sabato 3 novembre 2012

Chomsky: i nostri padroni temono libertà e democrazia

Noam Chomsky
«Tutto per noi stessi e nulla per le altre persone»: in ogni età del mondo, sembra sia stata proprio questa «la ignobile massima dei padroni del genere umano». Così la pensava Adam Smith, «un conservatore vecchia maniera, con principi morali», pensando al suo paese, l’Inghilterra, che allora era padrona del pianeta: sono i produttori di merci e i mercanti, diceva Smith, a plasmare la politica secondo i loro interessi, «per quanto sia doloroso l’impatto sugli altri, compreso il popolo inglese» o magari quello indiano, vittima di una «ingiustizia selvaggia» da parte degli europei. E’ la legge del più forte: quella che ancora oggi, secondo Noam Chomsky, guida la supremazia dell’Occidente. Una leadership declinante ma spietata, che – nel resto del mondo – teme una cosa su tutte, la democrazia: guai se i “sudditi” si ribellano alle dittature filo-occidentali, reclamando diritti.
Erede dell’impero inglese, la superpotenza americana ha sperimentato nel 1945 una dimensione globale di dominio e di ricchezza senza precedenti nella storia. Nella conferenza “Chi possiede il mondo?”, tenutasi il 27 settembre ad Amherst in Massachusetts, Chomsky rivela che i pianificatori di Roosevelt si incontravano durante la SecondaGuerra Mondiale per disegnare il mondo del dopoguerra: «Volevano assicurarsi che gli Stati Uniti avrebbero controllato quella che chiamavano una “grande area” che avrebbe incluso sistematicamente l’intero emisfero occidentale, tutto l’Estremo Oriente, l’ex Impero britannico di cui gli Stati Uniti avrebbero preso il controllo, e il più possibile dell’Eurasia – cosa di importanza cruciale – i suoi centri di commercio e di industria in Europaoccidentale». In quest’area, gli Usa avrebbero mantenuto un potereindiscutibile con una supremazia militare ed economica, «assicurando nello stesso tempo la limitazione di qualunque esercizio di sovranità da parte di Stati che potessero interferire con questi disegni globali».

Durante la guerra, gli Stati Uniti avevano guadagnato moltissimo: la produzione industriale era quasi quadruplicata e i competitori erano stati rovinati o seriamente indeboliti. Occasione d’oro per dominare il mondo: «In effetti, le politiche che erano state delineate sono ancora valide». Quello che oggi chiamiamo “declino”, dice Chomsky, è solo la diminuzione della capacità di attuarle, quelle strategie imperiali. Anche perché «il potere si sta spostando verso la Cina e l’India, che sono le due potenze in ascesa e che saranno gli Stati egemonici del futuro», benché attualmente ancora molto poveri: nell’indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite, la Cina è solo novantesima e l’India al 120esimo posto. «La Cina è un grande centro manifatturiero, ma in realtà è soprattutto un impianto di assemblaggio». I cinesi assemblano parti e componenti realizzare in paesi tecnologicamente più avanzati: Giappone, Taiwan, Corea del Sud, Singapore, Stati Uniti, Europa. Pechino salirà nella scala della tecnologia, ma ci vorrà tempo. E gli Stati Uniti faranno di tutto per rallentare la sua corsa: ancora oggi, è Il dittatore indonesiano Suhartogeneralmente chiamata “la perdita della Cina” l’indipendenza politica raggiunta dalla Cina di Mao nel 1949.
«Era la perdita di un enorme pezzo della vasta area asiatica – dice Chomsky – ed è diventata un problema fondamentale nella politica americana», che dal 1950 prova a recuperare terreno per l’egemonia nel Sud-Est asiatico, dando il via alle «peggiori atrocità» a partire dall’Indonesia, la nazione più ricca, massacrata nel 1965 dal golpe di Suharto. Per il “New York Times” fu «una sconvolgente strage di massa» a trasformare il paese in una colonia. «L’euforia in occidente era così enorme, che non si poteva contenere», osserva Chomsky. Che ricorda che James Reston, il principale intellettuale liberale del “Times”, salutò quel genocidio come «un barlume di luce in Asia». Anni dopo, lo stratega McGeorge Bundy, consigliere per la sicurezza nazionale di Kennedy e Johnson, suggerì di porre fine alla guerra in Vietnam, che «contrariamente a tante illusioni», è stata combattuta per evitare che il Vietnam indipendente potesse diventare un “virus” pericoloso, un modello di autonomia per tutta la regione. E’ la stessa mentalità esibita da Kissinger in Cile, nel progettare il golpe di Pinochet contro Allende: impedire la diffusione del contagio della libertà.
Il modello-Indonesia funzionò: i massacri bastarono a dissuadere le popolazioni dei paesi limitrofi, messe al guinzaglio da analoghi regimi. «Gli Stati Uniti hanno avuto dittature in ogni nazione di quella zona: Marcos nelle Filippine, una dittatura in Thailandia, Park Chun nella Corea meridionale. Non c’erano problemi per l’infezione». Il declino però continua, e negli ultimi dieci anni gli Usa hanno perso il controllo egemonico dell’America Latina: i nuovi governi – Brasile e Argentina, Ecuador e Bolivia, fino al Venezuela di Chávez – hanno liquidato le vecchie élite parassitarie foraggiate da Washington e sfrattato persino le basi militari statunitensi. Poi è arrivata la “primavera araba”, la rivolta popolare nel forziere petrolifero del pianeta, cioè «uno dei maggiori tesori materiali nella storia del mondo», secondo il Dipartimento di Stato. Giovani in rivolta contro i regimi filo-occidentali: ma «la minaccia è stata contenuta». Nelle “dittature del petrolio”, «le più importanti per l’Occidente», ogni tentativo di unirsi alla Hugo Chávez“primavera araba” è stato stroncato con la forza,dall’Arabia Saudita al Bahrein: «Siamo riusciti ad assicurare che la minaccia di democrazia venisse schiacciata, nei luoghi più importanti».
Un caso a parte l’Egitto, piccolo produttore di petrolio ma fondamentale come nazione nella geopolitica araba. Al Cairo, secondo Chomsky, gli Usahanno seguito una “procedura operativa standard”, quella che scatta «quando uno dei vostri dittatori preferiti si mette nei guai». Ovvero: «Prima lo si appoggia il più a lungo possibile, ma se diventa davvero impossibile – per esempio, se l’esercito si rivolta contro di lui – allora gli si dà il benservito e si fa in modo che la classe degli intellettuali rilasci risonanti dichiarazioni sul proprio amore per la democrazia, e poi si cerca di restaurare il vecchio sistema il più possibile». Procedura standard, appunto: «Ci sono una serie di casi di questa strategia: Somoza in Nicaragua, Duvalier ad Haiti, Marcos nelle Filippine, Chun nella Corea del Sud, Mobutu in Congo. Ci vuole del genio per non accorgersi di tutto ciò. Ed è esattamente ciò che si è fatto in Egitto, e ciò che ha cercato di fare la Francia in Tunisia non proprio con lo stesso  successo». Insomma: se il futuro resta incerto, perlomeno «la minaccia della democrazia finora è stata contenuta».
Sulla Terra, naturalmente, incombono altri pericoli: quello climatico e quello nucleare. Sul clima, la campagna elettorale americana è sconfortante: i repubblicani negano l’esistenza del problema, mentre Obama si limita ad ammetterlo ma senza muovere un dito. L’allarme scientifico è fortissimo: si teme che l’Artico possa subire lo scioglimento dei ghiacci entro il 2020, anziché entro il 2050, ma Romney se la prende con gli scienziati – chiede di metter fine al finanziamento pubblico della ricerca – e sostiene la necessità di trivellazioni nella regione artica, in cerca di altro petrolio, per trarre vantaggio – letteralmente – da «tutte le risorse americane che Dio ci ha concesso». Mettersi contro Dio? Obama non ci pensa nemmeno, anche lui auspica l’accesso a nuove riserve e sogna «cento anni di indipendenza energetica». Per Chomsky, significa «accelerare la catastrofe». Un atteggiamento che «dimostra una straordinaria volontà di sacrificare la vita dei nostri figli e nipoti a favore di guadagni a breve termine». Obama? Neppure lui si chiede «come cosa sarà il mondo fra cent’anni». Fra lui e Obama e RomneyRomney, le uniche differenze riguardano «il livello di entusiasmo con cui i pecoroni dovranno marciare verso il precipizio».
Per non parlare, naturalmente, del rischio di una guerra nucleare: pericolo vicinissimo, ma sempre oscurato dai media. Obiettivo, l’Iran: a cui viene negato il diritto di arricchire l’uranio – diritto perfettamente garantito, invece, a tutte le altre nazioni che hanno firmato il trattato di non-proliferazione degli arsenali atomici. Secondo il generale Lee Butler, ex capo del Commando strategico degli Stati Uniti che controlla armamenti e strategia nucleare, è «estremamente pericoloso» che in Medio Oriente «una nazione debba avere armamenti nucleari, poiché potrebbe ispirare altre nazioni a fare lo stesso». Il generale Butler, chiarisce Chomsky, non si riferiva all’Iran, ma a Israele, cioè «il paese che è ai primi posti nei sondaggi europei come nazione più pericolosa del mondo». In Medio Oriente, a dichiarare di temere l’Iran sono le dittature, non le popolazioni. «Al contrario dell’Iran, Israele rifiuta assolutamente le ispezioni, rifiuta di aderire al Trattato di non-proliferazione, ha sistemi avanzati di lancio. Inoltre ha un lungo curriculum di violenza e repressione. Si è annessa e si è istallata in territori conquistati in modo illegale, in violazione degli ordini del Consiglio di Sicurezza Il generale George Lee Butlerdell’Onu, ha fatto molte azioni di aggressione – cinque volte soltanto contro il Libano».
Il professore considera «un miracolo» che finora sia stata evitata una guerra nucleare, quando India e Pakistan ci sono arrivati vicino molte volte, mentre anche negli anni ’80 – senza che imedia ne parlassero – le difese atomiche americane e russe sono state spesso sul punto di entrare in azione. Sono gli stessa media che hanno totalmente ignorato il vertice dei paesi non-allineati appena svoltosi a Teheran, e che si guardano bene dal dare risalto a certi sondaggi. L’ultimo, effettuato in Israele, rivela che la popolazione israeliana è favorevole alla creazione, in Medio Oriente, di una “zona libera”, senza più armi nucleari. C’è in programma una conferenza internazionale, ma Israele ha già annunciato che non parteciperà e che non considererà la questione fino a quando non ci sarà una pace generale nella regione. E Obama «prende la stessa posizione». Morale: «Gli Stati Uniti e Israele possono rimandareNikita Khrushevindefinitamente la pace nella regione. Lo hanno fatto per 35 anni per la situazione di Israele e Palestina», mentre ora le nubi si addensano sull’Iran.
Contro Teheran «c’è una guerra in corso, che include terrorismo, uccisione di scienziati nucleari: una guerra economica». Gli Usa, aggiunge Chomsky, stanno attuando apertamente una vasta guerra cibernetica contro l’Iran, e il Pentagono «la considera equivalente a un attacco armato», che fa il gioco dell’élite militare israeliana. «L’arsenale letale di Israele è enorme: comprende sottomarini all’avanguardia, forniti di recente dalla Germania». Sommergibili in grado di trasportare fino nel Golfo Persico i missili a testata nucleare: anche con queste armi, «Israele procederà nei suoi piani di bombardare l’Iran» o cercherà di «creare condizioni per le quali gli Stati Uniti lo faranno». Nel 1962, durante i 13 giorni più “lunghi” della storia dell’umanità – la drammatica “crisi dei missili” a Cuba, con Usa e Urss sull’orlo del conflitto atomico – fu il leader sovietico Khrushev, all’ultimo minuto, a trovare il coraggio di tirarsi indietro: «Ma il mondo – dice Chomsky – non può essere sicuro che questa ragionevolezza ci sia per sempre».

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