mercoledì 16 agosto 2017

Libro. Tra conoscenze e competenze si gioca una partita tutta politica.

Il sociologo ginevrino Philippe Perrenoud, che si è a lungo occupato del rapporto tra diseguaglianze e insuccessi scolastici, ha provato penetrare questo tema nel suo ultimo libro (Quando la scuola ritiene di preparare alla vita. Sviluppare competenze o insegnare diversi saperi? tr. it. di E. Coccia, Anicia 2017), non solo mettendone a fuoco la complessità semantica, ma anche le implicazioni sociali e politiche, provando – finalmente – a scavare in profondità. Il vero tema, come emerge dalla sua analisi, concerne la scuola e la sua funzione nelle società democratiche e plurali.
La stessa valorizzazione del concetto di competenza non è legata soltanto alle attese o ai linguaggi del mondo aziendale. C’è dentro un ripensamento complessivo dello stare al mondo. Quando immaginiamo la figura di un medico competente, pensiamo probabilmente a un dottore preparato, esperto e capace di risolvere in positivo situazioni complesse. Perrenoud spiega bene che questa logica della performance ha oggi pervaso non solo le professioni, ma ogni sfera della nostra esistenza. Di fronte ai mali che occorrono nella vita di ciascuno, come la depressione, le dipendenze, le separazioni, le malattie, le crisi finanziarie, il nostro atteggiamento ultra-disposizionale tende ad attribuire a chi ne è vittima l’assenza delle necessarie competenze per evitare quelle disgrazie, o per non averle adeguatamente fronteggiate. Purtroppo Perrenoud acquisisce questo dato sociale, ma non lo contesta. Personalmente considero molto rischioso il paradigma che concepisce delle competenze alla vita, perché basato su un individualismo esasperato, e non è detto che la scuola debba necessariamente aderire alla società, soprattutto quando le dinamiche culturali sono determinate da fattori di natura economica.
Perrenoud ammette invece che occorrano, oggi più che in passato, alcune competenze per affrontare la vita e i suoi imprevisti, e che potrebbero essere facilitate da una rivisitazione del curriculum formativo, tale da offrire spazio anche a un’educazione giuridica e psico-sociale di base.

Non si tratta di inserire o rimuovere discipline, ma di domandarsi se e perché la scuola debba preparare alla vita, o soltanto agli studi futuri. Questo dibattito divide sovente gli apologeti della scuola “tradizionale”, organizzata per discipline e imperniata sulla valorizzazione di conoscenze da trasmettere alle nuove generazioni, e gli assertori di un approccio maggiormente attivistico, basato sulla creazione laboratoriale di situazioni-problema al fine di sollecitare la formazione di competenze complesse, da valutare attraverso prodotti e prestazioni. Tuttavia, la contrapposizione tra saperi disinteressati e competenze pratico-utilitaristiche è grossolana e semplicistica. Non è sufficiente costruire contesti d’apprendimento e situazioni complesse, affinché si approdi alla competenza, poiché per decifrare le risorse a disposizione chiunque dovrebbe aver acquisito preliminarmente un bagaglio di conoscenze e linguaggi, indispensabili anche per immaginare soluzioni possibili. Analogamente, nella didattica per discipline non solo si sviluppano determinate competenze, ma si creano le condizioni per una maturazione individuale che lascia accedere a nuove e impreviste competenze. Prese per sé, le due posizioni – quella che predilige una cultura basata solo sui saperi e l’idea di concentrarsi solo sulla capacità di mobilitare risorse per risolvere problemi – sono due assurdità.
Si potrebbe obiettare che le competenze in quanto tali – a differenza delle singole discipline – posseggono una natura più generale, che si pone al di qua delle distinzioni specialistiche, e che le rende di fatto una forma di preparazione alla vita. Anche Perrenoud è parzialmente convinto di ciò, e pertanto promuove l’approccio didattico per competenze. Tuttavia, egli avverte, questo non può avvenire a discapito di disonestà intellettuale o approssimazione scientifica. Ad esempio, da anni si ripete meccanicamente lo slogan delle competenze trasversali. Tuttavia, precisa il sociologo svizzero, esse non esistono affatto. Poniamo ad esempio il caso del “saper comunicare”. Come tutti possono intuire, il contesto, il destinatario, le motivazioni, il messaggio, il codice, il canale del processo comunicativo sono talmente variabili che non può assolutamente esistere una competenza trasversale chiamata “saper comunicare”. Probabilmente chi sarà molto esperto in una modalità comunicativa potrà godere di maggiore destrezza anche in altre varianti, e commettere meno errori di altri (poiché procederà attraverso analogie e intuizioni). Lo stesso si può dire per un’altra tipica competenza trasversale, come il “saper analizzare”. Se esistesse davvero questo tipo di capacità, e se fosse possibile educarla, “chiunque avesse quest’unica competenza potrebbe analizzare con altrettanta efficacia un mercato finanziario, un film, una roccia, una radiografia” (p. 88).
Le competenze, in realtà, sono sempre competenze specifiche, legate a un campo o a un tipo di disciplina (qualcuno lo spieghi anche ai tecnici del MIUR).
Se conoscenze e competenze sono reciprocamente incardinate, insegnare per discipline non è la stessa cosa che insegnare per competenze. La differenza residua. E non si tratta di una contrapposizione tra una concezione meccanica e un’idea significativa o costruttivista dell’apprendimento. Anche questa semplificazione è banale. Non esiste un insegnante che non sia costruttivista. È come immaginare un fisico contrario alla forza di gravità. Il costruttivismo, precisa opportunamente Perrenoud, non è una metodologia, ma è la spiegazione oggi più chiara e scientificamente affidabile di come procede l’apprendimento umano.
È però vero che la differenza tra le due radicalizzazioni didattiche esiste e resiste, perché in realtà concerne alcuni aspetti di politica scolastica, che finiscono per raggiungere questioni di politica generale. Il primo di essi è il tema dell’inclusione. Entrambi gli approcci possono essere considerati in certo senso “attivistici”, tuttavia lo sono in modo differente. Anche i più tradizionalisti tra gli insegnanti, infatti, fanno sempre leva sull’attivazione di processi cognitivi, che noi chiamiamo semplicemente “studiare”, che implica la capacità di ragionare, leggere, lavorare, porre e porsi domande, riassumere, gerarchizzare. E tutto questi combinati mentali avvengono durante il corso di una spiegazione, di un esercizio, di una lettura o di un dialogo. Nonostante l’indubbia mobilitazione di risorse interne da parte dei discenti, questo approccio didattico presenta un problema non secondario: per una parte degli studenti esso è completamente inefficace. Non tutti, infatti, sono in grado di “costruire le loro conoscenze al ritmo del discorso magistrale” (p. 98). La soluzione parrebbe dunque trovarsi in una didattica maggiormente inclusiva, basata su ricerche e progetti da svolgere in gruppo. Ma la cosa non è poi così semplice: “le pedagogie attive possono destabilizzare gli alunni che hanno bisogno d’un contesto rassicurante, di compiti precisi, criteri chiari per distinguere il vero dal falso” (p. 101), e anche il concetto di cooperative learning presenta alcune criticità. Ecco perché, secondo Perrenoud, occorre lavorare a un “costruttivismo controllato” (id.).
Questa riflessione sulla dimensione inclusiva/esclusiva della didattica ci conduce verso la vera questione politica in gioco.
Se il buon senso ci conduce a limare quella contrapposizione tra conoscenze e competenze, intuendone la naturale complementarità, il radicalizzarsi delle prese di posizione in difesa di una scuola dei saperi come contrapposta alla didattica per competenze (inevitabilmente interpretata dai suoi detrattori come abbassamento del livello generale di istruzione), ha una ragione squisitamente classista.
Le classi agiate e forse ancor di più le classi medie tendono a privilegiare una struttura della scuola destinata alla preparazione al proseguimento degli studi. Ecco perché i programmi vengono difesi nella loro completezza ed estensione, e alle discipline più tradizionali (in particolare la matematica, la lingua madre e la lingua straniera) vengono assegnati dei ruoli centrali. A questa istanza Perrenoud contrappone invece un ipotetico blocco sociale delle classi disagiate, che in gran parte concludono il percorso scolastico intorno ai 15-16 anni, e che avrebbero invece bisogno di una scuola che prepari maggiormente alla vita; ma le cosiddette “educazioni” (musicale, artistica, sessuale, civica, religiosa, alimentare, et similia), mantengono un ruolo marginale nei nostri sistemi scolastici.
Quindi, seguendo tale ragionamento, la scontro politico si consumerebbe tra una parte della classe dirigente, orientata a difendere le istanze delle classi medio-alte, unite a quelle dei professori – interessati esclusivamente a tutelare le proprie discipline e il proprio quadro orario – e una piccola porzione più illuminata dell’élite, che risulterebbe essere maggiormente progressista e promotrice di una società più equa e giusta.
Ciò che Perrenoud non vede, è che invece ci troviamo di fronte allo scontro tra un classismo esplicito (riconducibile alla prima posizione) e un classismo inconsapevole e radical chic. Non è infatti possibile non accorgersi che se a livello di scuola dell’obbligo la posizione di chi difende una didattica per competenze tout court schiacciasse completamente la didattica tradizionale, ci sarebbe una scuola più inclusiva ma un indiscusso abbassamento del livello di sforzo cognitivo. Questo implicherebbe una riduzione di quelle peculiari competenze necessarie al proseguimento degli studi. Ma chi sarebbe realmente colpito da questa conseguenza? Le classi medio-alte, come in parte già fanno, compenserebbero la perdita rivolgendosi al mercato della formazione privata (corsi d’inglese, lezioni private di matematica, approfondimenti promossi dalle stesse famiglie con percorsi d’arte o seminari estivi). Le classi disagiate, invece, rimarrebbero al palo con una modesta base culturale, e sarebbero automaticamente esclusi dall’ipotesi di proseguire gli studi. In altri termini, la posizione definita “progressista” da Perrenoud non solo dà per scontate le differenze sociali, ma rischia di evocare un sistema scolastico che le rafforzi. È invece del tutto evidente che solo lo sforzo di trascinare tutti gli studenti verso un livello più alto di formazione, cominciando dall’innalzamento dell’obbligo scolastico, garantirebbe una maggiore equità nelle possibilità d’accesso agli studi futuri.
Quanto alle competenze che preparano alla vita, occorre comprendere che proprio una migliore istruzione generale garantirebbe a chiunque velocità e capacità d’accesso autonomo alle informazioni utili nelle diverse situazioni impreviste cui siamo esposti nel corso della nostra esistenza, siano esse di tipo giudiziario, sanitario o ambientale. Si tratta di possedere un ordine mentale, capacità di disporre gerarchie, nessi logici e consequenziali, metodo di lavoro e capacità d’organizzazione. Perrenoud stesso riconosce che nessuna scuola può preparare alle competenze che presuntivamente ci occorreranno nella vita, ma “questa tesi non convalida assolutamente lo status quo: la scuola attuale non prepara tutti i giovani a costruire competenze nell’età adulta” (p. 245). È vero infatti, per le ragioni sopra esposte, che la scuola non è sufficientemente inclusiva. Quindi certamente bisogna temperale alcuni rigorismi dell’approccio didattico più tradizionalista.
Al di là di sterili contrapposizioni, è forse ragionevole, dunque, cercare una via di mezzo, come suggerisce Perrenoud, senza impostare l’intero curriculum sullo sviluppo di competenze. La sua proposta è allora estremamente interessante:
Non basta, per sviluppare competenze, prevedere alcuni esercizi di trasmissione alla conclusione di ogni capitolo del programma nozionale. L’apprendimento della mobilitazione passa attraverso un raffronto ripetuto con situazioni che mettono in sinergia molteplici risorse, acquisite in momenti diversi della vita o del corso scolastico, spesso in più d’una disciplina. Non è irragionevole pesare di dedicare un terzo del tempo che si trascorre nella scuola a un tale addestramento” (p. 78).
Non è possibile qui soffermarsi ulteriormente sulle molte potenzialità di una integrazione articolata dei due approcci, ma indubbiamente questa – che potremmo chiamare “teoria del 30%” – è meritevole di considerazione, anche nei tavoli tecnici ministeriali.
Occorre comunque dare atto a Perrenoud di diffidare di tutte le soluzioni semplicistiche e banali. Egli analizza esaustivamente gli aspetti della questione e ne ammette le difficoltà. D’altro canto, in una società democratica discutere delle finalità della scuola non è solo un compito particolarmente difficile, ma dovrebbe diventare sereno problema di confronto cui abituarsi. Nessuno dovrebbe aspettarsi soluzioni univoche e definitive, questo vale per i ministri come per i docenti. Bisogna abituarsi a lavorare in condizioni di discussione aperta. Infatti “in una società pluralistica, chiarire durevolmente le finalità della scuola è un compito quasi impossibile, tenendo conto della complessità del problema e della diversità dei punti di vista di fronte ai quali ci si trova” (p. 198).

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