Sono decenni che i governi italiani dichiarano con solennità di voler abbattere il debito. Poi però, con puntualità svizzera, si tolgono di mezzo lasciando un debito più alto. Questa bizzarra consuetudine non si verifica perché la gente scialacqua, come ci fanno credere, ma perché siamo divorati dagli interessi. Lo Stato ha rinunciato al potere di stampare moneta, così ogni volta che deve spendere più di quel che incassa chiede denaro al sistema finanziario privato. Diventiamo sempre più poveri mentre banche, assicurazioni e fondi di investimento ingrassano con un debito che diventa cattivo quanto il colesterolo che devasta le coronarie. Nel 2016 abbiamo risparmiato 25 miliardi di euro ma il debito pubblico è cresciuto di altri 40 miliardi perché il risparmio non arrivava a coprire la spesa per interessi. La storia si ripete dal 1992, da allora il debito è passato da 850 a 2270 miliardi di euro nonostante 768 miliardi di risparmi. Su una somma complessiva di 2038 miliardi di interessi, 1270 sono stati pagati a debito. Per cambiare davvero non ci sarebbe che la pressione popolare, peccato che ai governi e ai media che contano non sia affatto simpatica.
comune-info-net Francesco Gesualdi*
È
possibile combattere la miseria senza combattere i meccanismi che la
producono? La domanda è retorica: non esiste altra risposta che no.
Eppure è ciò che facciamo se non affrontiamo il tema del debito
pubblico. A onor del vero, va detto che il debito pubblico è come il colesterolo. C’è quello buono che rappresenta ricchezza e quello cattivo che rappresenta miseria.
Il debito è buono quando la moneta è gestita direttamente dallo Stato in un’ottica di piena occupazione. In tale contesto la
spesa in deficit si trasforma in ricchezza perché l’ammanco è
finanziato con moneta stampata di fresco che entrando nel circuito
economico stimola l’economia con effetti positivi su produzione,
occupazione, consumi e risparmi.
Purtroppo da una trentina di anni, già
prima di entrare nell’euro, lo Stato italiano si è ridotto al pari di
una qualsiasi famiglia o azienda che dipende dalle banche per qualsiasi
spesa supplementare. Il suo debito nei confronti dei privati oggi ha raggiunto 2270 miliardi di euro[1] e
si comporta come una zecca che affonda l’arpione nelle casse pubbliche
per sottrarre denaro in base al livello dei tassi di interesse
esistenti. Nel
2016 i soldi sottratti sono stati 68 miliardi di euro, nel 2012
addirittura 87 per un semplice capriccio della speculazione. Soldi di
tutti, che invece di andare a finanziare asili, ospedali, scuole al
servizio della collettività, vanno ad ingrassare gli azionisti delle
grandi strutture finanziarie. In effetti solo il 5,4% del debito
pubblico italiano è detenuto dalle famiglie. Tutto il
resto è nelle mani di banche, assicurazioni, fondi d’investimento, sia
italiani che esteri. Più precisamente le strutture finanziarie italiane
detengono il 63,1 per cento del debito pubblico italiano, quelle estere
il 31,5 per cento.[2]
Si può senz’altro affermare che il debito cattivo è un meccanismo di redistribuzione alla rovescia: prende a tutti per dare ai più ricchi. Perché solo i ricchi hanno risparmi da investire in titoli di Stato. E
i risultati si vedono: l’Italia è sempre più disuguale. Da società a
uovo si sta trasformando in società a piramide. Prima c’era un piccolo
numero di famiglie con redditi bassi, un piccolo numero con redditi
molto alti e nel mezzo un gran numero di famiglie con redditi medi. Oggi
molte famiglie di mezzo stanno migrando verso il basso mentre quelle di
cima sono sempre più esigue e naturalmente più ricche.
Da
un punto di vista patrimoniale, ossia della ricchezza posseduta sotto
forma di case, terreni, auto, gioielli, titoli, depositi, le famiglie
italiane possono essere divise in tre fasce. Quelle di cima, pari al 10
per cento, che detengono il 46 per cento dell’intera ricchezza privata.
Quelle di mezzo, equivalenti al 40 per cento che controllano il 44 per
cento della ricchezza. Quelle di fondo, che pur rappresentando il 50 per
cento delle famiglie italiane, si aggiudicano appena il 9,4 per cento
della ricchezza privata. [3]
Mediamente
la ricchezza delle famiglie appartenenti al 10 per cento più ricco è 22
volte più alta di quelle appartenenti al 50 per cento più povero.Ma se possibile la realtà è anche peggiore. Uno
studio del Censis certifica che i 10 individui più ricchi d’Italia
dispongono di un patrimonio di circa 75 miliardi di euro, pari a quello
di quasi 500mila famiglie operaie messe insieme. Poco
meno di 2mila italiani, appartenenti al club mondiale degli
ultraricchi, dispongono di un patrimonio complessivo superiore a 169
miliardi di euro e non è conteggiato il valore degli immobili. In altre parole lo 0,003 per cento della popolazione italiana possiede una ricchezza pari a quella detenuta dal 4,5 per cento.[4]
I
segni di un’Italia sempre più disuguale si ritrovano anche nella
distribuzione del reddito. Il 10 per cento più ricco della popolazione
intasca il 25,3 per cento del reddito disponibile, il 10 per cento più
povero solo il 2,1 per cento. In termini monetari ogni individuo del 10%
più ricco dispone di 77.189 euro all’anno. Quelli del 10% più povero si
fermano a 6.521 euro.[5] Un divario di quasi 12 a 1. Situazione peggiore di metà degli anni ottanta quando il rapporto era 8 a 1.
Il
sottoprodotto dell’ingiustizia è la miseria che il debito aggrava
tramite l’austerità, scelta classica di uno Stato totalmente asservito
alle banche. Al pari di una famiglia, quando uno Stato
senza sovranità monetaria si accorge di non avere abbastanza soldi per
pagare interessi e capitale, cerca di raggranellare il dovuto aumentando
le entrate e riducendo le spese. Due mosse che hanno ambedue
conseguenze gravissime perché se lo Stato smette di offrire servizi, le
famiglie debbono rivolgersi al mercato che nel frattempo si è
impossessato di servizi primari come l’acqua, i trasporti, la scuola, la
sanità. Con la differenza che prima erano gratuiti, mentre ora sono a
pagamento. Così le
famiglie italiane, già tartassate dal carico fiscale, sono sempre più
salassate dalle imprese private per il godimento di bisogni
fondamentali. Basti dire che in ambito sanitario la spesa privata è
salita, anno 2015, a 34,5 miliardi di euro, il 3,2 per cento in più
rispetto al 2013.
In totale gli italiani che si rivolgono alla sanità privata, spinti da
ticket sempre più alti e da liste di attesa sempre più lunghe, sono
oltre 10 milioni. Ma contemporaneamente sono
cresciuti anche quelli che rinunciano a qualsiasi tipo di cura perché
non hanno soldi né per pagare i ticket, né le parcelle. Nel 2016 gli italiani rinunciatari sono stati 11 milioniconfermando che lo spostamento dalla sanità pubblica alla sanità privata si accompagna alla sanità negata.[6]
Che il binomio più tasse, meno servizi, impoverisca gli italiani, lo dicono i numeri. La
forma più grave di povertà è quella di chi è in arretrato con le
bollette, di chi non riesce a scaldare adeguatamente la casa, di chi non
può permettersi un pasto appropriato almeno una volta ogni due giorni.
Le persone in questo grave stato di deprivazione materiale sono 7
milioni,11,6% della popolazione. Ma se allarghiamo lo
sguardo a chi vive in bilico a causa del suo stato di precarietà e di
incertezza, troviamo che le persone a rischio povertà, o esclusione sociale, sono 17 milioni e mezzo, il 28,7 per cento della popolazione italiana, il 3 per cento in più del 2004.[7] Persone
a cui basta un dente da riparare, una batteria di esami sanitari
imprevisti, una riparazione d’auto fuori programma, per mandarle
sott’acqua e costringerle ad arrangiarsi chiedendo un prestito o
rinunciando ad altre spese importanti.
L’assurdo della situazione è che ora
neanche i creditori sono più così sicuri di voler spingere lo Stato
debitore a pagare. La loro paura è di finire come quei bombaroli che non
avendo calcolato bene la lunghezza della miccia sono colpiti anche loro
dalla deflagrazione.
Fuori
di metafora, la paura è che a forza di estrarre ricchezza, il sistema
possa impoverirsi a tal punto da entrare in una spirale di crisi che
trascina tutti verso il fondo. Il
punto delicato è la domanda, perché viviamo in un sistema che si regge
sulle vendite. Solo se c’è un livello di domanda pari, o addirittura
superiore, alla capacità produttiva, tutto funziona regolarmente e
possono addirittura aprirsi prospettive di crescita come tutti
invocano. Se invece la domanda si contrae, le imprese entrano in crisi e
licenziano in una spirale sempre più ampia. Esattamente come succede
nelle economie ad alto debito pubblico, dove i cittadini hanno meno
soldi da spendere a causa dell’elevato livello di tassazione e lo Stato
stesso spende meno per risparmiare risorse da destinare agli interessi.
Tanto più che neanche
i ricchi aiutano. Benché con più soldi, in virtù degli interessi
intascati, la loro spesa non cresce. Non spendono in consumi perché
tutti i loro bisogni sono già stati soddisfatti e non spendono in
investimenti perché non sono così stupidi da avviare nuove attività
produttive quando non ci sono prospettive di vendita. L’unica strada che
imboccano è quella della finanza che si espande sempre di più.
Negli
ultimi dieci anni, complice la crisi bancaria, l’austerità e la
concentrazione della ricchezza, in Italia la domanda complessiva si è
ridotta ai minimi storici facendo salire la disoccupazione alle stelle.
Nel 2016 i disoccupati erano 3 milioni pari all’11,7 per cento della
forza lavoro. Ma il dato si riferisce solo a chi cerca attivamente
lavoro. Se
si includesse nel conteggio anche quelli che un lavoro salariato lo
vorrebbero, ma non lo cercano perché scoraggiati, il numero dei
disoccupati salirebbe a 5 milioni e mezzo, il 21,6 per cento della forza
lavoro.[8] Purtroppo
anche la pubblica amministrazione contribuisce al problema dal momento
che fra il 2013 e il 2016, ha perso 84mila unità.[9]
La
disoccupazione colpisce in maniera particolare i giovani fra 15 e 29
anni. Nel 2016 i giovani disoccupati sono 960mila pari al 44 per cento
della forza lavoro giovanile. In pratica ogni
10 giovani disposti a lavorare, 4 non lo trovano. Ed ecco la crescita
dei Neet, giovani stanchi e sfiduciati che né lavorano né studiano secondo la definizione inglese Not in education or in employment training. Nel 2016 i giovani nullafacenti fra i 15 e i 29 anni ammontano a più di 2 milioni, il 24 per cento del totale.[10]
Da
oltre trent’anni, ogni governo dichiara di porsi come priorità
l’abbattimento del debito, ma se ne va lasciandosi dietro un debito
ancora più alto. E non perché viviamo al di sopra delle nostre
possibilità, come qualcuno vorrebbe farci credere, ma perché non ce la
facciamo a tenere la corsa con gli interessi. L’esame dei bilanci
pubblici dimostra che siamo dei risparmiatori, non degli
scialacquatori. Ad
esempio nel 2016 abbiamo risparmiato 25 miliardi di euro perché a tanto
ammonta la differenza, in negativo, fra ciò che abbiamo versato allo
Stato e ciò che abbiamo ricevuto indietro sotto forma di servizi,
investimenti, previdenza sociale. Ciò nonostante nel 2016 il debito
pubblico è cresciuto di altri 40 miliardi perché il risparmio accumulato
non è stato sufficiente a coprire tutta la spesa per interessi.
Questa storia si ripete dal 1992 e ciò spiega perché da allora il
nostro debito è passato da 850 a 2270 miliardi di euro nonostante 768
miliardi di risparmi. È semplicemente successo che su una somma
complessiva di 2038 miliardi di interessi, 1270 sono stati pagati a
debito.[11]
Il
debito che si autoalimenta attraverso la via degli interessi è una
delle forme più odiose di sottomissione e strangolamento di un popolo. Ogni
anno avvolge attorno al suo collo un nuovo giro di catena per tenerlo
sempre più stretto e succhiargli sempre più sangue. Fuori di metafora è
un’organizzazione perfetta di latrocinio per travasare quote crescenti
di ricchezza dalle tasche di tutti a quelle dei ricchi. Ma ora è
arrivato il tempo di alzarci in piedi e rivendicare il diritto di
sottrarci a questo meccanismo perverso. Gli strumenti per farlo ci sono: vanno dal congelamento del pagamento degli interessi al ripudio del debito illegittimo;
dall’imposizione di un prestito forzoso a carico dei cittadini più
ricchi ad una tassazione progressiva di reddito e patrimonio;
dall’introduzione di una moneta complementare nazionale alla riforma
della Banca Centrale Europea, dal controllo della fuga di capitali alla
regolamentazione della speculazione sui titoli del debito pubblico. Il problema non sono gli strumenti, ma la volontà. Purtroppo
neanche i politici più progressisti hanno messo a fuoco la gravità
della situazione ed hanno posto al centro del proprio programma politico
la gestione alternativa del debito.
L’unica
forza che può indurre al cambiamento è la pressione popolare. Ma i
cittadini si attivano solo se si rendono conto dei danni provocati dal
debito pubblico. Di qui il ruolo cruciale dell’informazione. Ma chi la
darà? Non c’è da aspettarsi, né sarebbe auspicabile, che la dia chi ha
interesse a mantenere lo status quo, l’unica opzione possibile è che
questo compito venga assunto dalla società civile che lotta contro il
disagio sociale. Associazioni e cooperative, fondazioni e
sindacati, realtà laiche e religiose, tutti insieme dovremmo
organizzare una grande campagna di informazione pubblica finalizzata a
tre obiettivi: creare consapevolezza nei cittadini sui nessi esistenti
fra debito pubblico e disagio sociale; obbligare i media ad accendere i
riflettori sulle conseguenze sociali del debito, suscitare un grande
dibattito pubblico sulle soluzioni alternative al solo pagare.
La
storia ci insegna che i cambiamenti sono possibili, ma solo se si
infervorano gli animi. E gli animi si infervorano se scatta
l’indignazione che deriva dalla consapevolezza. Nessuno meglio di noi può assumersi il compito di fare sapere. Possiamo e dobbiamo farlo. Ma dobbiamo unire le nostre forze.
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