giovedì 22 ottobre 2015

Riflessioni a sinistra: Giovanni Russo Spena "Essere comunisti oggi".

Siamo di fronte ad un tema possente. E noi siamo solo “nani sulle spalle dei giganti”.

 rifondazione.it Giovanni Russo Spena 

Propongo solo sei osservazioni.
1) Assumiamo come filo conduttore Brecht: siamo consapevoli che “la rivoluzione è la semplicità che è difficile a farsi”. Allora noi che ci diciamo comunisti siamo fuori dal mondo? Rispondiamo con Max Weber: “è perfettamente esatto (e confermato da tutta l’esperienza storica) che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile”.
Io penso che bisogna, innanzitutto, “ripartire da Marx”.
Marcello Musto ci ricorda giustamente Boris Nikolaevski: “su mille socialisti forse solo uno ha letto un’opera economica di Marx, su mille antimarxisti neppure uno ha letto Marx”.
Per paradosso, Marx è oggi ancora più attuale di ieri. Nella “critica dell’economia politica” (un cantiere inesauribile di teoria critica) è descritto il processo di rivoluzione del capitale, mai conservatore, ma sempre attore di rivoluzione restauratrice ed anarchica.
Marx ci richiama, dunque, ad una radicalità anticapitalista ineludibile per i comunisti contemporanei.
Nel libro primo del Capitale Marx spiega: “nella società capitalista si realizza una vera e propria personificazione delle cose e reificazione delle persone”. Introducendo i temi attualissimi della mercificazione e dell’alienazione.

2)Un partito comunista, allora, non è conservazione; è la narrazione e la pratica quotidiana di una quotidiana rifondazione permanente. Di fronte al compimento dell’assolutismo liberista in atto occorre recuperare un punto di vista, una visione del mondo, un gramsciano “spirito di scissione”.
Di fronte all’assolutismo liberista (del governo Renzi/Squinzi /Marchionne) non possiamo balbettare emendamenti o inesistenti “liberismi temperati” ma concepire “la creazione dell’attività sociale come trasformazione radicale della sfera della produzione”. Non il valore di scambio, ma i valori d’uso: la ricchezza delle relazioni sociali liberata dallo sfruttamento e dall’alienazione. L’identità comunista non è, quindi, proiezione e consolidamento di una presunta “ortodossia”, ma movimento per l’abolizione dello stato presente delle cose e dei rapporti sociali.
3) Come scrive autorevolmente Luciano Gallino, la lotta di classe la fa, oggi, “dall’alto”, il padrone.
Le sinistre sono ridotte ad un ruolo marginale; troppo spesso solo istituzionale, peraltro gracilissimo. In Italia, come in Europa, il tema forse più aspro è il rapporto tra rappresentanza, conflitto, governo. Errori ed opportunismi di parte dei gruppi dirigenti delle sinistre alternative vi sono certo stati; ma a me interessa accennare ad un tema che mi pare fondamentale, di sistema politico. La crisi della rappresentanza è, ormai, crisi della democrazia costituzionale.
Il regime postdemocratico segna la massima disconnessione tra capitale e democrazia. Il capitale non “sopporta” più le stesse regole democratiche “liberali”. Viviamo un permanente “stato di eccezione”. Si delinea una incompatibilità tra capitale e vita. Un feroce rapporto biopolitico. Il debito, prima privato, poi pubblico, costruisce la società dell’uomo “indebitato”(e, quindi, atomizzato, frantumato, frastornato, ricattato).
Le strutture intermedie della statualità e della società sono sotto feroce attacco, violentate dalla verticalizzazione del comando gerarchico e dei populismi (il più pericoloso è quello del presidente del consiglio).
Il centrosinistra strutturalmente non esiste più (se ne dovranno convincere gli orfani inconsolabili). E’ evidente lo sfibramento estremo della politica, la fine del partito di massa della prima Repubblica. E’ mutato, infatti, profondamente il contesto: le lotte organizzate incidevano direttamente sulle istituzioni e le forgiavano anche. Gli scioperi generali facevano cadere i governi. Le lotte fondavano la splendida pervasività della democrazia progressiva, che fu anche una straordinaria pedagogia di massa. Non vigeva l’autonomia della Banca Centrale, il capitale era prevalentemente nazionale.
Non era stato ancora introdotto il pareggio di bilancio in Costituzione. E’ mutata profondamente la composizione, anche tecnica, del capitale. E’ pervasiva e diffusa, oggi, la contraddizione tra capitale e vita: una sorta di dominio biopolitico, per l’appunto. Non dimentichiamo (è di estrema rilevanza) che è stato abbattuto il sistema proporzionale, in nome della “democrazia maggioritaria governante”. Si è allargata a dismisura la frattura tra una sterminata e crescente “classe in sé “atomizzata, immiserita (che, con la precarizzazione diffusa, subisce una vera e propria mutazione antropologica di un’intera generazione che vive il presente come unica dimensione, senza memoria del passato né progetto per il futuro) e l’assenza della corrispondente “classe per sè”, cioè del soggetto rivoluzionario.
Oggi non vi è quasi più la divisione sulla collocazione politica; il conflitto sui valori è in dissolvenza. L’unica ideologia affermata con forza è quella dell’impresa capitalistica. E’ qui la bancarotta delle socialdemocrazie. E’ il processo che Gallino chiama di “cattura cognitiva”, protesi politica ed ideologica dell’assolutismo neoliberale.
La tecnologia informatica spesso riduce gli spazi collettivi. Riduce l’identità stessa delle classi sociali.Tutto è assorbito dalla contraddizione presentata come unica, tra “alto” e “basso”, “casta” e popolo, tra indigeni e migranti. Io penso che la sinistra alternativa nasca solo da questo nuovo livello del conflitto ,la centralità strutturale della questione migrante per la nuova idea di società. Non solo ideologicamente, ma politicamente, socialmente organizzando lotte, vertenze comuni con i migranti.
Contro la retorica populista, occorre ritessere la tela che Sennet chiama “componente rituale per la formazione di pezzi di classi sociali”, quella che Vangelisti illustra nel suo splendido romanzo storico proletario (“il sol dell’avvenire”). Parlo di conflitti, linguaggi, “mutualismi”, pratiche autogestive intorno alle quali formare nuovi sistemi di relazioni sociali, coalizioni sociali contro la frammentazione.
Gramsci parlò di “fare società”.
La sinistra alternativa è, insomma, necessariamente “partito sociale”, anche per contrastare le vandee xenofobe.
4) Non credo alla litania della “democrazia senza partiti”. Il movimento operaio, proletario ha bisogno di organizzazione, di soggettività antagonista.
Il nostro problema è, piuttosto, ripensare criteri e moduli organizzativi. Profondamente. Continuo a credere all’insegnamento della Comune di Parigi, al partito di “funzioni” e non di cariche, ai limiti di mandato, revocabili, alla rotazione di cariche elettive alla democrazia orizzontale e non verticale.
Paradossalmente (ma non tanto…) dovremo ripensare seriamente e creativamente alla Prima Internazionale, agli spazi pubblici, al “comune”, al rapporto tra conflitto, rivolta, soggettività.
Il partito non svolge una funzione totalizzante; vive, invece, nella formazione plurale di culture ed attività (anche tra loro molto differenti).
La molteplicità, per Marx, è l’eterna produzione di differenze. E il comunismo vive nell’autogoverno della cooperazione produttiva. Qui deve anche iniziare, a mio avviso, il percorso del processo costituente della sinistra alternativa. Penso ad una trasformazione radicale, perché dobbiamo costruire soggettività in una fase di crisi organica della società ,in cui prevalgono gramsciani processi di “rivoluzione passiva”.
Dobbiamo ricostruire l’”individuo sociale”. Non può, questo percorso, che essere frutto di un vero e proprio “patto politico”, dall’alto e dal basso, tra le tante, diffuse (ma segmentate) soggettività che sfidano, tra mille difficoltà (ed errori anche soggettivi) il terreno aspro del conflitto anticapitalista, oggi. Nessuno può essere solo uguale a se stesso. Penso, insomma, ad una “confederalità dal basso”, trasformando i circoli comunisti in sedi in cui si sperimentano le nuove case del popolo, camere territoriali del lavoro, sportelli per migranti, per la risocializzazione dei detenuti. Oggi un partito comunista è, insomma, a mio modesto avviso, anche una confederazione politica dei conflitti. (No Tav, No Triv, ecc.), una ricerca permanente, quotidiana, del rapporto tra condizione materiale, conflitto, coscienza.
Non possiamo, infatti, illuderci: l’impoverimento di massa non produce, automaticamente, spostamento a sinistra.
Un’esperienza fondamentale è la “sinistra europea”, di cui, io penso, dobbiamo, sempre più organicamente, diventare una “sezione”. Con una alternatività assoluta al PD e al Partito Socialista Europeo. Non esistono ambiguità o “terre di mezzo”. O stai di qua o di là (la socialdemocrazia sta rivotando i “crediti di guerra”, come nella Prima Guerra mondiale).Cosa altro è il comportamento delle socialdemocrazie europee nei confronti (e contro)il governo greco? Il PD e le socialdemocrazie europee sono avversari di classe. Il laboratorio della Sinistra Europea è progetto e pratiche di cosmopolitismo transnazionale, di meticciato, di “ius soli”.
Al suo interno comuniste e comunisti porteranno il proprio punto di vista della “rivoluzione” come punto più alto della politica (marxianamente).
5) Il compagno Favilli, importante intellettuale marxista, adotta, con acuta provocazione, la categoria di “comunismo fuori del comunismo”, sia per indicare i limiti della nostra modesta rappresentatività, sia per segnalare il rifiuto stesso di rappresentatività di gran parte dei movimenti conflittuali, soprattutto metropolitani.
Il “comunismo diffuso”, scrive, “non è affatto antitetico alla forma politica della “rifondazione comunista”. Se essa sa vivere nei conflitti senza pretese egemonistiche. Vivremo una fase complessa di conflitti “spuri”, di movimenti “carsici”, di rivolte(non credo di grandi movimenti di massa organizzati).Il filo rosso che ci guida è la capacità di mettere in connessione le differenti forme di istanze sociali, altrimenti mute o non comunicanti. Mi irrita particolarmente la litania, diffusa anche intorno a noi, “la sinistra deve ripartire da zero”. E’ una trappola molto sofisticata perché vuole cancellare la storia stessa del movimento operaio e comunista. Ma appunto per reagire a questa infamia dobbiamo saper ripensare criticamente alla storia comunista. La capacità critica serve proprio ad evitare la “damnatio memoriae” la rimozione,il “disperazionismo”, come diceva Franco Fortini. Uno dei nostri paradigmi rifondativi è: “fuori dallo stalinismo per il comunismo”.
Non articolo l’analisi e il giudizio storico sullo stalinismo perché, tra i materiali dei Corsi di Formazione, vi è già una splendida dispensa di Dino Greco. Mi basti qui ricordare che la vicenda tormentata e il vissuto del Prc sono una testimonianza sofferta della difficoltà a fare i conti con il fallimento dei tentativi novecenteschi dell’uscita dal capitalismo. Non possiamo permettere che il “morto trascini il vivo” negli inferi.
Lo stalinismo è stato un disastro per il comunismo. Non possiamo essere succubi di uno storicismo che tutto giustifica. La nostra identità, infatti, sta proprio nella profonda qualità della “rifondazione”. La nostra scelta della “rifondazione”, di essere figlie e figli della Rivoluzione d’Ottobre che hanno rotto con lo stalinismo è il nostro pradigma fondativo, che ci permette di partecipare, a pieno titolo, alle esperienze anticapitaliste a livello europeo e mondiale.
Penso, soprattutto, all’America Latina, al complicato rapporto tra marxismo ed “indigenismo”, alla costruzione dei “fronti popolari”.
Lo stalinismo non può essere rimosso. Perché non è stato solo una parentesi, ma una cultura forte, pervasiva, diffusa, con al centro il ruolo totalizzante del partito, con la conquista del potere politico come dimensione sovraordinatrice, separata dalla trasformazione della società e dei rapporti di classe.
Lo stalinismo non va da noi comunisti criticato nell’ottica della democrazia liberale, ma “da sinistra”, in quanto esso è stato “deficit di comunismo”.
6) Ma perchè, infine, possiamo sempre più dirci comunisti?
Attingo all’apologo del “sarto di Ulm”.
Narra Lucio Magri, nel suo importante libro, che, in una delle affollate assemblee che dovevano decidere,nel1989,sulla proposta di Occhetto di cancellare l’aggettivo “comunista”, perché esso era divenuto spregevole, un compagno rivolse ad Ingrao, che al cambiamento del nome era contrario, la domanda: “perché chiamarsi ancora comunista dopo il crollo dell’Unione Sovietica”? Ingrao rispose con il famoso apologo di Brecht, “il sarto di Ulm”, quell’artigiano tedesco fissato nell’idea di apprestare un apparecchio che permettesse all’uomo di volare. E un giorno, convintosi di esservi riuscito, si presentò al vescovo e gli disse: eccolo, posso volare. Il vescovo lo condusse alla finestra dell’alto palazzo e lo sfidò a dimostrarlo. Il sarto si lanciò e, ovviamente, si spiaccicò sul selciato. Tuttavia, commenta Brecht, alcuni secoli dopo gli uomini riusciranno effettivamente a volare.
Che cosa voleva dire? Parlava di tempi e contesti. Voleva dire che se la storia reale della modernità capitalista non è stata né breve né lineare, ma drammatica, violenta(tanto da indurre a ritenere reale l’alternativa tra “socialismo o barbarie”), perché mai il percorso, la soggettività messa in campo per il suo superamento dovrebbe essere semplice, lineare?
Il vero problema è che la messa a tema dell’attualità dell’anticapitalismo, della rivoluzione è stata rimossa dalle sinistre. Noi non possiamo abbandonare un patrimonio teorico imponente e un movimento di centinaia di milioni di vite, speranze, lotte, vittorie, sconfitte (sconfitti, ma mai vinti) alla “critica roditrice dei topi” (efficace espressione di Marx).
Ripartendo dai processi contemporanei di accumulazione e valorizzazione del capitale, si riapre la discussione sul “comunismo possibile”. “La storia non è finita”; altro che “magnifiche sorti e progressive”. Siamo allo schiavismo legalizzato. Il capitale “fugge dalla democrazia”, come scrive Dahl. I processi di accumulazione del capitale, dentro la sua crisi, sono incompatibili anche solo con lo “stato sociale”. Il potere diventa sempre più pervasivo e biopolitico, con un dominio sulla vita stessa delle persone. In questo terreno aspro, difficile, feroce scava la “vecchia talpa”. Rimette a tema l’”attualità” del comunismo (non come apparato dottrinario) ma metafora della irriducibilità all’esistente, movimento reale di trasformazione rivoluzionaria. La rivoluzione “contro il capitale”. Insieme, anche a chi (e sono tanti) nel mondo lotta per abbattere il capitalismo pur non nominandosi comunisti. Penso ai fronti latinoamericani, al loro “socialismo del ventunesimo secolo”. Insomma, ricordando Carlo Giuliani, diciamo con convinzione “un altro mondo è possibile”. E necessario.

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