Migliaia di militanti di anagrafe dinamica, età media 35, terziario tecnologico, esperienze glocal, una riserva di sdegno-più-impegno, i "grillini" sono forse l'ultima spiaggia della politica pulita nel Belpaese astensionista. Ma un movimento che rifiuta ogni gerarchia formale rischia di subire quelle di fatto.
di Michele Smargiassi, da Repubblica
Che fare? Nulla. «Non dobbiamo fare proprio nulla. Faranno tutto gli altri, si disferanno da soli, e noi vinceremo». La strategia del ragno, predica Giovanni Favia. E Favia sa quel che dice, perché sul podio di terzo partito che alle politiche la Swg attribuisce al non-partito di Beppe Grillo, lui consigliere regionale ci sta già seduto sopra da due anni. Col 7%, doppiati i centristi, il MoVimento 5 Stelle è già il terzo polo in Emilia Romagna. «E possiamo fare molto di più. Anche tre volte tanto».
Basta non sbagliare le mosse. L'euforia è pericolosa, e scricchiolii già si avvertono: zuffe virtuali, scomuniche dall'alto, malumori dal basso. «Nervi saldi. È la grande occasione ma le occasioni si colgono, o si sprecano»: Massimo Bugani, fotografo, felpa rossa da ragazzino, un anno fa festeggiava con le sfrappole lo sfondamento (tre consiglieri) a Bologna; ma ora va di frizione, «ci serve ancora tempo per essere pronti». Eppure sembra un piatto cotto e servito, la Lega che sprofonda (e cede ai grillini, pare, metà dei voti in fuga), la coalizione ABC che s'impastrocchia sul tema più impopolare, il finanziamento ai partiti. Centoquattro liste pronti a «surfare l'onda», come dice il capo. Ad Alessandria, 33 liste e 16 candidati sindaco, per il pentastellato Angelo Malerba potrebbe perfino scapparci il colpo grosso, il primo sindaco grillino; lui gongola, «se mi presento vuol dire che son pronto a governare», poi esita: «se non vedo non credo...». Ma c'è davvero nell'euforia una punta di paura se perfino l'oracolo genovese tuona contro il "rigor Montis" ma non invoca elezioni subito, e sugli scandali mette le mani avanti: «ora tocca alla Lega, dopo a Di Pietro, poi a noi». Paura di imboscate. Paura di cadere sul traguardo come Dorando Pietri.
Nato il 4 ottobre del 2009, come san Francesco, il M5s è un'utilitaria lanciata in pista al massimo dei giri. Il carburante è buono. Migliaia di militanti di anagrafe dinamica, età media 35, terziario tecnologico, esperienze glocal, una riserva di sdegno-più-impegno che è forse l'ultima spiaggia della politica pulita nel Belpaese astensionista. Anche la rotta è scelta con cura: non sono orfani di Berlusconi come i dipietristi o l'evaporato popolo viola. A Grillo non mancano i bersagli, clamoroso l'ultimissimo: «Usciamo dall'Euro e non paghiamo il debito pubblico». Intanto diversifica gli investimenti nell'Italia delle mille rivolte, blandisce i tassisti, sfotte le tasse, boccia lo ius soli per i figli degli immigrati. A Bologna una consigliera romena cinquestelle si dimette per protesta, ma a Legnano, Padania profonda, il candidato Daniele Berti fa campagna contro il campo Rom.
Quel che rischia di sbullonare però è il motore. Niente dirigenti, impone il «non statuto», viva la democrazia orizzontale del Web, peccato che non esista. La Rete è potente per mobilitare e diffondere viralmente: frana se deve decidere. «Abbiamo giustamente deriso le primarie infiltrate del Pd, ma le votazioni Internet sono la stessa cosa», ammonisce da Genova Christian Abbondanza, animatore della Casa della legalità, quasi un eroe per il popolo grillino, ma ora molto arrabbiato con i suoi amici: «Basta un software, ti procuri 199 identità Internet e ribalti una scelta, si rischia di farsi imporre i candidati da chissà chi». Quando la tessera di militante è una password e diventare un votante dev'essere facile come fare un login, i rischi sono questi. Molti li hanno già intravisti. A Bologna si entra nel MoVimento solo dopo aver partecipato a tre assemblee in carne ed ossa. «Io sono stato scelto da persone fisiche», rivendica Davide Bono da Torino. Insomma in democrazia a volte quel che è buono non è nuovo e quel che è nuovo non è buono.
Ma le scelte alla fine qualcuno le fa, e ogni scelta premia ed esclude, e lascia scontenti. La Rete è piena di blog di delusi, fuoriusciti o mai entrati, scomunicati, amareggiati grillini della prima ora che gridano al tradimento e fondano grillerie alternative: sembra la turbolenta gestazione della Lega Nord. «Bastano dieci che si insultano per farci sembrare divisi, usiamo la Rete troppo e male», ha ammesso Favia. Ma il guaio è che nel movimento orizzontale nessuno ha i poteri per sedare una rissa o contrastare una "devianza", tranne l'unico potere verticale: lui. Il "Garante". A cui il non-statuto non attribuisce cariche, neppure questa che tutti gli riconoscono, ma che senza poter essere sfiduciato può sfiduciare chi vuole. Gli bastano due righe sul suo blog, e saltano teste e liste. Valentino Tavolazzi è ancora lì che si lecca le ferite: la sua lista civica "Progetto per Ferrara" è più vecchia del M5s, ed ebbe nel 2009 il regolare timbro del capo, che adesso però ha cambiato idea e gliel'ha tolto di botto, in piena campagna elettorale, con una lettera dei suoi avvocati. «Ci ha lasciato senza scorta», si lamenta desolato il Tavolazzi: sul sito ha coperto il simbolo cinquestelle con un frego nero. «Non capisco, forse la democrazia interna è ancora prematura...». A Taranto il primo gruppo cittadino si ribella al candidato Furnari. A Genova il Meetup 20 non gradisce Paolo Putti, che Grillo ha pescato fuori dal MoVimento: è il leader del popolarissimo comitato "No Gronda", sorta di no-Tav dell'asfalto.
Agli scontenti non resta che il mugugno. Oppure il ricorso allo Staff. Lo chiamano tutti così, "lo Staff", tanto sanno di chi si tratta: "i Casaleggio". Casaleggio Associati, società di strategie di Rete, spin doctor di Grillo, geniali artefici della sua fortuna sui new media, molto più che tecnici, svolgono un ruolo politico, gestiscono le crisi locali, valutano candidature, qualcuno comincia già a temerne il potere. Un movimento che rifiuta ogni gerarchia formale rischia di subire quelle di fatto.
Del resto fra qualche mese il MoVimento potrebbe essere costretto da un nuovo sistema elettorale a fare una scelta gerarchica devastante per la sua ideologia. Un nome sulla scheda, il candidato premier. Grillo? No. È il proprietario del marchio, ma come leader predestinato si giocherebbe tutto per una base che al motto "uno vale uno" ci crede davvero. «Beppe è un papà, ma lo mollerei se si candidasse» giurava un militante di Arezzo alla "Woodstock" romagnola del movimento.
Chi allora? A Rimini, in marzo, una riunione autoconvocata di meetup dissidenti ha osato l'inosabile: mettere in discussione l'autorità del guru e dei suoi consiglieri. C'era (ma non messa ai voti) perfino una mozione che proponeva candidato premier Giuseppe Favia, proprio lui, il primo trionfatore bolognese, recordman nazionale dei consensi grillini.
Instancabile, da mesi cura meticolosamente la sua popolarità partecipando ai talk show televisivi e facendosi invitare in piazze anche molto lontane dalla sua Emilia. Eccessivo personalismo per molti, e Grillo ha iniziato a mandargli messaggi ben decifrabili, a bruciargli la terra attorno: piallando il suo fedelissimo co-consigliere regionale Defranceschi per un'inezia (una mozione di solidarietà all'Unità in crisi), cacciando dal MoVimento la lista ferrarese sua amica, ottenendo un giuramento di fedeltà personale "senza se e senza ma" dai tre consiglieri comunali di Bologna.
Per soffocare sul nascere i frondisti riminesi, Grillo ha sfoderato addirittura un'arma da seconda repubblica, le intercettazioni: pubblicando sul blog, senza nomi, alcuni messaggi scambiati tra i dissidenti in chat riservata («a leggerli mi sono cascate le palle») e sfidandoli al coming out (nessuno si è fatto vivo). Favia a Rimini non c'era andato, ma in qualche modo ha accusato ricevuta: «Non mi candiderò al Parlamento». Ha ragione davvero: quando c'è tempesta, meglio stare fermi.
(20 aprile 2012)
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sabato 21 aprile 2012
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