Migliaia di piccoli schiacciati in cunicoli per estrarre i materiali che servono ai nostri prodotti hi-tech. La denuncia dell'economista Leonardo Becchetti.
Schiavi. Come non chiamare schiavi gli uomini e i bambini che ogni giorno estraggono schiacciati in cunicoli il cobalto per le nostre batterie, la casserite o il coltano per i nostri cellulari e le auto elettriche “green”? Sono schiavi, pedine di un sistema «orientato solo su due grandi obiettivi, il benessere del consumatore e il profitto dell’impresa». Un sistema che va costretto a cambiare. Leonardo Becchetti è ordinario di Economia politica all’università Tor Vergata di Roma ed è uno dei più convinti sostenitori della possibilità di modificarlo, quest’equilibrio distorto che promette futuro a una parte di mondo tenendone un’altra in catene. A latere di un incontro promosso da Pime, Mani Tese e Caritas contro il lavoro forzato, ha parlato con L’Espresso di “economia della schiavitù” e delle possibili strade per non accettare come inevitabile la sospensione dei diritti altrui per beneficio proprio. Rimettendo al centro le responsabilità delle aziende, dell’Europa. E dei consumatori.
Professore, le condizioni con cui vengono estratti i materiali che servono ai prodotti hi-tech ci ricordano come la schiavitù sia tutt’altro che abolita. Al massimo, esternalizzata.
«Fa parte delle conseguenze di un sistema produttivo volto a ridurre i costi il più possibile, senza limite verso il basso. Compreso quanto riguarda il costo del lavoro. Coloro che estraggono metalli preziosi sono un esercito di riserva, come lo definiva Marx: mano d’opera facilmente sostituibile. Dove si annida più facilmente lo sfruttamento. Anche perché le rivendicazioni sindacali non riescono a far leva, visto che la produzione può trovare nuove braccia o spostarsi. E non accade solo in Africa: basti pensare alla bracciante morta per sfinimento in Italia».
Come dire basta?
«Il cambiamento deve avvenire su tre assi. Il voto con il portafoglio, gli appalti di Stato, le politiche fiscali».
Politiche fiscali?
«Mi riferisco alla possibilità di introdurre dei dazi anti-dumping. Non i dazi sostenuti da Trump. Parliamo di meccanismi fiscali orientati a penalizzare le filiere produttive che non rispettano standard sociali e ambientali dignitosi. È la differenza fra un cannone e un bisturi. La politica di Trump è un cannone: risolve il problema della concorrenza sleale rappresentata in chiave nazionalistica. A questa politica di destra esiste una risposta di sinistra».
Di sinistra?
«Sì, ovvero orientata al rispetto della dignità della persona, ovunque questa si trovi. Non solo nel proprio paese. Parliamo allora piuttosto di regole contro il dumping socio-ambientale che premino le aziende che trattano bene il lavoro, e tassino di più coloro che non rispettano le persone e l’ambiente. D’altronde, ci sono prodotti dello sfruttamento anche in Italia».
È una soluzione praticabile?
«È possibile, ed è la strada più importante. Certo, decidere dove stia il “sopra” e il “sotto” la dignità del lavoro in Bangladesh non è facile come stabilire di porre l’Iva al 4 per un motore elettrico, ma oggi la tecnologia ci permette controlli e informazioni prima impensabili. Abbiamo molte più informazioni, perché non usarle anche per questo? Significherebbe più trasparenza sui fornitori, non solo quelli diretti. E quindi più attenzione. Già con le campagne nate dai movimenti No-Global sulle multinazionali molti passi avanti sono stati fatti. E qui arriviamo anche ai consumatori».
Il “consumo responsabile”... non ha fatto il suo tempo?
«No. Sta cambiando anche questo. Il successo dei diamanti liberi da sfruttamento può restare assai limitato, certo, se questi devono essere pagati molto di più, e rimangono quindi elitari. Ma oggi ci sono molte altre risposte. Penso ad esempio a come si stanno muovendo grandi gestori di fondi come Blackrock, prendendo spunto da pratiche che Banca Etica mette in campo da vent’anni. Votando con il portafoglio. Attraverso consapevolezza, informazione, coordinamento e convenienza. Oggi, ad esempio, essere ambientalmente sostenibili è economicamente efficace, e va di moda. Anche in Borsa».
Prima l’ambiente, dopo il lavoro?
«Sull’ambiente la velocità della trasformazione è stata più rapida, è vero. Ora bisogna insistere sull’aspetto sociale».
Poi ci sono gli Stati diceva.
«Che devono iniziare a prevedere queste garanzie socio-ambientali in tutti i loro appalti, superando la logica del solo massimo ribasso».
E che devono avere il coraggio di contrastare lo sfruttamento, no?
«Certo. Ma la legge da sola non basta a mettere in condizioni le aziende di farsi concorrenza in modo sano. Anzi, in un mondo globalizzato, a volte rischiano di cancellare le possibilità di competere alla pari. È per questo che è importante che iniziative come quelle dei dazi anti-dumping sociale siano prese sul piano europeo».
Non abbiamo parlato dei lavoratori .
«Anche loro in questi casi sotto scacco per la facilità nel trovare nuove braccia o spostare la produzione. Ma non tutte le attività sono delocalizzabili. Le miniere, ad esempio, hanno un potere in questo senso. Come lo ha, dall’altro capo della filiera, la logistica». Un nuovo inizio?
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