Dopo le contestazioni in un liceo romano dei neofascisti il 25 aprile
tornano a sfilare i combattenti. E in un libro ("Io sono l'ultimo", a
cura di Giacomo Papi, Stefano Faure e Andrea Liparoto, Einaudi Stile
Libero) raccontano ai ragazzi la loro battaglia.
di Paola Doriga, da Repubblica, 23 aprile 2012
Le
loro storie sono la nostra memoria. Le storie dei nostri nonni, che ci
hanno raccontato quando magari non avevamo voglia di ascoltare, e che
adesso non sappiamo dire quanto ci dispiace non potere più ascoltare. Le
storie dei nostri nonni o dei nonni che ci siamo scelti, arrivate con
una parola, con un libro, con una canzone. Come quella di Mario
Bottazzi, partigiano romano, che sabato scorso, al liceo Avogadro di
Roma, è stato contestato da un gruppo di studenti neofascisti, e per
questo, proprio perché il tempo non è passato, dopodomani 25 aprile,
dopo due anni di manifestazione a Porta San Paolo, i partigiani hanno
deciso di tornare a sfilare. Per le strade.
La suggestione di un
mondo che non conosco se non attraverso le parole a me l'hanno data, a
diciassette anni, i CSI. La scoperta di Beppe Fenoglio nei testi di La
terra, la guerra, una questione privata. Della guerra, del fascismo,
della Resistenza, sapevo quello che avevo studiato e letto e guardato a
scuola e quello che avevo sentito in casa.
Alle elementari le maestre
ci mandavano in giro per il paese a intervistare gli anziani che
avevano vissuto quegli anni. Erano storie di guerra e di fame, di
prepotenza in divisa, libertà e dignità calpestate. Di ragazzi di
vent'anni che cercavano di tornare a casa, in Sardegna, e si unirono
alle bande partigiane, sui monti e nelle città, con la speranza in
tasca. Di ragazze che facevano chilometri sulle loro biciclette, nelle
valli in nord Italia, con ordini e messaggi nascosti fra i vestiti, con
coraggio e incoscienza e lo spazio per un pensiero d'amore. Di donne che
nascondevano uomini nelle cantine o nelle soffitte, cucivano vestiti e
cucinavano minestre, nelle periferie di Roma o di Milano. La storia di
Giuseppe Serreli, ascoltata e trascritta da alcuni bambini: «Giuseppe
Serreli è un uomo di 55 anni, basso e magro. Vive ad Uta e fa
l'ortolano». Raccontò che si fece partigiano nell'Appennino Ligure,
chissà se incontrò Italo Calvino, aveva ventun anni, e scelse Uta come
nome di battaglia. Che poi anziane non erano, quelle persone, quando io
ero alle elementari, avranno avuto sessant'anni o poco più.
Adesso,
adesso sono anziani, molti sono morti. Sono i nostri nonni, e
lentamente muoiono. Da raccontare, adesso, quelle storie, ai ragazzi
delle medie che non sanno cosa sia, il 25 aprile, a cosa serva. Non
sanno che è per tutti, per tutti noi ogni giorno ancora. Non sanno che
hanno lottato, quelle persone, che non era in vacanza che andavano gli
oppositori di Mussolini, chi si opponeva alle sue idee di oppressione e
di violenza, come hanno provato a raccontarci in questi anni. Non sanno
le carceri e il sangue sui muri. Non lavate questo sangue, hanno scritto
su un foglio le prime persone che sono entrate alla scuola Diaz, dopo
la notte in cui accadde quello che accadde. Il sangue non si lava via
perché serve a ricordare, a non dimenticare. Quando vengono sospesi i
diritti della democrazia, la libertà e la dignità calpestate, non va
lavato via il sangue. Perché «tutto quel che è successo è perduto, ma
tutto quel che è successo può tornare a succedere», scrive Rossana
Rossanda.
La libertà per cui hanno lottato è anche la nostra e la
libertà è faticosa. Il 25 aprile deve sopravvivere alla retorica e
anche a anni di rilettura, di discorsi in cui non sembra più tanto
chiaro che la democrazia, la Costituzione, sono figlie delle donne e
degli uomini che hanno combattuto contro l'occupazione nazista e contro
il fascismo che la appoggiava. La libertà è faticosa e non vuol dire
fare quello che ti pare, mi ha detto una signora di ottantasette anni
che ha fatto la partigiana. «Un'elementare spinta di riscatto umano»
era, secondo Calvino, a spingere i nostri nonni nell'urgenza di quei
giorni, e ancora preme nei nostri, di giorni, lontanissimi e diversi ma
riconducibili allo stesso «quid elementare, chiave della storia presente
e futura». Come un impegno preso, essere sempre contro ogni forma di
oppressione e di fascismo, di discriminazione e di violenza, comprendere
e accogliere. Hanno saputo guardare oltre le macerie, i nostri nonni,
hanno saputo immaginare mentre agivano e ridare un senso alle cose. Per
questo anni fa, a Barcellona, in un locale pieno di stranieri, io e il
mio amico Mattia, di San Remo, il 25 aprile abbiamo brindato all'Italia:
se aveva un significato il nostro essere italiani, a vent'anni, in una
città europea, il significato era questo.
© Paola Soriga 2012 , Roberto Santachiara Literary Agency
Ferdinando De Leoni
«Il Duce decideva le parole e mi ribellai»
Sono
nato durante il fascismo. Ho frequentato scuole fasciste – il liceo
Tasso, dove andavano i figli del Duce. In un'epoca in cui la televisione
non esisteva e la radio era la radio del Regime e i giornali erano
giornali del sistema, era proibito leggere libri di autori stranieri e
persino parlarne la lingua. Un'epoca in cui era proibito dire ho fatto
goal alla partita e al cinema si andava a vedere i film di Renato Rascel
(sempre che quel cretino di Starace non fosse riuscito a farlo
chiudere, il cinema Eden, perché Eden era il nome del capo dei laburisti
inglesi): un'epoca in cui chi decideva le nostre parole non conosceva
neppure il significato della parola Paradiso.
Di fronte a tutto
questo, come abbiamo fatto, alcuni di noi, a diventare antifascisti? Le
strade sono molteplici. Molto differenti. Per me, si leggeva.
Clandestinamente. Si studiavano i libri che giravano sottobanco.
Marcello Marini
«E’ difficile spiegare perchè ci è successo»
Domandano
tutti: – Ma perché lo avete fatto? – E fanno anche la domanda che non
dovrebbero fare. – Avete ammazzato? I ragazzi vogliono sapere il
periodo. E chiarire il perché. È necessario spiegare il periodo, prima
di chiarire il perché. È quasi impossibile spiegarsi, tra noi e i
ragazzi ma è l'impegno che ci mettono nel cercare di capire,
l'importante. L'interesse calò intorno agli anni Novanta. Quando calò un
po' tutto. Ma non posso dire che si estinse. E infatti è covato. Adesso
la ripresa c'è stata. I giovani sono tanti e sono tornati. Quando uno
vede che alle manifestazioni ci sono giovani e vecchi che cantano Bella
ciao è una cosa che fa riflettere. Parliamo di questo.
Negli ultimi tempi dico loro: – Guardate, sono rimasto solo io. Allora diventano più interessati ancora. Io sono l'ultimo.
Giovanna Maturano
«La prima rivolta fu contro nostro padre»
Eravamo
due sorelle e due fratelli con due anni di differenza l'un l'altro.
Tutti finimmo arrestati. Anche mia madre. Mio padre no. Mio padre non
era fascista. Ma non faceva niente. Non era un vigliacco. Era la sua
forma mentale da ispettore capo della dogana. Mio padre metteva i soldi
da parte per la pensione. Era autoritario in maniera terribile. E noi
facevamo la fame. Bisognava chiedere i soldi prima che li mettesse in
banca, se no, era finita. Cosí abbiamo dovuto fare una rivolta in
famiglia. Da lí, abbiamo fatto esperienza. E l'abbiamo fatta diventare
una cosa piú grande. La nostra vita è stata talvolta dura e difficile,
ma io non rimpiango nulla, se non forse che avrei potuto fare di piú e
meglio. Ma con tutte le delusioni, le amarezze, i dolori e le gioie,
questa è stata la mia vita e io l'ho vissuta intensamente e con
entusiasmo, soffrendo, amando e lottando.
Vanda Bianchi
«Non mi è mai scappata la voglia di lottare»
Nella
Resistenza posso dire di esserci nata. Io sono figlia di un sovversivo.
All'epoca non sapevo neanche che cosa volesse dire quella parola, e ne
avevo paura. Quando mi è toccato lasciare gli studi, da bambina, mi sono
messa a piangere. Perché volevo capire, già allora, come girava il
mondo. Non c'è bisogno di avere un granché di istruzione, comunque, in
certi frangenti. Il mondo gira in un verso che è chiaro per tutti. Io ho
sempre fatto i conti, prima e dopo la guerra. Non sono stata soltanto
una partigiana: le nostre lotte le ho fatte ogni giorno, fino ad adesso.
Non ci è mai scappata la voglia. Era un onore portare le armi e
distribuire la stampa clandestina; era un onore partecipare nelle
sezioni dopo la guerra o agli scioperi di mio marito metalmeccanico. I
mesi passati a combattere sono stati lunghi e brutti. L'importante è che
non tornino piú.
Ferruccio Mazza
«Pensate le cose impensabili»
Ai
ragazzi dico questo. Pensate le cose impensabili. Si può sopravvivere a
una guerra. Si può saltare un cancello alto alto con delle lance
acuminate sulla cima e resistere a un tempo che vuole scambiare la
giovinezza con la fame e la morte. Si può ritornare dai campi di
concentramento in Germania con gli amici fraterni che vi hanno
accompagnato fin sulla soglia della disperazione e poi della libertà,
trascinandosi fuori l'un l'altro. Si può ritornare a casa, quando tutto
sembra distrutto e perduto, e ricominciare da capo. E sapere, sul treno
di ritorno, con le immagini delle macerie che ti passano dai finestrini,
che a casa ti stanno aspettando tua moglie, e tua figlia.
Giorgio Vecchiani
«Lascio una rosa sopra ogni targa»
Prima ancora di prendere le armi la nostra guerra era scrivere «Viva la pace» sui muri.
Ora si fanno dei corsi in carcere, sulla Costituzione.
Leggerò ai detenuti la lezione di Calamandrei.
E poi ho messo insieme tanti ragazzi.
In bicicletta si farà un giro di Pisa lasciando una rosa sopra ogni targa.
È sempre difficile trovare gente per le commemorazioni, perché da noi gli eccidi più grandi sono avvenuti d'estate.
Ma io credo che qualcuno verrà.
Liliana Mattei
«Avevamo il veleno per non parlare»
Talvolta
mi ritorna l'immagine della città vuota. Stato d'emergenza assoluto.
Ponti tutti distrutti. Ho un ricordo di questo silenzio più del rumore
dei combattimenti. Il mio nome di battaglia era "Angela". È stata
un'esperienza, quella partigiana, dura e tragica, che ha richiesto
immensi sacrifici e tanto coraggio. Eravamo consapevoli che, una volta
catturati, prima di ricevere la morte saremmo passati attraverso la
tortura e le sofferenze più atroci. I compagni ci chiedevano se si
volesse il veleno da portare appresso. Ma io non l'ho mai preso: non lo
volevo il veleno sul corpo. Però ho una soglia del dolore piuttosto
bassa. Mi chiedo ancora come avrei fatto. Tuttavia penso che rifarei la
stessa scelta che feci allora.
Aldo Sodero
«Era bello dividere il pane bianco»
Cosa
vi devo dire. Le storie sono quelle. C'era la miseria. Si andava a
scavare le patate che crescevano selvatiche nei prati, la notte. Si
riusciva a trovare un pezzo di pane bianco. Era un sogno per noi. Si
portava in famiglia e si divideva fra tutti, nove persone per una
pagnotta. Si facevano i chilometri in bicicletta per trovare qualcosa da
mangiare, lo si metteva nei barattoli di vetro, si cascava dalla
bicicletta e si doveva dividere con le mani il cibo dal vetro. Il
momento era quello. L'ho raccontato a mia figlia. Ai miei nipotini di
sei e sette anni, appena hanno avuto le orecchie per sentire una voce
che non fosse quella della loro mamma. Lo racconto a voi, pur sapendo
che certe cose non si possono capire. Erano tempi di scelte. Io ho
scelto la parte giusta.
Nello Quartieri
«Niente celebrazioni ma solo amore»
L'importante
è stato vivere per qualcosa, non come un'anima spenta. «Cercate di non
fuggire dalla libertà», diceva qualcuno. Noi non siamo fuggiti. Non sono
fuggiti i colti e gli ignoranti. E penso con intensità sempre maggiore,
intanto che vedo arrivare la fine, a come i nostri contadini potessero
combattere una battaglia senza aspettare ritorni fruttuosi, con la sola
ambizione di ritornare a essere padroni a casa loro. E ritrovo con
commozione i compagni persi nelle boscaglie, nei greti dei fiumi, nei
nostri alti pascoli, nati poveri prima della Resistenza e morti poveri
prima di poterne apprezzare i frutti. Se potessero parlare, direbbero:
«Non vogliamo essere celebrati, ma amati». Guai a far naufragare la
Resistenza nelle parole encomiastiche. Basterà dire, che un tempo
lontano, c'erano dei giovani. E poi iniziare a raccontarla da quel
punto. La Storia.
(23 aprile 2012
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martedì 24 aprile 2012
Lettere dai partigiani: “Cari ragazzi, ricordatevi del 25 aprile”
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