I fatti e le immagini dello scorso 14 novembre ripropongono con forza la questione della responsabilità delle forze dell'ordine. Nasce così una campagna per chiedere l'introduzione dei numeri identificativi su caschi e divise degli agenti, come è tra l'altro in molti altri Paesi europei. Tante le adesioni.
di Giacomo Russo Spena e Giuseppe Montalbano
Le adesioni alla petizione "Numeri identificativi per la polizia in antisommossa" fioccano di ora in ora. Anche di nomi noti come Margherita Hack, Stefano Rodotà, Dario Fo e Ascanio Celestini. Nei prossimi giorni molti altri si aggiungeranno alla lista perché è “una questione di civiltà”.
Per Dario Fo l’introduzione dei numeri identificativi per le forze dell’ordine dovrebbe essere una “misura di semplice buon senso, in diversi Paesi europei è già stata introdotta”. Ricorda come già in Italia vi sono uffici pubblici in cui i dipendenti devono poter essere riconoscibili dalla cittadinanza: “Rendere identificabile l’agente in tenuta antisommossa significa metterlo allo stesso livello del comune cittadino. Perché ai manifestanti viene proibito di coprirsi il volto e poi si lascia che le forze dell’ordine siano irriconoscibili? Tanto più che il poliziotto deve garantire il rispetto della legge e non può in alcun modo pensare di restare impunito se commette un abuso”.
Il 14 novembre scorso ha ricordato a Margherita Hack la “violenza inutile e gratuita” delle forze dell’ordine al G8 di Genova. “La divisa addosso – secondo l’autorevole astrofisica – dà un senso di potere e sono convinta che il numero identificativo possa essere un deterrente per fermare gli abusi: i poliziotti così saranno più prudenti e responsabili per paura delle conseguenze. E’ un modo per tutelare gli stessi agenti, estirpando le mele marce ed evitando generalizzazioni”. Sul 14 novembre, giornata a Roma di scontri sul Lungotevere tra polizia e manifestanti, la senatrice vede responsabilità anche sul fronte degli studenti, “non solo soltanto vittime, tra loro ci sono dei violenti che cercano la rissa e lo scontro”. Ma tale considerazione non giustifica, per lei, gli abusi degli agenti: “La polizia – dichiara – ha il compito di fermare la persona, immobilizzarla e consegnarla alla giustizia, non di pestarla di botte. Come punizione”.
Ma, a parte questo, risulta chiaro quanto vi sia un problema di gestione dell’ordine pubblico: “Non pretendo di dare lezioni, ma le cariche frontali, gli inseguimenti sul Lungotevere a Roma e le immagini diffuse sui media non denotano una gestione della manifestazione in cui l’isolamento dei pochi violenti serva a garantire l’incolumità di tutto il resto del corteo”. L’introduzione delle matricole identificative è quindi “ragionevole e opportuna per garantire la giusta trasparenza e per responsabilizzare gli stessi agenti”.
Chi non vuol sentir parlare di equiparazione tra manifestanti e polizia è l’attore Ascanio Celestini che nota come da un lato la società spinge verso piattaforme globali dove siamo tutti schedati (“la Rete prende sembianze a volte di questura on-line, i nostri dati sensibili sono facilmente trovabili”) e dall'altro proprio i tutori dell’ordine sono dietro il più assoluto anonimato. E’ impensabile, per lui, non sapere in una manifestazione chi abusa del proprio potere: “Ci vuole la responsabilità personale. Lo stress dell’agente o l’ignoranza o i comandi ricevuti dall’alto non possono giustificare le mattanze di piazza”. Celestini replica anche ad ogni logica di equiparazione tra manifestanti e polizia: “Assurdo ipotizzare daspi, tessere o caschi con numeri identificativi per i manifestanti; un cittadino non deve girare col nome scritto in volto. Se delinque, sarà raggiunto e perseguito. Quelli che invece non si possono individuare ad oggi sono gli agenti”.
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