A partire dagli anni ’90, il fenomeno
della “delocalizzazione” delle imprese italiane è in rapida e costante
crescita: sempre più frequentemente si assiste allo spostamento di
intere fasi produttive dai cosiddetti paesi “sviluppati” a quelli
cosiddetti “emergenti”, con la conseguente distruzione di posti di
lavoro nelle economie che vivono passivamente i processi di
delocalizzazione. Al fine di comprendere cosa si intende con questo
termine, è tuttavia necessario descrivere e contestualizzare il fenomeno
delle delocalizzazioni. Generalmente, si può asserire che il
persistente processo di globalizzazione, oltre a permettere di
acquistare e vendere merci ben al di fuori dei mercati locali, ha fatto
sì che alcune fasi produttive possano essere integralmente spostate in
Paesi ritenuti più idonei: i motivi per cui le imprese ritengono che sia
più opportuno produrre in Paesi diversi da quello originario sono
molteplici, ma fanno tutti capo alla logica dell’economicità, ovvero
alla maggiore remunerazione del capitale investito nel processo
produttivo.
In linea di massima, le ragioni che
spingono un’impresa a delocalizzare sono le seguenti: operare in un
paese con un regime fiscale più accomodante, acquistare beni e servizi
in valuta locale beneficiando di un tasso di cambio favorevole,
costruire delle relazioni commerciali con il paese “ospite” (anche
sfruttandolo come mercato di sbocco), ma soprattutto impiegare forza
lavoro locale a costi contenuti. Proprio in merito a questo ultimo
punto, le imprese vanno a caccia di paesi dove è possibile sfruttare un
certo vantaggio, sia di tipo economico che di tipo istituzionale.
Infatti, spostare la produzione in un altro paese non prevede solo la
possibilità di impiegare lavoratori a basso costo (visti ad esempio
l’elevato tasso di disoccupazione e la pressoché assente
regolamentazione del mercato del lavoro), ma anche la possibilità di
sfruttare una manodopera poco tutelata (poche garanzie contrattuali,
lunghi turni di lavoro, scarsa assistenza sindacale, etc.). Questo
insieme di regole, istituzioni e comportamenti rende l’impiego di un
determinato tipo di lavoro semplicemente più conveniente
all’imprenditore-capitalista, in quanto riduce i costi di produzione.
A questo quadro generale, la teoria
economica aggiunge una caratteristica fondamentale dei processi di
delocalizzazione: secondo il pensiero comune, chi delocalizza non cerca
competenze lavorative particolarmente qualificate, in quanto le imprese
spostano all’estero solo alcune fasi produttive, lasciando nel paese
d’origine i processi che necessitano di forza lavoro qualificata. Si è
soliti spiegare questi comportamenti attraverso il modello di “divisione
internazionale del lavoro”: in breve, si asserisce che le produzioni
caratterizzate da tecniche che necessitano di manodopera non qualificata
vengano realizzate in un paese dove il costo della manovalanza è
minimo, mentre le produzioni che necessitano di un cospicuo apporto di
“competenze umane” vengano realizzate in un altro paese, in cui sono
disponibili – a buon mercato – lavoratori più qualificati.
Tuttavia, nell’attuale contesto globale
questa spiegazione dovrebbe risultare ingannevole. A ben vedere, la
sempre crescente divisione del lavoro restringe di fatto le competenze
del lavoratore, in quanto le fasi produttive – principalmente nel
settore manifatturiero – vengono letteralmente parcellizzate, ovvero
rese estremamente semplificate al fine di farle risultare accessibili
anche a lavoratori poco qualificati. Sulla base di questa frammentazione
del ciclo produttivo, le imprese non hanno neanche la necessità di
trovare il cosiddetto “know-how” nel paese in cui vanno ad investire, in
quanto le tecniche diventano facilmente esportabili e, vista l’estrema
parcellizzazione dei processi, richiedono brevissimi periodi di
praticantato e formazione del lavoratore (tant’è che in molti paesi in
via di sviluppo alcune fasi produttive vengono svolte addirittura dai
bambini). Alla luce di questo fenomeno, è facile capire perché, seguendo
la logica del profitto, le imprese – soprattutto quelle di grandi
dimensioni – siano sempre più solite spostare l’intera fase produttiva
all’estero, lasciando nel paese d’origine solo i comparti commerciali e i
centri direzionali: se una divisione internazionale del lavoro esiste,
si può affermare che nell’attuale contesto globale sia diventata
estremamente verticale e subalterna. Ovviamente,
l’imprenditore-capitalista, al fine di abbassare il rischio
dell’investimento, sceglierà quei paesi che, a parità di altre
condizioni, possiedono anche una struttura civile e legale in grado di
difendere il suo diritto di proprietà (leggasi, il più delle volte,
accordi con chi detiene il potere politico in quel territorio).
Dal punto di vista economico, si può
affermare semplicemente che chi delocalizza sta investendo il proprio
capitale nei paesi in cui percepirà un maggior tasso di profitto. Per
chiarire questo punto è necessario ricordare che, oltre alla libera
circolazione di merci e uomini, l’apertura dei mercati ha reso possibile
anche la mobilità del capitale. A tal proposito – richiamando un
semplice concetto contabile – possiamo asserire che i profitti sul
capitale investito derivano dalla differenza tra ricavi di vendita e
costi di produzione. Tuttavia, se per i costi di produzione le imprese
riescono ad applicare la logica dell’economicità (ovvero sono in grado
di comprimere il costo del lavoro attraverso la delocalizzazione), i
prodotti venduti risentono del processo di globalizzazione e quindi dei
prezzi internazionali: è facile osservare come lo stesso capo di
abbigliamento firmato, la stessa automobile o lo stesso elettrodomestico
abbiano – proprio in virtù della libera circolazione delle merci –
praticamente un prezzo di vendita uniforme in tutto il mondo. Quindi per
effetto della concorrenza il ricavo unitario di vendita è
sostanzialmente omogeneo e dunque i profitti dipendono principalmente
dal minore o maggiore costo di produzione.
Fatta questa premessa (utile a chiarire
cosa spinge, nell’attuale contesto economico, gli imprenditori a
delocalizzare molte fasi produttive), proviamo ad analizzare cosa è
successo in Italia negli ultimi anni. Uno studio ISTAT – condotto sulle
imprese italiane (industria e servizi) con più di 50 addetti – indica
che nel periodo 2001/2006 un’impresa su sette ha avviato un processo di
delocalizzazione, e che in oltre la metà dei casi la destinazione è
stata un paese europeo. È interessante notare che questo massiccio
fenomeno si sia verificato ben prima dei periodi di recessione causati
dalla crisi finanziaria globale e poi da quella del debito sovrano
nell’Eurozona; ad onor del vero, dunque, in Italia si stavano perdendo
posti di lavoro non per effetto di una congiuntura economica negativa,
bensì per effetto delle delocalizzazioni. Oltre a questi dati, è
possibile notare che nel biennio 2009/2010 – ovvero nel bel mezzo della
recessione – in Italia si sono persi 34 mila posti di lavoro a seguito
di iniziative di delocalizzazione, cifra che rappresenta il 10%
dell’intera perdita occupazionale. In altre parole, non solo la crisi ha
portato alla distruzione di posti di lavoro: mentre molte imprese
facevano ristrutturazione aziendale (leggasi, tagli al personale) per
effetto della crisi, alcune chiudevano i battenti in Italia e
contestualmente riaprivano i loro impianti nell’est europeo, nei paesi
balcanici, nel nord Africa e in India. Un altro aspetto sconcertante è
che questi processi di delocalizzazione non hanno necessitato di tempi
tecnici importanti. Si potrebbe ragionevolmente supporre che spostare
fisicamente una fabbrica in un’altra nazione distante migliaia di
chilometri possa richiedere mesi: tuttavia, negli ultimi anni sono nate
imprese specializzate in questi “trasporti eccezionali” che, attraverso
le più sofisticate tecniche ingegneristiche, riescono a traslare un
impianto produttivo (e riprodurlo alla perfezione) nel giro di una
settimana!
A tali considerazioni di natura
economica, è tuttavia opportuno affiancarne altre di carattere
legislativo. Le delocalizzazioni delle imprese italiane sono
indubbiamente incentivate, oltre che dalla logica del profitto, anche da
un copioso deficit normativo in materia di tutela delle produzioni
domestiche: oltre ad una generale mancanza di controlli sui semilavorati
importati (che al più delle volte contengono già l’etichetta “made in
Italy”, soprattutto nel settore dell’abbigliamento), è tecnicamente
possibile completare la produzione in Italia (anche solo attraverso
semplici operazioni di confezionamento e imballaggio), e spacciare la
merce come interamente prodotta all’interno dei nostri confini,
aggirando di fatto le normative sulla difesa del prodotto italiano.
Cosa emerge da tutte queste considerazioni? Essenzialmente tre punti.
Negli ultimi anni, nel nostro paese non
si sono persi posti di lavoro solo per effetto della sfavorevole
congiuntura economica. In diversi casi i tagli al personale si sono
tradotti in maggiore occupazione all’estero creata da grandi imprese
italiane (e i nomi delle società che hanno delocalizzato sono
altisonanti). Nel frattempo, le stesse imprese hanno beneficiato degli
ammortizzatori sociali per i dipendenti in esubero, sfruttando di fatto
la cassa integrazione mentre spostavano la filiera produttiva in un
altro paese. Oltre a questo, è immediato osservare che negli ultimi anni
chi sceglie di delocalizzare nella maggior parte dei casi non sposta le
proprie produzioni molto lontano dall’Italia, ma in paesi relativamente
vicini e rapidamente raggiungibili. Dati alla mano, più di un processo
di delocalizzazione su due è intrapreso da imprese italiane verso una
meta europea: la tanto millantata unione continentale di popoli e
culture si sta di fatto traducendo in una guerra tra poveri per
accaparrarsi, a suon di ribassi salariali e rinunce a diritti
fondamentali, posti di lavoro facilmente esportabili. Più che la tanto
discussa unione politica e fiscale, in questo scenario sarebbe più
auspicabile la creazione di un sindacato unico a livello europeo capace
di tutelare la classe lavoratrice non solo sul piano strettamente
retributivo, ma anche dalla perversa logica dello spostamento del
capitale laddove ci siano condizioni sociali più favorevoli allo
sfruttamento del lavoro. Infine, è fondamentale ribadire che chi
delocalizza lo fa per puro interesse economico. Per effetto
dell’integrazione dei mercati, l’agire della libera concorrenza è di
fatto passato da un livello nazionale ad un livello globale, e ciò si è
tradotto in una sostanziale uniformazione del prezzo di vendita di una
merce nei diversi paesi. Per questa ragione, il profitto è venuto a
dipendere direttamente dai costi di produzione, ovvero – in ultima
analisi – dal costo del lavoro impiegato. Tuttavia, esiste una merce che
fisiologicamente non risente della concorrenza internazionale, in
quanto il suo prezzo dipende strettamente dalle circostanze di carattere
sociale e istituzionale del paese in cui viene creata e contestualmente
venduta. Questa merce è la forza lavoro, e di fatto è l’unica merce di
cui dispone il lavoratore, qualificato o meno che esso sia.
Nell’attuale contesto economico, il
selvaggio ricorso alle delocalizzazioni – basato sulla logica mercatista
secondo cui il capitale viene spostato dove è meglio remunerato –
sembra prescindere da tutte queste attente valutazioni di carattere
sociale. Dal dibattito sulle delocalizzazioni emerge un preciso problema
di carattere politico: la libertà dell’imprenditore di perseguire un
maggiore profitto spostando il proprio capitale in un altro paese
finisce per ledere il più ampio concetto di interesse collettivo, ovvero
la tutela della piena occupazione e dei diritti dei lavoratori.
Tuttavia, la difesa del benessere sociale può mettere in secondo piano
una libertà oggi considerata intoccabile come quella di delocalizzare.
Per questo motivo, l’unica alternativa plausibile sembra essere quella
di limitare direttamente i movimenti di capitale, soprattutto quando
compiere questo tipo di investimenti significa di fatto importare lavoro
ad un minor costo di quello acquistabile sul mercato locale.
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