domenica 25 novembre 2012

Violenza sulle donne, è il momento di dire no. Intervista a Anna Maria Rivera

Il femminicidio, come drammaticamente ci riportano le cronache, è diventato nel nostro paese una vera emergenza sociale. In vista della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne del 25 novembre, ne parliamo con Annamaria Rivera, antropologa e attivista antirazzista, docente di Etnologia e Antropologia sociale nell’Università di Bari. “In tema di condizione femminile – spiega Rivera –, l’Italia presenta degli aspetti davvero peculiari e allarmanti, un caso emblematico di regressione della condizione e dei diritti delle donne. Leggendo i dati più recenti si deduce facilmente che il nostro paese sta vivendo un regresso vertiginoso sul piano dell’uguaglianza di genere e delle pari opportunità, e una simmetrica progressione quanto a violenza sessista e femminicidi in particolare”.
C’è quindi una relazione tra la regressione delle condizione femminile e l’aumento dei casi di violenza sulle donne?
All’interno del pensiero femminista italiano c’è la teoria secondo la quale il nostro sarebbe il tempo del post patriarcato e quindi del protagonismo delle donne, la stagione della loro quasi perfetta autonomia. Io non condivido questa analisi e mi sembra che se pensiamo all’Italia, ma anche ad altri paesi europei, la novità è che la narrazione della virilità dominante è diventata meno credibile. Eppure questa nuova condizione maschile appare più condizionata da un’immagine di intraprendenza anche sessuale delle donne che dalla realtà di un’autonomia effettiva alquanto debole, almeno in Italia, e destinata a indebolirsi ulteriormente per gli effetti della crisi economica e finanziaria e per quelli delle politiche di austerità messe in atto con l’illusione di fronteggiare la crisi. La crisi la stanno pagando le donne, le donne e i migranti, in termini di espulsione dal mercato del lavoro, di disoccupazione precarietà. Quale autonomia è possibile se mancano le basi materiali a questa autonomia?
Ancora i numeri ci consegnano un’immagine delle donne del 2012 molto diversa rispetto a quella di 20, 30 anni fa: oggi le donne studiano di più, si laureano meglio e prima dei loro colleghi maschi, raggiungono, seppur con grande fatica e mai paritariamente, posizioni elevate nei diversi ambiti professionali. Eppure sembra mancare loro quella forza che ha caratterizzato invece i movimenti femminili degli anni settanta.

Ammesso che si siano incrementate, la consapevolezza e l’autonomia delle donne restano infruttuose, perché incapaci di tradursi in azione politica collettiva, di agire pubblicamente, di esercitare egemonia di cambiare le mentalità, le leggi, le pratiche, le istituzioni. Anche rispetto a questo c’è un regresso nel nostro paese. Secondo il rapporto 2012 sul Gender Gap realizzato dal World Economic Found, l’Italia è piombata dal settantaquattresimo posto del 2011 all’ottantesimo nel 2012, dopo paesi come il Brunei, il Botswana,il Ghana. Senza contare che nel 2008 l’Italia occupava il sessantasettesimo posto. Questi dati ci dicono quanto grande sia stato il regresso della condizione femminile in Italia nell’ultimo decennio. Questo provoca effetti sul piano della violenza sessista, degli stupri e dei femminicidi. Tant’è vero che le statistiche ci dicono che le donne che vengono uccise nell’ambito delle relazioni di prossimità – partner, compagno, fidanzato, padre, cognato – avevano subito minacce e vessazioni, se non violenze, da lungo tempo, ma – anche a causa di una loro non autonomia materiale – non avevano saputo sottrarvisi. Ma l’elemento ancora più grave, se possibile, è che a questi fatti gravissimi le donne oggi non sono in grado di reagire collettivamente, di avere capacità politica, di intervenire .
Fino al 18 ottobre scorso in Italia si sono consumati 110 femminicidi, uno ogni due giorni. Un dato impressionante soprattutto se paragonato al 2011, quando erano stati in totale 100, e ancora più al 2007, quando erano stati 29. Cosa ha determinato questo aumento vertiginoso che appare in assoluto contrasto con l’evolversi della nostra società?
Il femminicidio è la cartina di tornasole di una società sessista: anzi, è la cartina di tornasole di una società che sta ridiventando oltre che sessista anche predemocratica, rigidamente classista e gerarchica. In questa società l’uomo può disporre a piacimento della donna, il ricco del povero, il forte del debole, e il bianco può incolpare lo straniero, l’altro, dei crimini più orrendi. Quando si verifica un caso di violenza o di omicidio di una donna, se è stato un bianco fatica o manca del tutto la reazione della collettività. Il fatto, per quanto grave, non suscita alcun allarme pubblico, né da parte delle istituzioni, né di tipo sociale, a meno che si possa incolpare di queste vicende uno straniero e costruire su questa ipotesi campagne di tipo xenofobico, come nel caso dell’omicidio Reggiani, del cosiddetto stupro Caffarella, ma anche nell’omicidio di Perugia, dove alla fine l’unico a pagare è stato Rudy Guede, lo straniero, quello di colore.
C’è una relazione tra il fenomeno della violenza sessista e la cultura, la tradizione di alcune aree del paese, e con lo stesso patriarcato?
La violenza sessista è un fenomeno complesso che nasce dall’intreccio di molteplici fattori. Il dato di base è come ancora oggi in Italia, così come in numerosi altri paesi anche europei, le donne dispongano di un’autonomia economica nulla o insufficiente che le rende dipendenti, legate, succubi. È fenomeno sociale nella misura in cui la stessa cultura maggioritaria sociale è impregnata di un’ideologia e di comportamenti di tipo patriarcale, è fenomeno culturale perché ha a che fare con mentalità, ideologie, con la comunicazione.
Che ruolo hanno giocato e giocano tuttora i media nella diffusione di determinati modelli femminili o anche sociali?
Nei miei studi, e in particolare nel libro edito da Ediesse “La bella, la bestia e l’umano”, ho analizzato questo fenomeno della donna tangente, della riduzione delle donne in carne e ossa a pura merce. Questo fenomeno, che in Italia come altrove c’è da un numero rilevante di anni, nel nostro paese è stato amplificato e diffuso dal berlusconismo. Ma temo che non si sia esaurito con esso. La tendenza a consumare, a mercificare il corpo femminile nella comunicazione e nella pubblicità è ancora in piedi e i ricatti, anche sessuali, di cui sono vittime le donne sui luoghi di lavoro e nelle case sono destinati ad acuirsi a causa della condizione di difficoltà generalizzata che stanno provocando le politiche di austerità. Senza dimenticare che nel nostro paese agiscono retaggi culturali. L’Italia è fortemente arretrata per quanto riguarda la considerazione del ruolo delle donne. Il rapporto della relatrice speciale delle Nazioni unite parla di intreccio tra basso tasso di occupazione femminile, basso reddito e violenza. Perché l’uguaglianza di genere, per legge e di fatto, è elemento chiave per contrastare la violenza sulle donne in ogni sua forma.
C’è una relazione tra senso di possesso, di proprietà, e i femminicidi?
C’è l’elemento del possesso, ma a scatenare la violenza c’è ancor di più la mancata accettazione della ribellione da parte della donna a quel possesso. Nei femminicidi, la donna viene considerata proprietà nel senso pieno della parola, anima e corpo, e quando si sottrae a questo status di oggetto, di proprietà, l’uomo se ne sconvolge e quindi scatta la rabbia e la violenza. Secondo me c’è un parallelismo molto forte e chiaro con il razzismo. Sessismo e razzismo sono due forme estremamente simili di dominio. Come dimostra la vicenda di Castel Volturno: lì c’era un gruppo di migranti che aveva piegato la testa, si era assoggettato a essere trattato come braccia da lavoro, corpi senza anima. Fino a quel momento non c’era razzismo contro di loro. Quando però i migranti si sono ribellati, quando è scattata la rivolta e le persone si sono rivelate come corpi interi, dotati di anima e della capacità di reagire e contrapporsi, è allora che è scattato il razzismo e la caccia all’uomo. Così come succede con le donne.
Come contrastare questa cultura e la relativa violenza sessista?
Per affrontare e contrastare fenomeni di questo tipo c’è bisogno che siano i soggetti a prendere coscienza e a mettersi in gioco e a costruire una soggettività collettiva. Oggi mi sembra che il movimento femminista, che negli anni settanta era riuscito a strappare una serie di conquiste eccezionali, che fecero compiere all’Italia e alle donne un salto straordinario, sia debole, in difficoltà, stenti a coinvolgere ampi strati di popolazione, condizione che era invece quella del passato. Negli anni settanta il femminismo era un vero movimento di massa, che riuscì a coinvolgere gli strati più diversi della società, c’erano le operaie che rivendicavano la parità, ma c’erano anche le casalinghe che chiedevano l’aborto e la contraccezione, e c’erano le intellettuali, le giornaliste, le studiose. Oggi il movimento è maggiormente elitario, ristretto solo a determinate categorie più attive e sensibilizzate. Manca la forza, la spinta della massa. Penso però che intrecciandosi, in Italia come altrove, con i movimenti contro l’austerità, contro questo liberismo che sta facendo macelleria sociale dei giovani, degli anziani, degli immigrati – movimenti che esprimono un livello di mobilitazione elevato – il movimento delle donne possa trovare nuova linfa e nuova forza. Ancora una volta la soluzione sta nei processi di soggettivazione di massa delle donne.

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