Il
sociologo ginevrino Philippe Perrenoud, che si è a lungo occupato del
rapporto tra diseguaglianze e insuccessi scolastici, ha provato
penetrare questo tema nel suo ultimo libro (Quando la scuola ritiene di preparare alla vita. Sviluppare competenze o insegnare diversi saperi?
tr. it. di E. Coccia, Anicia 2017), non solo mettendone a fuoco la
complessità semantica, ma anche le implicazioni sociali e politiche,
provando – finalmente – a scavare in profondità. Il vero tema, come
emerge dalla sua analisi, concerne la scuola e la sua funzione nelle
società democratiche e plurali.
La stessa valorizzazione del concetto di competenza
non è legata soltanto alle attese o ai linguaggi del mondo aziendale.
C’è dentro un ripensamento complessivo dello stare al mondo. Quando
immaginiamo la figura di un medico competente, pensiamo probabilmente a
un dottore preparato, esperto e capace di risolvere in positivo
situazioni complesse. Perrenoud spiega bene che questa logica della performance
ha oggi pervaso non solo le professioni, ma ogni sfera della nostra
esistenza. Di fronte ai mali che occorrono nella vita di ciascuno, come
la depressione, le dipendenze, le separazioni, le malattie, le crisi
finanziarie, il nostro atteggiamento ultra-disposizionale tende ad
attribuire a chi ne è vittima l’assenza delle necessarie competenze per
evitare quelle disgrazie, o per non averle adeguatamente fronteggiate.
Purtroppo Perrenoud acquisisce questo dato sociale, ma non lo contesta.
Personalmente considero molto rischioso il paradigma che concepisce
delle competenze alla vita,
perché basato su un individualismo esasperato, e non è detto che la
scuola debba necessariamente aderire alla società, soprattutto quando le
dinamiche culturali sono determinate da fattori di natura economica.
Perrenoud
ammette invece che occorrano, oggi più che in passato, alcune
competenze per affrontare la vita e i suoi imprevisti, e che potrebbero
essere facilitate da una rivisitazione del curriculum formativo, tale da offrire spazio anche a un’educazione giuridica e psico-sociale di base.
Non
si tratta di inserire o rimuovere discipline, ma di domandarsi se e
perché la scuola debba preparare alla vita, o soltanto agli studi
futuri. Questo dibattito divide sovente gli apologeti della scuola
“tradizionale”, organizzata per discipline e imperniata sulla
valorizzazione di conoscenze da trasmettere alle nuove generazioni, e
gli assertori di un approccio maggiormente attivistico, basato sulla
creazione laboratoriale di situazioni-problema al fine di sollecitare la
formazione di competenze complesse, da valutare attraverso prodotti e
prestazioni. Tuttavia, la contrapposizione tra saperi disinteressati e
competenze pratico-utilitaristiche è grossolana e semplicistica. Non è
sufficiente costruire contesti d’apprendimento e situazioni complesse,
affinché si approdi alla competenza, poiché per decifrare le risorse a
disposizione chiunque dovrebbe aver acquisito preliminarmente un
bagaglio di conoscenze e linguaggi, indispensabili anche per immaginare
soluzioni possibili. Analogamente, nella didattica per discipline non
solo si sviluppano determinate competenze, ma si creano le condizioni
per una maturazione individuale che lascia accedere a nuove e impreviste
competenze. Prese per sé, le due posizioni – quella che predilige una
cultura basata solo sui saperi e l’idea di concentrarsi solo sulla
capacità di mobilitare risorse per risolvere problemi – sono due
assurdità.
Si
potrebbe obiettare che le competenze in quanto tali – a differenza
delle singole discipline – posseggono una natura più generale, che si
pone al di qua delle distinzioni specialistiche, e che le rende di fatto
una forma di preparazione alla vita. Anche Perrenoud è parzialmente
convinto di ciò, e pertanto promuove l’approccio didattico per competenze.
Tuttavia, egli avverte, questo non può avvenire a discapito di
disonestà intellettuale o approssimazione scientifica. Ad esempio, da
anni si ripete meccanicamente lo slogan
delle competenze trasversali. Tuttavia, precisa il sociologo svizzero,
esse non esistono affatto. Poniamo ad esempio il caso del “saper
comunicare”. Come tutti possono intuire, il contesto, il destinatario,
le motivazioni, il messaggio, il codice, il canale del processo
comunicativo sono talmente variabili che non può assolutamente esistere
una competenza trasversale chiamata “saper comunicare”. Probabilmente
chi sarà molto esperto in una modalità comunicativa potrà godere di
maggiore destrezza anche in altre varianti, e commettere meno errori di
altri (poiché procederà attraverso analogie e intuizioni). Lo stesso si
può dire per un’altra tipica competenza trasversale, come il “saper
analizzare”. Se esistesse davvero questo tipo di capacità, e se fosse
possibile educarla, “chiunque avesse quest’unica competenza potrebbe
analizzare con altrettanta efficacia un mercato finanziario, un film,
una roccia, una radiografia” (p. 88).
Le
competenze, in realtà, sono sempre competenze specifiche, legate a un
campo o a un tipo di disciplina (qualcuno lo spieghi anche ai tecnici
del MIUR).
Se conoscenze e competenze sono reciprocamente incardinate, insegnare per discipline non è la stessa cosa che insegnare per competenze.
La differenza residua. E non si tratta di una contrapposizione tra una
concezione meccanica e un’idea significativa o costruttivista
dell’apprendimento. Anche questa semplificazione è banale. Non esiste un
insegnante che non sia costruttivista. È come immaginare un fisico
contrario alla forza di gravità. Il costruttivismo, precisa
opportunamente Perrenoud, non è una metodologia, ma è la spiegazione
oggi più chiara e scientificamente affidabile di come procede
l’apprendimento umano.
È
però vero che la differenza tra le due radicalizzazioni didattiche
esiste e resiste, perché in realtà concerne alcuni aspetti di politica
scolastica, che finiscono per raggiungere questioni di politica
generale. Il primo di essi è il tema dell’inclusione. Entrambi gli
approcci possono essere considerati in certo senso “attivistici”,
tuttavia lo sono in modo differente. Anche i più tradizionalisti tra gli
insegnanti, infatti, fanno sempre leva sull’attivazione di processi
cognitivi, che noi chiamiamo semplicemente “studiare”, che implica la
capacità di ragionare, leggere, lavorare, porre e porsi domande,
riassumere, gerarchizzare. E tutto questi combinati mentali avvengono
durante il corso di una spiegazione, di un esercizio, di una lettura o
di un dialogo. Nonostante l’indubbia mobilitazione di risorse interne da
parte dei discenti, questo approccio didattico presenta un problema non
secondario: per una parte degli studenti esso è completamente
inefficace. Non tutti, infatti, sono in grado di “costruire le loro
conoscenze al ritmo del discorso magistrale” (p. 98). La soluzione
parrebbe dunque trovarsi in una didattica maggiormente inclusiva, basata
su ricerche e progetti da svolgere in gruppo. Ma la cosa non è poi così
semplice: “le pedagogie attive possono destabilizzare gli alunni che
hanno bisogno d’un contesto rassicurante, di compiti precisi, criteri
chiari per distinguere il vero dal falso” (p. 101), e anche il concetto
di cooperative learning presenta alcune criticità. Ecco perché, secondo Perrenoud, occorre lavorare a un “costruttivismo controllato” (id.).
Questa riflessione sulla dimensione inclusiva/esclusiva della didattica ci conduce verso la vera questione politica in gioco.
Se
il buon senso ci conduce a limare quella contrapposizione tra
conoscenze e competenze, intuendone la naturale complementarità, il
radicalizzarsi delle prese di posizione in difesa di una scuola dei
saperi come contrapposta alla didattica per competenze (inevitabilmente
interpretata dai suoi detrattori come abbassamento del livello generale
di istruzione), ha una ragione squisitamente classista.
Le
classi agiate e forse ancor di più le classi medie tendono a
privilegiare una struttura della scuola destinata alla preparazione al
proseguimento degli studi. Ecco perché i programmi vengono difesi nella
loro completezza ed estensione, e alle discipline più tradizionali (in
particolare la matematica, la lingua madre e la lingua straniera)
vengono assegnati dei ruoli centrali. A questa istanza Perrenoud
contrappone invece un ipotetico blocco sociale delle classi disagiate,
che in gran parte concludono il percorso scolastico intorno ai 15-16
anni, e che avrebbero invece bisogno di una scuola che prepari
maggiormente alla vita; ma le cosiddette “educazioni” (musicale,
artistica, sessuale, civica, religiosa, alimentare, et similia), mantengono un ruolo marginale nei nostri sistemi scolastici.
Quindi,
seguendo tale ragionamento, la scontro politico si consumerebbe tra una
parte della classe dirigente, orientata a difendere le istanze delle
classi medio-alte, unite a quelle dei professori – interessati
esclusivamente a tutelare le proprie discipline e il proprio quadro
orario – e una piccola porzione più illuminata dell’élite, che
risulterebbe essere maggiormente progressista e promotrice di una
società più equa e giusta.
Ciò
che Perrenoud non vede, è che invece ci troviamo di fronte allo scontro
tra un classismo esplicito (riconducibile alla prima posizione) e un
classismo inconsapevole e radical chic.
Non è infatti possibile non accorgersi che se a livello di scuola
dell’obbligo la posizione di chi difende una didattica per competenze tout court
schiacciasse completamente la didattica tradizionale, ci sarebbe una
scuola più inclusiva ma un indiscusso abbassamento del livello di sforzo
cognitivo. Questo implicherebbe una riduzione di quelle peculiari
competenze necessarie al proseguimento degli studi. Ma chi sarebbe
realmente colpito da questa conseguenza? Le classi medio-alte, come in
parte già fanno, compenserebbero la perdita rivolgendosi al mercato
della formazione privata (corsi d’inglese, lezioni private di
matematica, approfondimenti promossi dalle stesse famiglie con percorsi
d’arte o seminari estivi). Le classi disagiate, invece, rimarrebbero al
palo con una modesta base culturale, e sarebbero automaticamente esclusi
dall’ipotesi di proseguire gli studi. In altri termini, la posizione
definita “progressista” da Perrenoud non solo dà per scontate le
differenze sociali, ma rischia di evocare un sistema scolastico che le
rafforzi. È invece del tutto evidente che solo lo sforzo di trascinare
tutti gli studenti verso un livello più alto di formazione, cominciando
dall’innalzamento dell’obbligo scolastico, garantirebbe una maggiore
equità nelle possibilità d’accesso agli studi futuri.
Quanto
alle competenze che preparano alla vita, occorre comprendere che
proprio una migliore istruzione generale garantirebbe a chiunque
velocità e capacità d’accesso autonomo alle informazioni utili nelle
diverse situazioni impreviste cui siamo esposti nel corso della nostra
esistenza, siano esse di tipo giudiziario, sanitario o ambientale. Si
tratta di possedere un ordine mentale, capacità di disporre gerarchie,
nessi logici e consequenziali, metodo di lavoro e capacità
d’organizzazione. Perrenoud stesso riconosce che nessuna scuola può
preparare alle competenze che presuntivamente ci occorreranno nella
vita, ma “questa tesi non convalida assolutamente lo status quo:
la scuola attuale non prepara tutti i giovani a costruire competenze
nell’età adulta” (p. 245). È vero infatti, per le ragioni sopra esposte,
che la scuola non è sufficientemente inclusiva. Quindi certamente
bisogna temperale alcuni rigorismi dell’approccio didattico più
tradizionalista.
Al
di là di sterili contrapposizioni, è forse ragionevole, dunque, cercare
una via di mezzo, come suggerisce Perrenoud, senza impostare l’intero curriculum sullo sviluppo di competenze. La sua proposta è allora estremamente interessante:
“Non
basta, per sviluppare competenze, prevedere alcuni esercizi di
trasmissione alla conclusione di ogni capitolo del programma nozionale.
L’apprendimento della mobilitazione passa attraverso un raffronto
ripetuto con situazioni che mettono in sinergia molteplici risorse,
acquisite in momenti diversi della vita o del corso scolastico, spesso
in più d’una disciplina. Non è irragionevole pesare di dedicare un terzo del tempo che si trascorre nella scuola a un tale addestramento” (p. 78).
Non
è possibile qui soffermarsi ulteriormente sulle molte potenzialità di
una integrazione articolata dei due approcci, ma indubbiamente questa –
che potremmo chiamare “teoria del 30%” – è meritevole di considerazione,
anche nei tavoli tecnici ministeriali.
Occorre
comunque dare atto a Perrenoud di diffidare di tutte le soluzioni
semplicistiche e banali. Egli analizza esaustivamente gli aspetti della
questione e ne ammette le difficoltà. D’altro canto, in una società
democratica discutere delle finalità della scuola non è solo un compito
particolarmente difficile, ma dovrebbe diventare sereno problema di
confronto cui abituarsi. Nessuno dovrebbe aspettarsi soluzioni univoche e
definitive, questo vale per i ministri come per i docenti. Bisogna
abituarsi a lavorare in condizioni di discussione aperta. Infatti “in
una società pluralistica, chiarire durevolmente le finalità della scuola
è un compito quasi impossibile, tenendo conto della complessità del
problema e della diversità dei punti di vista di fronte ai quali ci si
trova” (p. 198).
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