamente,
infatti, il principale finanziatore del debito pubblico è stato il
secondo tipo di creditore che abbiamo menzionato, la banca centrale –
un’autorità pubblica che ha il potere di emettere moneta. Se il cognato
della famiglia Rossi gli nega il prestito, dunque, interviene la banca
centrale creando tutta la moneta di cui lo Stato ha bisogno, una vera e
propria cassaforte di famiglia a cui attingere nel momento del bisogno.
Per questo, fino a qualche tempo fa, il fallimento di uno Stato veniva
considerato semplicemente impossibile e il debito pubblico la forma più
sicura di risparmio. Cosa è cambiato nei tempi più recenti?
Con
l’adesione all’euro e l’istituzione della Banca Centrale Europea (BCE),
abbiamo rinunciato ad una delle più importanti prerogative di uno Stato
sovrano, la possibilità di emettere moneta. Abbiamo dato a nostro
cognato le chiavi della cassaforte di famiglia: inutile stupirsi se, per
un suo capriccio, rischiamo di andare in bancarotta. Ma allora è
sbagliato dire che i soldi non ci sono. I soldi ci sono sempre,
all’occorrenza può crearli la banca centrale, ed il problema della
scarsità che strangola l’Europa è un problema politico: una banca
centrale che nega agli Stati le risorse necessarie a finanziare lo stato
sociale, a promuovere la piena occupazione e a garantire i diritti. In
altre parole i soldi ci sono ma non ce li fanno toccare perché povertà,
disoccupazione e precarietà sono formidabili strumenti di disciplina dei
lavoratori, necessari a tenere in vita un modello economico e sociale
basato sullo sfruttamento e incentrato sul profitto di pochi. Sfatare il
mito del debito pubblico serve a chiarire che il nostro futuro non può
infrangersi contro alcuna scarsità delle risorse, ma è ostaggio di
vincoli politici imposti dall’Europa contro cui si può e si deve
lottare.
*Coniare Rivolta è un collettivo di economisti https://coniarerivolta.wordpress.com/
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