Come ha scritto Paul Heideman
, «l’impressione al tempo era che l’era della mercatizzazione assoluta
stessa volgendo alla fine, e che la crisi dei mercati avrebbe condotto
inevitabilmente al ritorno di una qualche forma di nuovo keynesismo».
Come sappiamo, è accaduto l’esatto
opposto. Non solo il regime neoliberale continua a godere di perfetta
salute in tutti i paesi avanzati (sì, qualche tabù è stato infranto – si
vedano le politiche di quantitative easing – ma solo nella misura
necessaria per garantire la sopravvivenza del sistema stesso); in Europa
la crisi è stata utilizzata dalle élite politico-finanziarie per
sferrare il più violento attacco mai visto, dal dopoguerra ad oggi, nei
confronti della democrazia, del mondo del lavoro e del welfare; e più in
generale, per ristrutturare le economie e le società europee in una
chiave ancor più radicalmente neoliberista di quella esistente. «Una
distruzione creatrice – ha scritto Alberto Burgio
– finalizzata alla sostituzione del modello sociale postbellico (il
capitalismo democratico incentrato sul welfare pubblico e sulla
riduzione delle sperequazioni in un’ottica inclusiva) con un modello
oligarchico (post-democratico) affidato alla “giustizia dei mercati
globali” e caratterizzato dal binomio povertà pubblica-ricchezza
privata».
Questo sta determinando un trasferimento
di ricchezza dal basso verso l’alto – una vera e propria guerra di
classe – senza precedenti, in quello che potrebbe essere definito un
esempio da manuale di “shock economy” (per mutuare il termine utilizzato
nella traduzione italiana del libro di Naomi Klein). La sinistra
europea – ciò che ne è rimasto – ha assistito perlopiù impotente a
questo processo di distruzione creatrice (anche se in Grecia rimane aperta una breccia , e ci sono segnali incoraggianti che arrivano anche da altri paesi).
Sono state avanzate molte analisi
per spiegare la “resilienza” del neoliberismo e l’incapacità della
sinistra di offrire una risposta alla crisi. Uno dei più grandi errori
strategici e teorici della sinistra è stato quello di credere
nell’esistenza di un nesso meccanico, causale tra crisi economica e
politicizzazione della società (quella che un tempo si sarebbe chiamata
coscienza di classe). La storia, semmai, dimostra che è vero il
contrario: le crisi solitamente generano risposte regressive ed
autoritarie, specialmente se i rapporti di forza tra lavoro e capitale
sono fortemente sbilanciati a favore di quest’ultimo (come lo sono
chiaramente oggi). Il cambiamento sociale è solitamente il risultato di
processi di distruzione (guerre) e/o di lotte sociali. In altre parole,
il capitalismo non possiede nessun meccanismo di autocorrezione o di
autoregolazione interno.
Grazie alla crisi greca – in cui neanche
il peggiore tracollo economico mai registrato da un paese sviluppato in
tempo di pace è stato sufficiente a radicalizzare i lavoratori e
cittadini greci al punto da determinare una rottura con l’eurozona –
questa scomoda verità comincia lentamente a farsi strada nella coscienza
della sinistra europea. Ma si sa com’è: morta un’illusione, se ne fa
un’altra. L’ultima in ordine di tempo è quella secondo cui le voci
sempre più numerose che in ambito mainstream chiedono una maggiore
espansione fiscale – di recente Larry Summers, l’architetto della
deregulation del sistema finanziario statunitense, ha reiterato sul Financial Times che le economie avanzate «hanno bisogno di aumentare il debito. per finanziare un’espansione fiscale» – dimostrerebbe che « è in corso un cambio in paradigma », come ha scritto di recente l’economista australiano Bill Mitchell.
È una conclusione che rivela una
filosofia della storia piuttosto precisa, in cui sono le idee, in ultima
istanza, a plasmare il corso degli eventi. Chi aderisca a questa
visione tende ad attribuire la ristrutturazione neoliberale della
società avvenuta dalla fine degli anni Settanta in poi alla crescente
influenza di una serie di teorie – etichettate di volta in volta col
termine “neoliberismo”, “teorie neoclassiche”, “neoconservatorismo”,
“consenso di Washington”, ecc. – sviluppate da un gruppo di accademici
formatisi presso l’università di Chicago. Se questa narrazione degli
eventi è corretta, ne consegue che per andare oltre il neoliberismo è
sufficiente che un numero sufficiente di membri dell’establishment venga
sedotto da una teoria alternativa (anche se magari non particolarmente
nuova). Tutto quello che la sinistra deve fare è continuare a ripetere
ossessivamente i suoi mantra (più spesa pubblica, salari più alti,
ecc.), esattamente così come fecero i membri della scuola di Chicago
negli anni Settanta e Ottanta.
Come scrive l’ex ministro del Lavoro
statunitense Robert Reich nel suo libro del 2007, Supercapitalismo, «il
fatto che gran parte di queste idee siano state elaborate in seno alle
università è un probabile indicatore del perché coloro che gli
attribuiscono le maggiori responsabilità per aver cambiato il volto del
pianeta negli ultimi trent’anni sono spesso anch’essi accademici che
coltivano una visione particolarmente generosa dell’impatto del mondo
accademico sulla società». Ma non è così che funziona il mondo, scrive
Reich.
È vero che i politici a volte prestano
attenzione ai consigli del mondo accademico. «Pazzi al potere, i quali
odono voci nell’aria», scrisse l’economista John Maynard Keynes,
«distillano le loro frenesie da qualche scribacchino accademico di pochi
anni addietro». Ma le teorie di cui si parla qui erano esistite più o
meno nella stessa forma dai tempi in cui le aveva profetizzate Adam
Smith nel diciottesimo secolo. Se hanno improvvisamente preso piede
negli ultimi decenni del ventesimo secolo, negli Stati Uniti e altrove, è
in buona parte perché offrivano una comoda giustificazione per dei
cambiamenti che erano già in atto. «Non furono esse a produrre il
cambiamento; semmai lo legittimarono», scrive Reich. In altre parole, il
neoliberismo prese piede innanzitutto perché sosteneva e promuoveva gli
interessi dell’establishment politico-economico del tempo, non perché
fosse una teoria economica più elegante delle altre. Con questo non si
vuole dire che le idee non siano importanti, ma che esse hanno bisogno
di un soggetto sociale che se ne faccia portavoce perché abbiano un
impatto.
Questo implica che perché
l’establishment adotti spontaneamente – ossia in assenza di spinte dal
basso o di minacce alla propria sopravvivenza – un “nuovo” paradigma
economico (di matrice keynesiana, per esempio), quest’ultimo deve in
qualche maniera servire gli interessi delle élite politico-economiche
dominanti. Altrimenti che motivo avrebbero di adottarlo? Dunque dobbiamo
domandarci: è oggi nell’interesse delle classi dominanti adottare una
politica fiscale più espansiva? Secondo alcuni, sì. L’argomentazione è
la seguente: le politiche neoliberiste (austerità fiscale, deflazione
salariale, tassazione regressiva, ecc.) hanno condannato le nazioni
avanzate ad una “stagnazione secolare” – una situazione caratterizzata
da crescita bassa o nulla, disoccupazione diffusa e livelli di domanda
cronicamente insufficienti – che finirà per incidere negativamente anche
sul tasso di profitto; è dunque nell’interesse del capitale stesso
stimolare la domanda aggregata attraverso un’espansione fiscale. Per
certi versi questo è vero, ma di cosa parliamo quando parliamo di
“capitale”? E qual è la forma di capitale dominante nel mondo di oggi?
Negli ultimi decenni siamo passati da un
capitalismo incentrato prevalentemente su processi di produzione e di
accumulazione reali (prima nella variante fordista-keynesiana a scala
nazionale, poi in quella neoliberista a scala globale) ad un capitalismo
predatorio oligarchico e iperfinanziarizzato, basato prevalentemente,
sia in termini quantitativi che qualitativi, sulla speculazione e sulla
rendita. Poiché il capitale finanziario ha ormai rescisso buona parte
dei suoi legami con “l’economia reale” – visto ormai solo come bacino da
cui estrarre ricchezza – è anche libero dalla necessità di stringere
compromessi con essa. Soprattutto se consideriamo che il capitale
finanziario è relativamente immune ai “problemi” sollevati dalla
stagnazione secolare, e anzi tende per alcuni versi addirittura a
beneficiarne, dal momento che la deflazione determina un trasferimento
di ricchezza dai debitori ai creditori. Alla luce, infine, della natura
sempre più oligarchica delle nostre società e dei nostri sistemi
politici – il New York Times riportava di recente
la notizia secondo cui 158 famiglie avrebbero coperto più della metà
dei contributi per le presidenziale statunitensi del 2016 – le chance di
una “autoriforma” del sistema dall’alto sono pressoché nulle.
Quando parliamo degli “interessi” del
capitale, poi, dobbiamo sempre tenere a mente quello che l’economista
polacco Michael Kalecky scrisse più di quarant’anni fa in merito
all’apparente irrazionalità delle scelte di politica economica:
In un regime di continuo pieno
impiego il licenziamento cesserebbe di agire come misura disciplinare.
La posizione sociale del “principale” sarebbe scossa, si accrescerebbe
la sicurezza di sé e la coscienza di classe dei lavoratori. Gli scioperi
per un salario più alto e il miglioramento delle condizioni di lavoro
sarebbero fonti di tensione politica. È vero che i profitti sarebbero
più elevati in un regime di pieno impiego, rispetto al loro livello
medio sotto il laissez faire. Ma la “disciplina nelle fabbriche” e la
“stabilità politica” sono più importanti per i capitalisti dei profitti
correnti. L’istinto di classe dice loro che una continua piena
occupazione non è “sana” dal loro punto di vista perché la
disoccupazione è un elemento integrale di un sistema capitalistico
normale.
Esiste poi un’altra variante
dell’argomentazione secondo cui la stagnazione secolare costringerà il
sistema ad autoriformarsi: quella secondo cui un’altra crisi economica e
finanziaria è da considerarsi quasi inevitabile – e su questo sono
d’accordo -, e questo decreterà la morte definitiva del neoliberismo e
l’avvento di un rinnovato keynesismo. Per i motivi succitati, questo mi
pare alquanto improbabile. Due mi sembrano gli esiti più probabili in
caso di una nuova crisi: a) una serie flessione economica che non arriva
però a minacciare la stabilità del sistema, nel qual caso, in assenza
di una mobilitazione di massa, assisteremo ad una risposta simile a
quella a cui abbiamo assistito in seguito al 2008 (interventi keynesiani
“di emergenza” per tamponare le perdite seguiti da un ritorno allo
status quo antecedente); b) un’implosione del sistema, nel qual caso le
conseguenze sono imponderabili, ma è lecito ritenere che assisteremo ad
un processo di distruzione creativa ben più estremo di quello visto
finora prima che emerga un nuovo status quo.
Non commettiamo lo stesso errore del
2008. Non illudiamoci che il sistemi si riformerà da sé. Qualunque
progresso sociale sarà unicamente il risultato della lotta e della
mobilitazione sociale (su spinta anche delle idee, vecchie o nuove che
siano). L’alternativa, come sempre, è una sola: la barbarie.
Nessun commento:
Posta un commento