martedì 24 aprile 2012

Il rebus dell’euro

di Marcello De Cecco, da Repubblica Affari & Finanza, 23 aprile 2012
L’euro sia al centro del terremoto finanziario che ha investito l’Europa. Non sorprende, visto che si tratta della seconda moneta più importante del mondo e che ha costituito l’unica sfida seria alla egemonia del dollaro da Bretton Woods a oggi. 

Quello che sorprende, invece, leggendo la massa di pubblicazioni dedicate all’euro, è che esse non parlino quasi mai delle possibilità che la moneta unica europea ha di crescere o diminuire di valore nei confronti del dollaro o delle altre monete importanti. L’argomento è al centro delle discussioni è la sopravvivenza dell’euro. I commentatori scientifici americani, ad esempio, hanno messo in dubbio la vitalità dell’euro sin dal suo debutto, tra 1998 e 2002. Martin Feldstein addirittura predisse allora che la moneta europea sarebbe crollata portando il vecchio continente a conoscere di nuovo la guerra al suo interno. 


Anche senza condividere il catastrofismo di Feldstein, altri prestigiosi economisti americani hanno dichiarato la impossibilità dell’euro di sopravvivere a lungo. Ciò perché la moneta unica non costituisce l’espressione della sovranità monetaria di uno stato centralizzato o federale. L’euro è stato introdotto da una associazione di stati, non da una federazione. E tale associazione manca degli altri requisiti della sovranità, in primo luogo la sovranità fiscale. E non servono i patti di stabilità e i trattati internazionali come il fiscal compact a sostituire una vera sovranità fiscale.

Tutto questo è vero, ma come è possibile che il terremoto iniziato nel 2010 sui debiti pubblici dei paesi membri dell’euro non si sia ripercosso con la stessa virulenza sul cambio della moneta europea col dollaro? La situazione precaria delle finanze dei paesi meridionali della Unione monetaria avrebbe fatto predire una svalutazione dell’euro ben superiore a quella da 1,40 a 1,30 sul dollaro verificatasi a partire dal 2010.

Come è potuto accadere che coloro che, fuori dell’area euro, hanno venduto i titoli di stato dei paesi periferici della stessa area, abbiano cambiato euro contro dollari senza causare un crollo nel cambio della moneta europea? Una possibilità è che gli investitori abbiano venduto i titoli della periferia dell’euro a compratori della stessa area, e che non abbiano cambiato gli euro ottenuti dalle vendite. In tal modo hanno mostrato di fidarsi degli altri paesi dell’euro, come Germania, Austria, Olanda. La loro sfiducia, dunque, non sarebbe verso la moneta europea ma solo verso i titoli dei paesi periferici. 

Può darsi benissimo che, ad esempio gli hedge funds americani, abbiano venduto bonos spagnoli o Btp e comprato bund tedeschi o francesi o austriaci o olandesi. Sarebbe una strategia ragionevole, che non esprime sfiducia verso una moneta ma solo verso governi di paesi che si pensa non saranno in grado di restare nella Unione monetaria. E non si vede perché dovrebbero essere Germania, Austria o Olanda a dover rinunciare alla moneta comune. In un caso del genere mantenere gli investimenti in euro significherebbe scommettere sulla maggior forza della moneta europea nei confronti delle altre una volta usciti da essa i paesi incapaci di mantenere un sufficiente rigore finanziario. Usciti i deboli l’euro potrebbe divenire una moneta veramente forte e probabilmente metterebbe in crisi il dollaro. L’importante, dunque, è avere investito in Germania, Olanda o Austria, e non essere usciti dall’euro come moneta.

Coloro i quali (e non sono pochi) in Germania, Austria, Olanda e persino Finlandia chiedono che si blocchi il riciclaggio di euro verso i paesi in deficit per il tramite del sistema Target 2 della Bce, e che non si proceda in alcun caso verso forme anche lievi di Transfer Union, lavorano per ottenere che si passi ad un euro.2, purificato dagli spendaccioni meridionali.
Così facendo, essi negano la filosofia di fondo della stessa unione monetaria, che consisteva proprio nello zavorrare la nuova moneta con paesi fiscalmente deboli, in modo da ridurre l’impatto di un euro forte sulla competitività dell’industria tedesca e degli altri stati clienti della Germania, quali sono Olanda e Austria. 

Fin quando tale zavorra è rimasta leggera, cioè fino allo scoppio della crisi, hanno sopportato questo machiavellismo, degno di chi lo aveva architettato, Francois Mitterrand, non a caso chiamato dai francesi "le florentin". Ora che per salvare le loro banche, le autorità dei paesi periferici dell’euro hanno dovuto sfasciare la finanza pubblica, i tedeschi e gli altri paesi in surplus hanno smesso di investire i propri surplus nei paesi periferici, come richiedeva la filosofia predetta, e si è perduto l’equilibrio virtuoso originario interno all’euro. Ma da questo non discende che anche gli investitori esterni all’area debbano abbandonare la moneta europea. E’ sufficiente che si spostino all’interno dell’area. Se si trattasse di una moneta nazionale come le altre, bisognerebbe uscire da essa quando si vende l’investimento. Nel caso dell’euro questo non è vero. Onde la relativa forza dell’euro e la forte debolezza dei titoli dei paesi periferici.

Se comincerà a cadere anche il cambio, vorrà dire che gli investitori non europei hanno perso la fiducia nella Germania, o che lo stesso avviene ai cittadini dei paesi forti della zona euro. Ricordiamo, infatti, che per i cittadini dei paesi periferici la moneta unica resta una moneta forte, da tesaurizzare, fin quando resta forte l’economia tedesca.

Nessun commento:

Posta un commento