Ogni qualvolta venga discussa e approvata
la legge finanziaria o a seguito di qualunque provvedimento di politica
economica varato dai governi di turno, da un piano più alto del nostro
spazio di rappresentanza politica provengono richieste di correttivi e
modifiche. E’ l’Europa che ce lo chiede! Ma che cos’ è l’Europa, oltre
ad essere il continente cui geograficamente il nostro paese appartiene?
Cos’è questa architettura istituzionale chiamata Unione Europea che in
maniera così eclatante determina quotidianamente la direzione delle
scelte fondamentali per il nostro futuro? E perché è necessaria una
discussione radicale, senza tabù, sull’opportunità o meno di appartenere
a questa struttura?
Negli ultimi tempi prendersela con
l’Europa è diventato facile. Se fino a pochi anni fa nel nostro paese
affrontare il tema dell’appartenenza ai trattati europei era un vero e
proprio tabù, a partire dallo scoppio della crisi del 2008 e dalla
conseguente accelerazione paradossale delle politiche di austerità
targate UE, da molte parti politiche si invoca un cambiamento delle
politiche europee e in alcuni casi persino la necessità di staccare il
cordone ombelicale che ci lega all’eurozona e (in casi più rari) ai
trattati dell’Unione. Argomentare correttamente e con cognizione di
causa una posizione critica nei confronti dell’Unione Europea è oggi
doppiamente importante e delicato, poiché tale posizione, sebbene
minoritaria, viene espressa a partire da molte angolature dello spettro
politico con articolazioni assai differenziate. Evitare di esprimere
posizioni generiche che possano finire in un calderone generalista è
dunque non solo utile, ma persino necessario.
L’Unione europea è un insieme di
trattati. Questo è il punto di partenza da cui iniziare a ragionare.
L’Europa politica vagheggiata dai teorici europeisti degli anni ’50
nell’epoca del dopoguerra semplicemente non esiste. Non esiste uno Stato
europeo dotato di sovranità formale e sostanziale. Non esiste un popolo
europeo chiamato a stabilire la propria forma di governo e i propri
rappresentanti a maggioranza. Esiste invece un blocco di trattati che
alla stregua di tutti i trattati internazionali, stabiliscono forme di
limitazione della sovranità nazionale in nome di fini ritenuti
superiori. Come ogni trattato, ovviamente, un paese è del tutto libero
di poter recedere dopo averlo sottoscritto. E come ogni trattato la sua
modifica implica l’unanimità dei membri aderenti (i trattati non possono
essere modificati a maggioranza da un inesistente popolo europeo, ma
soltanto all’unanimità da tutti i paesi attraverso i propri parlamenti).
Qual è il contenuto di questi trattati?
Qual è il legame che li salderebbe ad un’idea di Europa politica? Il
trattato primigenio della CEE è il Trattato di Roma del 1957 che
esprimeva contenuti piuttosto generali sull’integrazione dei mercati tra
i paesi aderenti. Già da quel momento, si verifica quell’inversione di
prospettiva che pretende di costruire un’unità politica a partire da un
quadro di integrazione dei mercati. Si attribuisce cioè alla libera
circolazione di merci (prima) e di capitali (poi) la virtù taumaturgica
di creare le condizioni oggettive per una successiva unificazione
politica. Nel 1968 si realizza l’auspicata liberalizzazione dei
movimenti di merci. I prodotti circolano liberamente nell’area della CEE
tra i paesi senza poter subire restrizioni di tipo doganale. Negli anni
’80, dopo un decennio di relativo rallentamento del processo, si
verifica nel volgere di un triennio la completa liberalizzazione dei
movimenti di capitali: le imprese sono libere di spostare la propria
produzione all’estero senza pagare imposte e senza alcun tipo di
restrizione. Il paradigma è così consolidato: legislazioni fiscali e
giuslavoristiche e sistemi di relazioni industriali e sindacali diversi
da stato a stato fronteggiano un sistema di libera circolazione delle
merci e di capitali integrato dove non è più possibile imporre
limitazioni alla migrazione di capitali o all’ingresso di merci prodotte
in paesi caratterizzati da strutture normative differenti. La norma
della libera concorrenza tra le imprese in un contesto legislativo
unitario e sovrano qual è lo Stato (capace di imporre regole e limiti)
si trasforma nella libera concorrenza tra sistemi legislativi nazionali
diversi: differenti norme fiscali, livelli salariali eterogenei,
normative giuslavoristiche e ambientali variegate sono messi in
competizione l’uno con l’altro in una corsa al ribasso necessaria per
ciascun paese al fine di evitare fughe di capitali e una concorrenza
insostenibile di prodotti realizzati in sistemi caratterizzati da costi
“sociali” più bassi. Con il compimento della liberalizzazione dei
movimenti di capitale al principio degli anni ’90 si completa il disegno
di integrazione rovesciata. L’Europa unita diventa così un’enorme
giungla dove ogni nazione ha la propria sovranità formale nel
determinare le norme fondamentali della propria vita economica
collettiva, ma deve rispondere alle necessità imposte dal contesto di
totale liberalizzazione dei movimenti di capitali e merci rincorrendo le
esigenze del capitale, capace di muoversi agevolmente tra frontiere
aperte e capace di imporre normative fiscali e del lavoro sempre più
vantaggiose per sé. Creato il vincolo oggettivo della libera concorrenza
tra sistemi legislativi dei diversi paesi, al principio degli anni ’90
avviene nell’ambito del processo di integrazione europea un nuovo salto
di qualità: la stipula del trattato di Maastricht e la trasformazione
della CEE in UE. Con tale trattato le politiche fiscali degli Stati
membri vengono imbrigliate all’interno di parametri imposti sulla base
di un paradigma di teoria economica che proclama la piena capacità del
mercato di garantire la piena occupazione e si dichiara ostile
all’intervento pubblico in economia. La sovranità fiscale, già
condizionata dalla libera circolazione di merci e capitali, si riduce ai
minimi termini. Le politiche di intervento pubblico nell’economia di
ispirazione keynesiana vengono formalmente messe fuori legge. Il tutto
senza che si faccia un solo passo per la costituzione di un bilancio
comune europeo e una minima armonizzazione dei sistemi fiscali. Si crea
così un contesto di angusti vincoli di bilancio imposti agli Stati in
assenza di una politica fiscale di dimensione europea. Contestualmente
si prepara il terreno dell’unificazione monetaria subordinando
l’adesione alla moneta unica al rispetto tendenziale dei parametri di
Maastricht. Nel 2002 entra in gioco l’Euro e con esso una nuova arma di
disciplina dell’azione degli Stati membri e un’ulteriore sottrazione di
sovranità economica. Anche in questo caso il passaggio non è
accompagnato da una reale creazione di un ordine di sovranità superiore
effettivo, dal momento che la Banca Centrale Europea per statuto assume
obiettivi del tutto slegati dallo sviluppo economico dei paesi
(esclusiva attenzione per il controllo dell’inflazione, divieto di
finanziare i debiti pubblici degli stati).
Si completa così, con l’unificazione
monetaria, il disegno storicamente inedito di un’area economica
totalmente integrata, governata da vincoli apparentemente tecnici alle
politiche economiche in cui gli Stati membri sono privati di qualunque
capacità decisionale effettiva, sia per vincoli espliciti (che limitano
le politiche fiscali e annullano la sovranità monetaria), sia per
vincoli impliciti legati alla libera circolazione di merci e capitali
(annullamento della sovranità delle politiche industriali e
commerciali). Allo stesso tempo, a fronte di questo annullamento di
sovranità decisionale degli stati, nell’apparente vuoto, si impone non
già una sovranità politica di ordine superiore (di dimensione europea),
ma l’azione di un meccanismo di vincoli automatici (ovvero
l’applicazione di un’apparente pura tecnocrazia). Tuttavia il tecnicismo
in politica è sempre e soltanto un’apparenza che nasconde rapporti di
forza. La super governance europea, ammantata di caratteri
tecnici giudicati insindacabili è in realtà il riflesso simultaneo di
un’egemonia dei paesi più forti (Germania in primo luogo) su quelli più
deboli e di un’egemonia pressoché incontrastata della classe sociale
dominante sulla classe sociale subalterna in tutti i paesi europei. La
macchina dei trattati europei si concretizza nei fatti in un laboratorio
di politiche neo-liberiste attuate in nome e per conto di interessi
economici ristretti contro la maggioranza delle popolazioni europee e in
un rapporto gerarchico ben delineato tra paesi. Gli eventi degli ultimi
cinque anni (speculazione sui debiti pubblici e imposizione delle
politiche di austerità in forme brutali) hanno semplicemente esasperato
dinamiche conflittuali già ben consolidate da anni. Questo duplice
conflitto, sociale interno e internazionale, è tuttavia coperto da
un’apparente tecnocrazia e dal mito di una futuribile e mai costituita
Europa politica.
Se questa è la veste concreta dell’Unione
europea, che atteggiamento occorre avere al riguardo? Il punto focale
della risposta, concerne il ruolo del conflitto sociale e delle
potenzialità di trasformazione della società nella direzione ritenuta
auspicabile. Se si vuole riportare il conflitto sociale, in tutte le sue
sfaccettature ad un livello di effettiva rappresentanza e
praticabilità, il primo nodo da affrontare è quello del recupero di
forme di sovranità politica e democratica effettive. Senza involucro
politico, il conflitto sociale viene depotenziato nell’apparente
egemonia di una tecnocrazia insondabile. Parlare dunque di sovranità
senza equivoci, ovvero adottando il punto della classe sociale
subalterna, significa porre l’accento sulla necessità del recupero di
forme politiche e di rappresentanza entro cui poter dare un senso
concreto al conflitto sociale e alle potenzialità di trasformazione
della società in una direzione di maggiore uguaglianza e giustizia.
Che tale involucro possa essere una
futura Europa Stato o lo Stato nazionale tradizionale non è
necessariamente predeterminabile in senso ideologico. Ciò che conta, in
ultima istanza, è la sovranità politica intesa come spazio effettivo di
mediazione politica e partecipazione concreta alla vita collettiva.
L’assenza di sovranità produce infatti una cronica subalternità, sancita
a priori, per chiunque voglia opporre alle relazione socioeconomiche
dominanti una concreta alternativa. Una subalternità che assume persino
un rilievo psicologico e culturale, dovuto al sentimento di inutilità e
inefficacia della propria azione. Il regno dei mercati e dei vincoli
tecnici, di cui l’Unione europea è concreta espressione, è non soltanto
il regno della legge del più forte, ma anche il regno in cui tale legge
diventa indiscutibile. E’ questo il nodo cruciale! Allo spazio fluido e
de-territorializzato dei mercati, dove l’unica legge rilevante è la
libertà del capitale di migrare da un luogo ad un altro, occorre opporre
la riappropriazione di spazi di sovranità politica effettiva,
precondizione logica per qualsiasi azione trasformativa. Se tale spazio
possa realmente essere il continente Europeo nella sua enorme
eterogeneità storica, economica e linguistico-culturale è una domanda
ardua che di certo non può avere una risposta scontata positiva (qual è
quella offerta dal mantra dell’Europa politica come orizzonte
inevitabile e di là da venire), tanto più che in cinquant’anni di
apparente integrazione europea nulla si è fatto sul fronte della
creazione di condizioni oggettive di unità politica.
Ciò che è certo, a priori, è che occorre
uscire dalla struttura tecnocratica e ultra-classista dei trattati
europei. Se si concorda con questo assunto bisogna allora quanto meno
ipotizzare, laddove le condizioni oggettive di un’Europa Stato si
rivelino insostenibili, un ritorno alla sovranità piena dello Stato
nazionale. Non è una via ideologica di principio, ma una strada
necessaria da preparare, discutere con serietà e responsabilità. Troppi
anni di europeismo acritico e ideologico hanno tarpato il dibattito nel
nostro paese liquidando le posizioni critiche dell’Unione Europea di
populismo o nazionalismo lasciando il campo della critica alla UE a
forze reazionarie che nulla hanno a che spartire con l’interesse della
classe subalterna. Occorre cambiare rotta, senza fraintendimenti e con
la chiara coscienza del fatto che la sovranità politica è l’involucro
oggettivo di qualsiasi forma di conflitto sociale costruttivo. Il
dibattito deve essere aperto prima che sia troppo tardi!
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