Lavorano dodici ore per 20 euro. Arrivano
dalla Nigeria, dal Mali, dal Senegal. E hanno sostituito gli indiani.
Che dicono: «Bisogna fare un altro sciopero e chiedere più controlli.
Ma tutti insieme, solo così ci libereremo dallo sfruttamento».
Sul ciglio della litoranea tra Sabaudia e Latina gli incendi hanno
lasciato solo bottiglie di vetro annerite, carcasse di animali e un
odore acre che soffoca il respiro. Qualche metro più il là, uomini chini
sotto il sole cocente caricano in braccio cocomeri da dieci chili. Li
passano l’uno all’altro fino all’ultimo della catena che li ripone su un
camion. Questa è la terra dei sikh, arrivati dall’India in cerca di
fortuna. Oggi però non si vedono.
Kaleed ha finito il suo turno e si avvicina alla bicicletta agganciata a
una rete di metallo divelta. Viene dal Gambia e da qualche mese ha
trovato lavoro. «Guadagno 20 euro al giorno e faccio quello che mi dice
il padrone», spiega. Dieci, dodici ore senza alcun contratto. «E’
faticoso, ma mi trovo bene. Ho un posto dove dormire e mangiare». Kaleed
quando è sera rientra al centro di accoglienza. «Ho saputo che potevo
essere pagato per raccogliere la frutta da altri compagni che vivono con
me. Nessuno è mai venuto a controllare. Non so se gli operatori lo
sappiano, certo mi vedono andare via ogni giorno e tornare con gli abiti
sporchi, ma penso che a loro stia bene e anche a me. Così mando i soldi
alla mia famiglia. Io voglio andare via dall’Italia». Con lui ci sono
una decina di africani, arrivano dalla Nigeria, dal Mali, dal Senegal.
«L’importante è che la padrona ci paghi», taglia corto Karem, partito da
Dakar e sbarcato in Italia un anno fa. Quella stessa padrona gli ha
promesso che vuole sostituire tutti gli indiani con loro «perché ci
pagano meno e lavoriamo di più».
Tre ragazzi sikh li scrutano. Abitano a ridosso del campo coltivato, in
alcune baracche dietro le serre. Da anni pagano ciascuno un affitto di
cento euro al mese, ma ora hanno paura di perdere tutto. «Io non lavoro
più, sono stato sostituito da un nigeriano e devo avere ancora un anno
di stipendio. Ho deciso di fare denuncia», racconta Jot, da quindici
anni in queste campagne. Jot è arrabbiato. «Siamo uomini, non animali.
Tu riusciresti a lavorare quattordici ore al giorno tutti i giorni con
pause di appena venti minuti per andare in bagno e mangiare?», chiede.
Molti di loro per resistere alla fatica ingoiano semi d’oppio, servono a
non sentire il dolore. Poi quasi a scusarsi ammette: «Anche loro hanno
famiglia e devono lavorare per vivere, ma noi indiani solo perché
chiediamo più legalità veniamo cacciati via. Ci considerano ribelli».
Ultimi tra gli ultimi lottano per guadagnarsi le briciole per
sopravvivere. Una battaglia quotidiana che si piega ai più bassi
interessi economici del padrone di turno, in una catena di violenza e
soprusi.
Lo sa bene chi ha partecipato allo sciopero il 18 aprile 2016, quello in
cui per la prima volta i braccianti sikh hanno alzato la testa e
chiesto quello che era un loro diritto. Erano in duemila, pagati 3,5
euro l’ora contro i nove che vorrebbe il contratto nazionale. «Il
padrone mi voleva mandare via, ma non lo ha fatto, temeva lo
denunciassi», ricorda Hardeep. E cosa è successo dopo? «Alcuni hanno
cacciato gli indiani, qualcuno è arrivato anche a picchiarli tanto da
mandarli al pronto soccorso. Altri hanno aumentato la paga oraria, ma
non tutti hanno mantenuto la promessa. L’hanno fatto solo per qualche
mese. E adesso ci sostituiscono con gli africani e con le donne». Ultime
tra gli ultimi vengono pagate meno «perché non si ribellano», spiega.
Arrivano dalla Romania, ma soprattutto dal Bangladesh. I furgoni ne
scaricano decine e decine al giorno. Sei euro il costo del servizio.
«Gestisce tutto un ricchissimo caporale mio connazionale», ammette
Faraaz. Lui è di Dacca e a Terracina divide un piccolo appartamento con
cinque bengalesi, ciascuno paga 150 euro. «Non ho i documenti e quindi
sono un clandestino. Se mi prende la Polizia mi manda via». Da Dacca,
passando per Mumbai, è arrivato in Turchia e poi in Sicilia. A muoverlo
trafficanti che ha pagato 15mila euro. Sogna di andare in nord Italia,
in una fabbrica, di liberarsi dal suo caporale. «Ogni mattina alle
quattro e mezza vado in piazza e salgo su un furgone insieme ad altri
amici. Se faccio tardi non lavoro».
Lo pagano 30 euro al giorno, meno sei al caporale ne restano 24. «Il
padrone mi paga a fine mese in nero, ma sempre meno di quello che
dovrebbe. Io non protesto. Mai».
Khaleed, maglietta rossa e pantaloni sporchi di terra,
inforca la bicicletta e scappa via. Gli altri lo seguono schivando le
auto che sfrecciano lungo la Pontina. Qualche strada più in là, in mezzo
alla campagna, due bandiere italiane issate sventolano a fatica. E’ uno
dei tanti centri di accoglienza straordinaria attivati dalla prefettura
nella zona. Una villetta in mezzo al nulla e decine di biciclette
ammucchiate in un campo di meloni. Gli ospiti sono un’ottantina, a
gestirlo è l’associazione Eriches 29. Faceva parte del sistema Buzzi,
ora è commissariata e interpellata da l’Espresso, per capire se fosse
toccata dal fenomeno, non ha voluto rispondere.
Altrove però sono state documentate connessioni e complicità tra
responsabili di strutture d’accoglienza e aziende agricole che sfruttano
i braccianti. Grazie al coraggio di un ragazzo nigeriano, vicino a
Cosenza, si è scoperto che trenta rifugiati dovevano raccogliere patate e
badare al gregge vivendo in condizioni di schiavitù. Se si fermavano
per riposare venivano minacciati e presi a calci. Per gli investigatori
chi gestiva il centro manipolava i fogli presenza, fingendo di fare
svolgere le attività previste per l’integrazione. Sfruttati doppiamente:
nei campi e per ottenere i finanziamenti.
Una situazione di grave sfruttamento che ha portato il ministro
dell’Interno Marco Minniti ad avviare un piano di ispezioni in 2.130
centri di accoglienza. «Occorre attenzione e coscienza, ci può essere
integrazione a beneficio di tutti. Servono progetti capaci di dare
risposte ai migranti ed è necessario fermare la criminalità del
caporalato», sostiene il sindaco di Latina Damiano Coletta che in caso siano riscontrati dei reati è disposto a costituirsi parte civile.
Dentro al negozio di alimentari di Gurmukh Sigh, bracciante per 15 anni,
diventato leader della comunità indiana del Lazio, in tanti protestano:
«loro hanno un tetto dove dormire e i soldi del pocket money, noi
dobbiamo dimostrare di avere un alloggio, non siamo contro ma così
cresce lo sfruttamento».
Gurmukh si fa mediatore delle richieste dei 25 mila sikh in queste terre
e ragiona: «Penso che sia un errore considerare gli africani come
persone che ci rubano il lavoro. Dobbiamo dirgli quali sono i diritti,
metterci insieme e protestare contro il padrone, contro i caporali che
spesso sono indiani e che rispondono a un altro caporale italiano». «E
anche contro i commercialisti» - lo incalza Hardeep - «pretendono
quattro mila euro per darci i contributi. Senza non possiamo rinnovare
il permesso di soggiorno perché non raggiungiamo le soglie minime
previste dalla legge». Gurmukh prende nota, rassicura e cerca di trovare
soluzioni.
«In alcuni territori già esposti al caporalato la cattiva gestione dei
migranti si sposa con lo sfruttamento lavorativo. Le speculazioni
criminali non consentono di garantire una positiva convivenza, di
trasformare l’accoglienza in opportunità», spiega Marco Omizzolo della
cooperativa In Migrazione che da anni segue i sikh e ha permesso loro di
organizzare il primo sciopero.
Gurmukh ne è convinto. Una soluzione c’è: «Bisogna fare un altro
sciopero e chiedere più controlli. Lo dobbiamo fare tutti insieme, solo
così ci libereremo dallo sfruttamento».
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mercoledì 2 agosto 2017
Schiavismo in Italia. Il caporalato non si ferma: basta sikh, i nuovi schiavi nei campi sono i migranti.
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