lunedì 5 marzo 2018

L’Europa e la cessione di sovranità politica

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euro police
Ogni qualvolta venga discussa e approvata la legge finanziaria o a seguito di qualunque provvedimento di politica economica varato dai governi di turno, da un piano più alto del nostro spazio di rappresentanza politica provengono richieste di correttivi e modifiche. E’ l’Europa che ce lo chiede! Ma che cos’ è l’Europa, oltre ad essere il continente cui geograficamente il nostro paese appartiene? Cos’è questa architettura istituzionale chiamata Unione Europea che in maniera così eclatante determina quotidianamente la direzione delle scelte fondamentali per il nostro futuro? E perché è necessaria una discussione radicale, senza tabù, sull’opportunità o meno di appartenere a questa struttura?

Negli ultimi tempi prendersela con l’Europa è diventato facile. Se fino a pochi anni fa nel nostro paese affrontare il tema dell’appartenenza ai trattati europei era un vero e proprio tabù, a partire dallo scoppio della crisi del 2008 e dalla conseguente accelerazione paradossale delle politiche di austerità targate UE, da molte parti politiche si invoca un cambiamento delle politiche europee e in alcuni casi persino la necessità di staccare il cordone ombelicale che ci lega all’eurozona e (in casi più rari) ai trattati dell’Unione. Argomentare correttamente e con cognizione di causa una posizione critica nei confronti dell’Unione Europea è oggi doppiamente importante e delicato, poiché tale posizione, sebbene minoritaria, viene espressa a partire da molte angolature dello spettro politico con articolazioni assai differenziate. Evitare di esprimere posizioni generiche che possano finire in un calderone generalista è dunque non solo utile, ma persino necessario.
L’Unione europea è un insieme di trattati. Questo è il punto di partenza da cui iniziare a ragionare. L’Europa politica vagheggiata dai teorici europeisti degli anni ’50 nell’epoca del dopoguerra semplicemente non esiste. Non esiste uno Stato europeo dotato di sovranità formale e sostanziale. Non esiste un popolo europeo chiamato a stabilire la propria forma di governo e i propri rappresentanti a maggioranza. Esiste invece un blocco di trattati che alla stregua di tutti i trattati internazionali, stabiliscono forme di limitazione della sovranità nazionale in nome di fini ritenuti superiori. Come ogni trattato, ovviamente, un paese è del tutto libero di poter recedere dopo averlo sottoscritto. E come ogni trattato la sua modifica implica l’unanimità dei membri aderenti (i trattati non possono essere modificati a maggioranza da un inesistente popolo europeo, ma soltanto all’unanimità da tutti i paesi attraverso i propri parlamenti).
Qual è il contenuto di questi trattati? Qual è il legame che li salderebbe ad un’idea di Europa politica? Il trattato primigenio della CEE è il Trattato di Roma del 1957 che esprimeva contenuti piuttosto generali sull’integrazione dei mercati tra i paesi aderenti. Già da quel momento, si verifica quell’inversione di prospettiva che pretende di costruire un’unità politica a partire da un quadro di integrazione dei mercati. Si attribuisce cioè alla libera circolazione di merci (prima) e di capitali (poi) la virtù taumaturgica di creare le condizioni oggettive per una successiva unificazione politica. Nel 1968 si realizza l’auspicata liberalizzazione dei movimenti di merci. I prodotti circolano liberamente nell’area della CEE tra i paesi senza poter subire restrizioni di tipo doganale. Negli anni ’80, dopo un decennio di relativo rallentamento del processo, si verifica nel volgere di un triennio la completa liberalizzazione dei movimenti di capitali: le imprese sono libere di spostare la propria produzione all’estero senza pagare imposte e senza alcun tipo di restrizione. Il paradigma è così consolidato: legislazioni fiscali e giuslavoristiche e sistemi di relazioni industriali e sindacali diversi da stato a stato fronteggiano un sistema di libera circolazione delle merci e di capitali integrato dove non è più possibile imporre limitazioni alla migrazione di capitali o all’ingresso di merci prodotte in paesi caratterizzati da strutture normative differenti. La norma della libera concorrenza tra le imprese in un contesto legislativo unitario e sovrano qual è lo Stato (capace di imporre regole e limiti) si trasforma nella libera concorrenza tra sistemi legislativi nazionali diversi: differenti norme fiscali, livelli salariali eterogenei, normative giuslavoristiche e ambientali variegate sono messi in competizione l’uno con l’altro in una corsa al ribasso necessaria per ciascun paese al fine di evitare fughe di capitali e una concorrenza insostenibile di prodotti realizzati in sistemi caratterizzati da costi “sociali” più bassi. Con il compimento della liberalizzazione dei movimenti di capitale al principio degli anni ’90 si completa il disegno di integrazione rovesciata. L’Europa unita diventa così un’enorme giungla dove ogni nazione ha la propria sovranità formale nel determinare le norme fondamentali della propria vita economica collettiva, ma deve rispondere alle necessità imposte dal contesto di totale liberalizzazione dei movimenti di capitali e merci rincorrendo le esigenze del capitale, capace di muoversi agevolmente tra frontiere aperte e capace di imporre normative fiscali e del lavoro sempre più vantaggiose per sé. Creato il vincolo oggettivo della libera concorrenza tra sistemi legislativi dei diversi paesi, al principio degli anni ’90 avviene nell’ambito del processo di integrazione europea un nuovo salto di qualità: la stipula del trattato di Maastricht e la trasformazione della CEE in UE. Con tale trattato le politiche fiscali degli Stati membri vengono imbrigliate all’interno di parametri imposti sulla base di un paradigma di teoria economica che proclama la piena capacità del mercato di garantire la piena occupazione e si dichiara ostile all’intervento pubblico in economia. La sovranità fiscale, già condizionata dalla libera circolazione di merci e capitali, si riduce ai minimi termini. Le politiche di intervento pubblico nell’economia di ispirazione keynesiana vengono formalmente messe fuori legge. Il tutto senza che si faccia un solo passo per la costituzione di un bilancio comune europeo e una minima armonizzazione dei sistemi fiscali. Si crea così un contesto di angusti vincoli di bilancio imposti agli Stati in assenza di una politica fiscale di dimensione europea. Contestualmente si prepara il terreno dell’unificazione monetaria subordinando l’adesione alla moneta unica al rispetto tendenziale dei parametri di Maastricht. Nel 2002 entra in gioco l’Euro e con esso una nuova arma di disciplina dell’azione degli Stati membri e un’ulteriore sottrazione di sovranità economica. Anche in questo caso il passaggio non è accompagnato da una reale creazione di un ordine di sovranità superiore effettivo, dal momento che la Banca Centrale Europea per statuto assume obiettivi del tutto slegati dallo sviluppo economico dei paesi (esclusiva attenzione per il controllo dell’inflazione, divieto di finanziare i debiti pubblici degli stati).
Si completa così, con l’unificazione monetaria, il disegno storicamente inedito di un’area economica totalmente integrata, governata da vincoli apparentemente tecnici alle politiche economiche in cui gli Stati membri sono privati di qualunque capacità decisionale effettiva, sia per vincoli espliciti (che limitano le politiche fiscali e annullano la sovranità monetaria), sia per vincoli impliciti legati alla libera circolazione di merci e capitali (annullamento della sovranità delle politiche industriali e commerciali). Allo stesso tempo, a fronte di questo annullamento di sovranità decisionale degli stati, nell’apparente vuoto, si impone non già una sovranità politica di ordine superiore (di dimensione europea), ma l’azione di un meccanismo di vincoli automatici (ovvero l’applicazione di un’apparente pura tecnocrazia). Tuttavia il tecnicismo in politica è sempre e soltanto un’apparenza che nasconde rapporti di forza. La super governance europea, ammantata di caratteri tecnici giudicati insindacabili è in realtà il riflesso simultaneo di un’egemonia dei paesi più forti (Germania in primo luogo) su quelli più deboli e di un’egemonia pressoché incontrastata della classe sociale dominante sulla classe sociale subalterna in tutti i paesi europei. La macchina dei trattati europei si concretizza nei fatti in un laboratorio di politiche neo-liberiste attuate in nome e per conto di interessi economici ristretti contro la maggioranza delle popolazioni europee e in un rapporto gerarchico ben delineato tra paesi. Gli eventi degli ultimi cinque anni (speculazione sui debiti pubblici e imposizione delle politiche di austerità in forme brutali) hanno semplicemente esasperato dinamiche conflittuali già ben consolidate da anni. Questo duplice conflitto, sociale interno e internazionale, è tuttavia coperto da un’apparente tecnocrazia e dal mito di una futuribile e mai costituita Europa politica.
Se questa è la veste concreta dell’Unione europea, che atteggiamento occorre avere al riguardo? Il punto focale della risposta, concerne il ruolo del conflitto sociale e delle potenzialità di trasformazione della società nella direzione ritenuta auspicabile. Se si vuole riportare il conflitto sociale, in tutte le sue sfaccettature ad un livello di effettiva rappresentanza e praticabilità, il primo nodo da affrontare è quello del recupero di forme di sovranità politica e democratica effettive. Senza involucro politico, il conflitto sociale viene depotenziato nell’apparente egemonia di una tecnocrazia insondabile. Parlare dunque di sovranità senza equivoci, ovvero adottando il punto della classe sociale subalterna, significa porre l’accento sulla necessità del recupero di forme politiche e di rappresentanza entro cui poter dare un senso concreto al conflitto sociale e alle potenzialità di trasformazione della società in una direzione di maggiore uguaglianza e giustizia.
Che tale involucro possa essere una futura Europa Stato o lo Stato nazionale tradizionale non è necessariamente predeterminabile in senso ideologico. Ciò che conta, in ultima istanza, è la sovranità politica intesa come spazio effettivo di mediazione politica e partecipazione concreta alla vita collettiva. L’assenza di sovranità produce infatti una cronica subalternità, sancita a priori, per chiunque voglia opporre alle relazione socioeconomiche dominanti una concreta alternativa. Una subalternità che assume persino un rilievo psicologico e culturale, dovuto al sentimento di inutilità e inefficacia della propria azione. Il regno dei mercati e dei vincoli tecnici, di cui l’Unione europea è concreta espressione, è non soltanto il regno della legge del più forte, ma anche il regno in cui tale legge diventa indiscutibile. E’ questo il nodo cruciale! Allo spazio fluido e de-territorializzato dei mercati, dove l’unica legge rilevante è la libertà del capitale di migrare da un luogo ad un altro, occorre opporre la riappropriazione di spazi di sovranità politica effettiva, precondizione logica per qualsiasi azione trasformativa. Se tale spazio possa realmente essere il continente Europeo nella sua enorme eterogeneità storica, economica e linguistico-culturale è una domanda ardua che di certo non può avere una risposta scontata positiva (qual è quella offerta dal mantra dell’Europa politica come orizzonte inevitabile e di là da venire), tanto più che in cinquant’anni di apparente integrazione europea nulla si è fatto sul fronte della creazione di condizioni oggettive di unità politica.
Ciò che è certo, a priori, è che occorre uscire dalla struttura tecnocratica e ultra-classista dei trattati europei. Se si concorda con questo assunto bisogna allora quanto meno ipotizzare, laddove le condizioni oggettive di un’Europa Stato si rivelino insostenibili, un ritorno alla sovranità piena dello Stato nazionale. Non è una via ideologica di principio, ma una strada necessaria da preparare, discutere con serietà e responsabilità. Troppi anni di europeismo acritico e ideologico hanno tarpato il dibattito nel nostro paese liquidando le posizioni critiche dell’Unione Europea di populismo o nazionalismo lasciando il campo della critica alla UE a forze reazionarie che nulla hanno a che spartire con l’interesse della classe subalterna. Occorre cambiare rotta, senza fraintendimenti e con la chiara coscienza del fatto che la sovranità politica è l’involucro oggettivo di qualsiasi forma di conflitto sociale costruttivo. Il dibattito deve essere aperto prima che sia troppo tardi!

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