di Paolo Flores d’Arcais, da Libération, 18 aprile 2012
Vista da fuori, la campagna elettorale per le presidenziali in Francia presenta una bizzarria: il candidato della sinistra Jean-Luc Melenchon viene presentato come un “estremista”, una specie di pendant alla candidatura razzista e neo-fascista (anche se sapientemente imbellettata) di Marina Le Pen.
Ora, la bizzarria è questa: il programma di Melenchon, che vuole per tutti i lavoratori un salario minimo alto e, viceversa, un limite agli stipendi megagalattici dei manager, e una lotta senza quartiere all’evasione fiscale e alla corruzione, e le energie rinnovabili a preferenza del nucleare, e qualche “briglia” alla libertà selvaggia della finanza e del capitale, può piacere o non piacere, ma la sintesi di questo programma lo si può leggere, spesso inciso a lettere dorate e comunque sempre con le maiuscole, in tutti gli edifici pubblici della Francia: Liberté, Egalité, Fraternité. E’ dunque davvero stravagante che un programma che si limita a prendere sul serio quella che è la “ragion d’essere” dellaRepublique, e che perciò dovrebbe costituire il mainstream etico e politico della stragrande maggioranza dei francesi, venga invece tacciato di “estremismo”.
Sia chiaro, i toni e lo stile dei comizi di Melenchon possono risultare talvolta (e magari anche spesso) inficiati di populismo, di un “dialogo” diretto con la folla che favorisce pulsioni plebiscitarie anziché spirito critico e illuminismo, di inaccettabili attacchi “tout azimuth” ai giornalisti, di richiami ad esperienze demagogiche, o peggio, in atto in America Latina … Ma non è questo che spinge i suoi avversari, e la quasi totalità dei mass media, a definire “estremista” la sua candidatura, bensì proprio il suo programma. Che è invece semplicemente coerente con le tre parole/valore della Repubblica.
Il che dovrebbe costringere ad una riflessione di fondo sulla crisi della democrazia in atto in tutto l’Occidente: quando un paese trova normale definire “estremismo” i valori crucialidelle democrazia, e ritiene che “realismo” sia invece lo scarto crescente fra i valori proclamati nelle bandiere e nelle Costituzioni, e una politica che quei valori quotidianamente calpesta, è il fondamento stesso della legittimità democratica che viene messo a repentaglio.
Una convivenza sociale non regge all’infinito se alla parola “Egalité” corrisponde la crescita esponenziale delle differenze salariali, in una hybris di “liberismo selvaggio” che spinge i paesi europei verso la mostruosa indecenza delle diseguaglianze della Russia di Putin o della Cina del “Partito comunista cinese”. E se dunque la parola “Liberté” significa solo e soltanto “Privilegio” (sulla parola “Fraternitè” è meglio stendere un velo pietoso). Come può un paese pensare di affrontare in modo democratico l’attuale crisi economica, che esige un “di più” di coesione sociale e di sforzi convergenti, se considera carta straccia la “Magna Charta” dei valori su cui si fonda il “patto sociale” che dovrebbe vincolare tutti e fornire la bussola per le leggi ordinarie e per l’ethos diffuso della cittadinanza?
E invece, il minimo che si dice, se quei “sacri principi” vengono presi appena sul serio, è che si tratta di misure irrealistiche. Il che significa, se la logica ha ancora un valore, che realismo politico e abrogazione dei fondamenti di legittimità della democrazia fanno tutt’uno, che la Realpolitik esige il sovvertimento della democrazia!
Ripeto: se l’obiezione alla candidatura Melenchon fosse che lo stile dell’uomo fa dubitare della serietà con cui alle parole farebbe corrispondere i fatti, se ne potrebbe discutere (anche se, di fronte al tribunale di questo “dubbio” non credo che i suoi contendenti se la caverebbero meglio). Ma è proprio il programma, è proprio “Liberté, Egalité, Fraternité” che suona insopportabile e indigeribile.
Brutta storia. Tanto più che contro Melenchon non vale neppure l’obiezione del “voto utile”: questa volta non c’è nessuna possibilità che al ballottaggio vada un Le Pen, un candidato di sinistra ci sarà comunque, e Hollande cala nei sondaggi quando è meno “di sinistra”, non il contrario.
(20 aprile 2012)
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