La proiezione, pubblicata
nel report Modern Slavery Index 2017 a cura del centro studi britannico
Verisk Maplecroft, si basa soprattutto sull’elevato numero di sbarchi
sulle coste italiane. Arrivi che hanno provocato un innalzamento del
numero delle “persone vulnerabili” facili prede di mafie e sfruttatori.
Il sociologo: "Il problema è il sistema d'accoglienza. L'80% di
sfruttati è di nazionalità straniera, gli altri italiani".
Secondo il report, tra l’altro, le violazioni delle leggi contro lo sfruttamento di esseri umani mostrano un aumento in 20 Paesi membri dell’Unione Europea su 28. I casi più gravi di violazioni in Romania e Italia, dove si rilevano più episodi di lavoro forzato, servitù e traffico di esseri umani. “In un sistema dove domanda e offerta sono così grandi – continua Omizzolo – si inseriscono le mafie. Lo fanno in due modi. In alcuni casi reclutano persone direttamente nel Paese di origine e organizzano il trasferimento, in maniera legale o illegale. Altre volte riescono a entrare nei Centri di Accoglienza Straordinaria (Cas) meno controllati che, così, diventano luoghi di reclutamento. Le mafie non producono il sistema, dovuto a pecche dell’accoglienza e del mercato del lavoro, ma vi si inseriscono, lo sfruttano. Gli ultimi censimenti parlano di 27 mafie coinvolte in questo business”.
E, in Italia, il settore dove più frequentemente ci si imbatte nello sfruttamento o la riduzione in schiavitù è quello agricolo. Ma non sono solo alcune piantagioni di pomodori del sud Italia, dove sfruttamenti, abusi e violenze sessuali sono all’ordine del giorno, a destare preoccupazione: “È sbagliato pensare che questi lavoratori sfruttati – dice il sociologo – finiscano solo a raccogliere pomodori in Puglia e in Sicilia o nei campi e nei mercati generali dell’Agro Pontino. Di uomini e donne ridotti in schiavitù se ne trovano anche nelle aziende dell’eccellenza vinicola del ricco Piemonte. Questo dimostra che il fenomeno ha natura sistemica”. Per questo, fare una mappa della schiavitù in Italia non è possibile perché si parla di un fenomeno fluido: “C’è settorializzazione – spiega Omizzolo -, ma non si può parlare di modello. A Latina, fino a qualche anno fa, non si trovavano richiedenti asilo nei campi, oggi sì. Molti di loro lavoravano nelle aziende del nord. Inoltre, non è corretto fare una differenziazione etnica: nei campi non si trovano solo indiani e africani, ma anche persone dell’est Europa e di altre zone del mondo. Stessa cosa vale per la prostituzione: per strada si trovano molte donne dell’est e nigeriane, ma in casa lavorano anche molte cinesi e addirittura donne provenienti da Pakistan e Bangladesh”.
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