Un film che riporta l’attenzione sulle barbarie commesse dalla polizia
tra il 21 e 22 luglio 2001, un “colpo allo stomaco” che trascura però le
responsabilità politiche di quanto avvenuto. Lorenzo Guadagnucci,
giornalista e una delle vittime delle giornate cilene – nel film è il
personaggio interpretato da Elio Germano – ci dice la sua sulla
pellicola del regista Vicari che tanto sta facendo discutere.
di Lorenzo Guadagnucci, Comitato Verità e Giustizia per Genova
Ho
visto il film “Diaz” e mi è venuta in mente “Morte accidentale di un
anarchico”, la pièce teatrale di Dario Fo sull’omicidio di Pino Pinelli.
In un passaggio memorabile, verso la fine del testo, i personaggi
discutono degli effetti che potrebbe avere sulla polizia lo scandalo
dovuto alla scoperta che dietro le bombe esplose in varie città d'Italia
si celano malefatte dello stato e depistaggi. Uno dei personaggi, la
Giornalista, dice testualmente: “Io credo che uno scandalo del genere
servirebbe a dar prestigio alla polizia. Il cittadino avrebbe la
sensazione di vivere in uno stato migliore, con una giustizia un po’
meno ingiusta”. E poi un altro personaggio, il Matto: “Al cittadino
medio non interessa che le porcherie scompaiano. No, a lui basta che
vengano denunciate, scoppi lo scandalo e che se ne possa parlare... Per
lui quella è la vera libertà e il migliore dei mondi, alleluia!”. E
ancora la Giornalista: “Lo scandalo, anche quando non c’è, bisognerebbe
inventarlo, perché è un mezzo straordinario per mantenere il potere e
scaricare le coscienze degli oppressi”.
Ho pensato a questo
passaggio perché “Diaz” colloca il suo racconto nell’arco di poche ore,
fra il 21 e il 22 luglio 2001, e gioca tutte le sue carte, sul piano
emotivo e della comunicazione, sul brutale pestaggio alla scuola Diaz,
concedendo una coda per seguire uno dei personaggi nella caserma-carcere
di Bolzaneto, luogo di maltrattamenti e torture, ma non offre elementi
di fatto – come già fatto notare da Vittorio Agnoletto – sulle
responsabilità operative e politiche di quanto avvenuto e sulla scelta
compiuta negli anni seguenti dal vertice di polizia e dai responsabili
politici, una scelta di legittimazione e copertura degli abusi e delle
menzogne, anziché di ripudio, come l’etica democratica comanderebbe.
Il
rischio è evidente: diventa difficile capire le ragioni che hanno
portato alle violenze e ancor più difficile comprendere quale sia
l’importanza odierna di quei fatti: sono un evento storico utile per
“fare memoria” o riguardano l’attualità, il nostro futuro? Lo scandalo,
se resta nel vago, non rischia d’essere una mera valvola di sfogo?
Il
regista ha spiegato di aver fatto una precisa scelta: da cineasta ha
voluto mostrare la terribile caduta dello stato di diritto avvenuta fra
la scuola e la caserma-carcere, lasciando agli spettatori il compito di
cercare nomi, risposte, spiegazioni. E agli attivisti il compito di
proseguire la battaglia.
Il cuore del film è dunque la descrizione
delle violenze, che finora nessuno aveva mostrato: non esistono
fotografie né video su quanto accaduto dentro la Diaz e a Bolzaneto.
Solo uno dei 93 malcapitati della Diaz, Christian Mirra, ha raccontato
in una storia a fumetti la sua vicenda, offrendo così la prima
rappresentazione grafica della macelleria – molto italiana, più che
messicana – messa in atto nella scuola di via Battisti.
Il film,
se avrà successo, se il “pugno allo stomaco” provato dai primi
spettatori si trasformerà in passaparola, potrebbe riuscire nell’impresa
di riproporre all’attenzione pubblica il “caso Genova G8”, o almeno il
“caso Diaz”. Ma difficilmente il gruppo dirigente della polizia di stato
e il ceto politico che lo difende (con viltà ormai bipartisan),
accetteranno di entrare nella discussione. Sono riusciti a evitarlo
quando i dirigenti di polizia sono stati chiamati in causa nome per nome
e condannati in tribunale, si ripeteranno di fronte a uno “scandalo”
che si ferma alla messa in scena delle violenze. Taceranno probabilmente
anche il Massimo D'Alema che a caldo parlò di “notte cilena”, la Rosy
Bindi che testimoniò vicinanza a Vittorio Agnoletto la mattina del 22
luglio, il Gianclaudio Bressa ottimo relatore fra 2006 e 2007 del
progetto di istituire una commissione d'inchiesta (poi bocciato dal
voto). La strategia del silenzio è la più efficace, quando c'è qualcosa
da nascondere o una posizione poco difendibile da mantenere. E non
saranno i grandi media a imporre la questione all'ordine del giorno.
Dietro
l'angolo c'è dunque – nel migliore dei casi – uno scandalo del tipo
indicato da Dario Fo ormai quarant’anni fa, con la gente che prova
indignazione, si contorce nella sofferenza suscitata da certe immagini,
percepisce quanto sia stata grave, e incompatibile con un regime
democratico, la condotta della polizia di stato a Genova, ma tutto
finisce lì. Magari con la sensazione – come dice la Giornalista nella
“Morte accidentale” – di vivere in uno stato migliore, perché di certe
cose è possibile parlare, dimenticando qual è il vero scandalo, e cioè
che tutti, ma proprio tutti, i responsabili dell’operazione Diaz –
dall’ultimo dei picchiatori, al più importante dei dirigenti – sono
stati confermati ai loro posti, con i più alti in grado oggi impegnati
in ruoli addirittura più elevati. E senza che lo stato, nella persona di
un ministro, di un premier, dello stesso presidente, abbia mai
avvertito la necessità di chiedere scusa alle vittime dirette degli
abusi e – soprattutto – all’insieme della cittadinanza.
A ben
vedere, lo scandalo è già stato neutralizzato e assimilato all’epoca
delle clamorose sentenze di secondo grado (nel 2010), che hanno portato
alle condanne non solo di decine di agenti e funzionari di basso
livello, ma anche degli altissimi dirigenti, di rango nazionale, che
hanno partecipato all’operazione Diaz: stiamo parlando dei massimi
responsabili dei servizi operativi e investigativi. Queste condanne sono
un fatto che non ha precedenti in Italia e forse in Europa, eppure non
hanno portato a niente. L’intero arco parlamentare ha incredibilmente
ribadito la propria fiducia nei dirigenti condannati, e il capo della
polizia, così come ministri e primi ministri hanno potuto ignorare non
solo i fatti storici ma anche l’esito delle inchieste e il giudizio dei
tribunali.
Insomma, lo scandalo si è consumato, le coscienze si
sono scaricate (la giustizia dopotutto ha fatto il suo corso), e “il
prestigio della polizia è cresciuto”, in attesa che la Cassazione, a
metà giugno, rimetta le cose a posto, come ebbe a dire il
sottosegretario Alfredo Mantovano all'indomani delle condanne in
appello: “Sono ragionevolmente convinto”, disse, “che la Cassazione
ristabilirà l’esatta proporzione di ciò che è successo e scioglierà ogni
ombra su fior di professionisti della sicurezza che oggi si trovano in
questa situazione”.
Un film come “Diaz” sarebbe stato utile una
decina d’anni fa, con le inchieste in corso e alcune vie d’uscita ancora
aperte verso una decente credibilità democratica delle istituzioni. I
fatti all’epoca erano già noti, le successive inchieste li hanno solo
confermati.
Forse nel 2002, mostrarli, rendere evidente che il corpo
speciale impiegato alla Diaz si prese il rischio di uccidere qualcuno
durante la perquisizione, sarebbe servito ad alimentare una discussione
seria e a concentrare l’attenzione sulla catena di comando all’interno
della polizia e sul contesto politico nel quale vanno collocati gli
scempi di Genova G8.
Nel 2012, con tutto ciò che nel frattempo è
avvenuto, fermarsi alla descrizione delle violenze, senza raccontare
quanto quell’abuso di potere sia stato aggravato, significa ignorare gli
aspetti a questo punto più importanti. Il boicottaggio delle inchieste
da parte della polizia di stato, il rifiuto opposto dagli altissimi
dirigenti imputati di presentarsi in tribunale per rispondere alle
domande dei pm, il mancato ripudio delle violenze e delle menzogne, le
promozioni ottenute a inchieste in corso, sono tutti fatti che hanno
portato a infimi livelli la credibilità degli attuali vertici di
polizia.
Allo stesso modo, rimanendo sfumato il contesto nel
quale il blitz alla Diaz si colloca – la straordinaria e coinvolgente
mobilitazione genovese, il tragico fallimento della gestione dell’ordine
pubblico –, nel film restano oscure le motivazioni che portarono al
blitz. La perquisizione non fu decisa allo scopo di prendere un
determinato gruppo di appartenenti al Blocco nero, ma per eseguire un
congruo numero di arresti e ottenere un recupero in termini di immagine
per la polizia di stato, raggiungendo anche un obiettivo politicamente
interessante, ossia eseguire quegli arresti non in un posto qualsiasi
fra i tanti possibili, ma nel quartier generale del Genoa social forum,
appunto la scuola Diaz. Sono punti che sono stati messi in chiaro, il
primo, dal vice capo della polizia dell’epoca, Ansoino Andreassi, che ha
testimoniato in tribunale (guadagnandosi l’ostracismo del vertice di
polizia); il secondo dallo stesso Silvio Berlusconi, il quale nella
conferenza stampa finale – mostrata alla fine del film – annuncia che
nella sede del Genoa social forum (lui lo chiama Global forum) sono
stati arrestati appartenenti al Black Bloc, mentre il Gsf aveva negato
qualsiasi relazione col Blocco nero.
Per tutte queste ragioni,
alla fine, concordo col giudizio espresso dal critico Paolo Mereghetti
sul Corriere della Sera, che ha trovato limitante – sintetizzo così il
suo pensiero – la scelta del regista di fermarsi al racconto delle
violenze, senza spingersi sul terreno delle responsabilità, “cancellando
teorie, complotti – scrive Mereghetti – ma anche ‘giustificazioni’ e
spiegazioni. [...] Alla fine le immagini lasciano un senso di
incompiutezza, che non bastano le didascalie finali a riempire”.
A
questo punto toccherebbe a noi, ai cittadini, ai movimenti,
all'associazionismo, al giornalismo indipendente, cambiare il corso
degli eventi, ma temo che in questo disastrato paese, anche per il “caso
Diaz” ci apprestiamo all’avveramento della profezia di Dario Fo: un po’
di scandalo, un po’ di indignazione e una nebbia fitta intorno ai
luoghi di massimo potere. Alleluia.
(16 aprile 2012)
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