Il «Manifesto per un soggetto politico nuovo» lascia volutamente
scoperta la questione del programma perché ne affida l’elaborazione al
processo di partecipazione democratica che intende innescare tanto
all’interno del «soggetto nuovo» quanto nelle sedi di democrazia sia
partecipata che rappresentativa che cerca di promuovere o rinnovare.
Tuttavia, poiché «non c’è più tempo» per gli indugi, il problema va
affrontato parallelamente al processo di costruzione delle nuove
istanze, tenendo presente che l’elaborazione di un programma è un
importante momento di autoformazione e di educazione alla cittadinanza.
E, quindi, di superamento della dicotomia dirigenti/diretti e anche –
forse – di quella privato/politico; ma è anche uno strumento di
promozione, di generalizzazione e di collegamento delle lotte che sono
all’origine, manifesta o latente, della domanda politica a cui il
«Manifesto» intende dare risposta.
Bene hanno fatto quindi Lucarelli e Mattei a dare inizio al dibattito sul programma (il manifesto del 17.04). Aggiungo questo mio contributo. Non ci troviamo di fronte a una «tabula rasa»: possiamo contare su una molteplicità di esperienze, di conflitti e di buone pratiche che hanno bisogno soprattutto di aver voce in un contesto più generale: cosa che finora è stata loro negata. Ma i nodi da sciogliere, o da non eludere, tra coloro che si riconoscono o si riconosceranno nel processo che il «Manifesto» intende promuovere sono molti.
Innanzitutto partecipazione vuol dire esercizio o rivendicazione di sovranità, in contrapposizione alla soggezione ai meccanismi di mercato e a quella corsa al ribasso delle condizioni di lavoro, del reddito, del welfare, della salute fisica e mentale che accompagna la globalizzazione. La strada per sottrarsi alla competizione senza tregua imposta dalla globalizzazione non è il protezionismo, bensì la riterritorializzazione dei processi economici: il riavvicinamento, sia fisico («km0») che organizzativo (accordi di programma per la condivisione di oneri e rischio) tra produttori e consumatori (o utilizzatori, o beneficiari) di beni e servizi. La sovranità praticata o rivendicata attraverso processi partecipativi non può né deve arrestarsi alle porte dell’impresa; ma anche in questo ambito non riguarda solo le maestranze nel loro conflitto latente o manifesto con la proprietà e il management, bensì l’intera comunità dei lavoratori, dei consumatori, degli utilizzatori dei beni e dei servizi prodotti, dei cittadini esposti agli impatti ambientali e sociali delle sue attività. La cosiddetta «responsabilità sociale dell’impresa» non può essere affare esclusivo dell’imprenditore o del management; deve essere il risultato di un coinvolgimento di tutti coloro che dell’impresa condividono sorti e conseguenze.
Esercizio di sovranità
Per questo la sovranità esercitata o rivendicata attraverso la democrazia partecipativa, innanzitutto a livello territoriale, attribuisce al governo locale due ruoli irrinunciabili. Primo, «aggregare» o sostenere «aggregazioni» di domanda per favorire il passaggio da modalità individuali di rapporto con il mercato a forme condivise di fruizione o di «consumo». Gli acquisti condivisi (l’esempio più semplice ne sono i Gas, Gruppi di acquisto solidale), oltre alla spinta verso una maggiore territorializzazione, sono anche un potente strumento per scardinare la separazione tra pubblico e privato, tra produzione e consumo, tra ruoli maschili e femminili tradizionalmente ricondotti alla differenza di genere. Secondo, «fare impresa» o, meglio, sostenere il «fare impresa» (sociale, cooperativa, individuale; o semplice associazione; o, quando è il caso, ente di diritto pubblico) della cittadinanza attiva: per sviluppare attività produttive e creare occupazione dove l’«iniziativa privata» non è presente o non interviene in maniera adeguata. La sacrosanta rivendicazione di un reddito di cittadinanza per tutti non può essere separata dalla possibilità di proporre, sottoporre a verifiche collettive e realizzare iniziative imprenditoriali finalizzate a integrare la dotazione produttiva e le opportunità occupazionali di un territorio; perché questa è una componente irrinunciabile della democrazia partecipativa.
Le priorità del processo di ri-territorializzazione sono l’esercizio della sovranità – o la lotta per conquistarla – in alcuni ambiti strategici: energetico, agroalimentare, nella gestione del territorio, in campo culturale e in quello finanziario. La sovranità di un territorio in campo energetico è un portato consequenziale della transizione da un’economia fondata sui combustibili fossili a un’economia basata sulle fonti rinnovabili e sull’efficienza energetica: del passaggio, cioè, dai grandi impianti centralizzati e accentrati in grandi corporation a sistemi energetici differenziati, complementari, distribuiti, decentrati e diffusi sul territorio; più tutto quello che produce efficienza nel campo dell’edilizia, della mobilità, dell’impiantistica, della gestione delle risorse e dei rifiuti e che richiede anch’esso forti livelli di decentramento e di differenziazione.
La sovranità alimentare è consustanziale alla transizione da un’agricoltura monocolturale, industrializzata, interamente basata su input di origine fossile e su un’industria agroalimentare accentrata a livello mondiale a un’agricoltura di prossimità, in rapporto diretto con i consumatori e le loro organizzazioni, ecologica, multicolturale e multifunzionale; e a un’industria agroalimentare ad essa integrata. La sovranità nella gestione del territorio è la rivalutazione dell’ambiente come bene comune, la cui salvaguardia, a beneficio delle generazioni attuali e future, deve coinvolgere ed essere affidata a chi su quel territorio vive e lavora: per preservarlo da usi che ne alterano o distruggono caratteristiche idrogeologiche e potenzialità agronomiche, depurative, estetiche, produttive e insediative. La sovranità culturale non significa chiusura del territorio e delle comunità che lo abitano in identità anacronistiche e fittizie, ma possibilità di ogni territorio di essere un centro di recepimento, di adattamento, di rielaborazione e di diffusione di culture e saperi che i mezzi di comunicazione hanno reso «universali» perché universalmente fruibili e che dovrebbero entrare a far parte di un sistema di educazione permanente. Sovranità finanziaria, infine, significa che ogni territorio deve disporre delle risorse finanziarie necessarie a sostenere il perseguimento di questi obiettivi.
Una transizione partecipata
Non so quanto un approccio del genere, che vuole essere solo un criterio di inquadramento dei problemi, sia condiviso; esso rimanda comunque ad alcuni nodi con cui deve confrontarsi qualsiasi altra impostazione programmatica. Innanzitutto, in un processo imperniato sulla partecipazione come fattore decisivo della transizione verso nuovi assetti sociali (equità) e ambientali (sostenibilità), la definizione di un programma non può limitarsi a un’enunciazione, per quanto articolata, di obiettivi. Centrale è il problema del «chi fa che cosa» ed è evidente – ma il problema non è certo solo italiano – che né alla classe imprenditoriale e manageriale, né alla «casta» politica attuali può essere demandato il compito di darvi attuazione (per questo mi lasciano perplesso le proposte di rifondare l’Iri o cose del genere). Il che non esclude, ma anzi richiede, che da quegli ambiti si riesca a recuperare il maggior numero possibile di soggetti disposti a collaborare con la transizione. Decisivi sono quindi la formazione e il consolidamento di una cittadinanza attiva. La democrazia partecipativa può e deve essere una «scuola» per questo; ma sedi di formazione molto più specifiche sono già in parte molte esperienze pratiche di altraeconomia, di imprese sociali, di gruppi di acquisto, di associazioni e comitati territoriali che si stanno moltiplicando in questi anni. D’altronde è evidente che un programma di respiro generale non può affermarsi, per ora, che «spezzettato» in una molteplicità di iniziative locali. Le situazioni di maggiore crisi – ambientale, territoriale, di governance, ma soprattutto occupazionale (e gli esempi sono infiniti) – sono per forza di cose centri di applicazione privilegiati per la messa a punto dell’articolazione locale di un programma generale, per la sua traduzione in piattaforme rivendicative e in proposte progettuali, per l’auto-formazione e la selezione del personale che dovrà farsene carico, per l’individuazione delle risorse locali su cui fare leva.
È ovvio che la prima e fondamentale fonte di risorse finanziarie deve essere l’azzeramento dell’evasione fiscale e delle spese in armamenti, interventi bellici, Grandi opere e Grandi eventi devastanti; e che altre risorse possono essere reperite nelle tasche dei ricchi (anche se inseguirle nei loro ricettacoli non è semplice). Ma il finanziamento del programma e dei progetti in cui il programma generale si articola richiede comunque che venga spezzata la duplice gabbia (locale ed europea) del patto di stabilità e dei suoi annessi: pareggio di bilancio e fiscal compact. La rinegoziazione del debito pubblico, sotto forma di moratoria o di default selettivo, è l’unica alternativa praticabile al cosiddetto «default disordinato»: cioè alla deriva, per niente graduale, verso il disastro a cui la politica europea sta condannando, uno dietro l’altro, tutti i paesi dell’Unione: partendo dalla Grecia; a seguire con Portogallo, Spagna e Italia; per poi passare alla Francia e arrivare al cuore del continente – la Germania; che non trarrà certo vantaggio dalla disfatta dei suoi partner – e produrre così una catastrofe di dimensioni planetarie; che è probabilmente molto più vicina di quanto ci facciano credere. Rivendicare, insieme agli altri paesi oggi sotto tiro, una rinegoziazione congiunta del debito è l’unico modo per contrastare il dogma del «non c’è alternativa»: che è il nocciolo delle politiche del governo Monti, dei partiti che lo sostengono, degli altri governi europei avviati verso il disastro. Misure di ordine finanziario a cui si fa spesso riferimento, come la separazione tra banca commerciale e banca d’affari (confinando eventualmente la seconda nel ruolo di bad bank da liquidare), la (ri)-nazionalizzazione dei principali istituti di credito (costava meno ricomprarli che cercare salvarli con i miliardi messi a loro disposizione dalla Bce), l’istituzione degli euro-bond (a condizione, però che finanzino progetti locali e non una nuova ondata di Grandi Opere devastanti), l’introduzione di monete a circolazione locale, parallele e non intercambiabili o sostitutive dell’euro (la cui scomparsa è l’ultima cosa da augurarsi) per alimentare scambi circoscritti a singoli territori, e altro ancora, sono tutte misure subordinate a una rinegoziazione del debito pubblico.
Governare la decrescita
«Ma il default, in qualsiasi forma, è un disastro», ripetono economisti di destra e sinistra. Così nessuno si occupa di come attenuarne gli effetti, se ci si va incontro comunque. Ma esiste, a breve o a lungo termine, un’alternativa? E se c’è, qual è? Una crescita del Pil sufficiente a far fronte agli interessi, al fiscal compact, alle continue ondate speculative, e «poi» anche al finanziamento di un nuovo sviluppo? E con quali prodotti, quale ricerca, quali mercati, quali forze imprenditoriali, quale governance? Su questo punto non ci sono risposte: come se il mercato fosse una macchina che ha solo bisogno di una spinta per rimettersi in moto; e poi andare avanti da sola (devastando, va da sé, l’ambiente). La verità è che l’alternativa tra crescita e decrescita è stata spazzata via dai fatti: la crescita non ci sarà più, per lo meno in questa parte del mondo (e sempre meno, e sempre più devastante, anche nelle altre). Non ci sarà alcun ritorno alla «normalità» di un tempo: perché il mondo di domani, come già quello di oggi, sarà in preda a sconvolgimenti continui, non solo economici e finanziari, ma soprattutto ambientali; e a rischi sempre maggiori di svolte autoritarie. Per questo «non c’è più tempo». Quanto alla decrescita, il problema non è come perseguirla, ma come governarla. E per farlo bisogna mettere al centro le cose che si vogliono e possono fare per stare tutti meglio; o meno peggio. Creando gli strumenti per deciderle e realizzarle insieme.
Bene hanno fatto quindi Lucarelli e Mattei a dare inizio al dibattito sul programma (il manifesto del 17.04). Aggiungo questo mio contributo. Non ci troviamo di fronte a una «tabula rasa»: possiamo contare su una molteplicità di esperienze, di conflitti e di buone pratiche che hanno bisogno soprattutto di aver voce in un contesto più generale: cosa che finora è stata loro negata. Ma i nodi da sciogliere, o da non eludere, tra coloro che si riconoscono o si riconosceranno nel processo che il «Manifesto» intende promuovere sono molti.
Innanzitutto partecipazione vuol dire esercizio o rivendicazione di sovranità, in contrapposizione alla soggezione ai meccanismi di mercato e a quella corsa al ribasso delle condizioni di lavoro, del reddito, del welfare, della salute fisica e mentale che accompagna la globalizzazione. La strada per sottrarsi alla competizione senza tregua imposta dalla globalizzazione non è il protezionismo, bensì la riterritorializzazione dei processi economici: il riavvicinamento, sia fisico («km0») che organizzativo (accordi di programma per la condivisione di oneri e rischio) tra produttori e consumatori (o utilizzatori, o beneficiari) di beni e servizi. La sovranità praticata o rivendicata attraverso processi partecipativi non può né deve arrestarsi alle porte dell’impresa; ma anche in questo ambito non riguarda solo le maestranze nel loro conflitto latente o manifesto con la proprietà e il management, bensì l’intera comunità dei lavoratori, dei consumatori, degli utilizzatori dei beni e dei servizi prodotti, dei cittadini esposti agli impatti ambientali e sociali delle sue attività. La cosiddetta «responsabilità sociale dell’impresa» non può essere affare esclusivo dell’imprenditore o del management; deve essere il risultato di un coinvolgimento di tutti coloro che dell’impresa condividono sorti e conseguenze.
Esercizio di sovranità
Per questo la sovranità esercitata o rivendicata attraverso la democrazia partecipativa, innanzitutto a livello territoriale, attribuisce al governo locale due ruoli irrinunciabili. Primo, «aggregare» o sostenere «aggregazioni» di domanda per favorire il passaggio da modalità individuali di rapporto con il mercato a forme condivise di fruizione o di «consumo». Gli acquisti condivisi (l’esempio più semplice ne sono i Gas, Gruppi di acquisto solidale), oltre alla spinta verso una maggiore territorializzazione, sono anche un potente strumento per scardinare la separazione tra pubblico e privato, tra produzione e consumo, tra ruoli maschili e femminili tradizionalmente ricondotti alla differenza di genere. Secondo, «fare impresa» o, meglio, sostenere il «fare impresa» (sociale, cooperativa, individuale; o semplice associazione; o, quando è il caso, ente di diritto pubblico) della cittadinanza attiva: per sviluppare attività produttive e creare occupazione dove l’«iniziativa privata» non è presente o non interviene in maniera adeguata. La sacrosanta rivendicazione di un reddito di cittadinanza per tutti non può essere separata dalla possibilità di proporre, sottoporre a verifiche collettive e realizzare iniziative imprenditoriali finalizzate a integrare la dotazione produttiva e le opportunità occupazionali di un territorio; perché questa è una componente irrinunciabile della democrazia partecipativa.
Le priorità del processo di ri-territorializzazione sono l’esercizio della sovranità – o la lotta per conquistarla – in alcuni ambiti strategici: energetico, agroalimentare, nella gestione del territorio, in campo culturale e in quello finanziario. La sovranità di un territorio in campo energetico è un portato consequenziale della transizione da un’economia fondata sui combustibili fossili a un’economia basata sulle fonti rinnovabili e sull’efficienza energetica: del passaggio, cioè, dai grandi impianti centralizzati e accentrati in grandi corporation a sistemi energetici differenziati, complementari, distribuiti, decentrati e diffusi sul territorio; più tutto quello che produce efficienza nel campo dell’edilizia, della mobilità, dell’impiantistica, della gestione delle risorse e dei rifiuti e che richiede anch’esso forti livelli di decentramento e di differenziazione.
La sovranità alimentare è consustanziale alla transizione da un’agricoltura monocolturale, industrializzata, interamente basata su input di origine fossile e su un’industria agroalimentare accentrata a livello mondiale a un’agricoltura di prossimità, in rapporto diretto con i consumatori e le loro organizzazioni, ecologica, multicolturale e multifunzionale; e a un’industria agroalimentare ad essa integrata. La sovranità nella gestione del territorio è la rivalutazione dell’ambiente come bene comune, la cui salvaguardia, a beneficio delle generazioni attuali e future, deve coinvolgere ed essere affidata a chi su quel territorio vive e lavora: per preservarlo da usi che ne alterano o distruggono caratteristiche idrogeologiche e potenzialità agronomiche, depurative, estetiche, produttive e insediative. La sovranità culturale non significa chiusura del territorio e delle comunità che lo abitano in identità anacronistiche e fittizie, ma possibilità di ogni territorio di essere un centro di recepimento, di adattamento, di rielaborazione e di diffusione di culture e saperi che i mezzi di comunicazione hanno reso «universali» perché universalmente fruibili e che dovrebbero entrare a far parte di un sistema di educazione permanente. Sovranità finanziaria, infine, significa che ogni territorio deve disporre delle risorse finanziarie necessarie a sostenere il perseguimento di questi obiettivi.
Una transizione partecipata
Non so quanto un approccio del genere, che vuole essere solo un criterio di inquadramento dei problemi, sia condiviso; esso rimanda comunque ad alcuni nodi con cui deve confrontarsi qualsiasi altra impostazione programmatica. Innanzitutto, in un processo imperniato sulla partecipazione come fattore decisivo della transizione verso nuovi assetti sociali (equità) e ambientali (sostenibilità), la definizione di un programma non può limitarsi a un’enunciazione, per quanto articolata, di obiettivi. Centrale è il problema del «chi fa che cosa» ed è evidente – ma il problema non è certo solo italiano – che né alla classe imprenditoriale e manageriale, né alla «casta» politica attuali può essere demandato il compito di darvi attuazione (per questo mi lasciano perplesso le proposte di rifondare l’Iri o cose del genere). Il che non esclude, ma anzi richiede, che da quegli ambiti si riesca a recuperare il maggior numero possibile di soggetti disposti a collaborare con la transizione. Decisivi sono quindi la formazione e il consolidamento di una cittadinanza attiva. La democrazia partecipativa può e deve essere una «scuola» per questo; ma sedi di formazione molto più specifiche sono già in parte molte esperienze pratiche di altraeconomia, di imprese sociali, di gruppi di acquisto, di associazioni e comitati territoriali che si stanno moltiplicando in questi anni. D’altronde è evidente che un programma di respiro generale non può affermarsi, per ora, che «spezzettato» in una molteplicità di iniziative locali. Le situazioni di maggiore crisi – ambientale, territoriale, di governance, ma soprattutto occupazionale (e gli esempi sono infiniti) – sono per forza di cose centri di applicazione privilegiati per la messa a punto dell’articolazione locale di un programma generale, per la sua traduzione in piattaforme rivendicative e in proposte progettuali, per l’auto-formazione e la selezione del personale che dovrà farsene carico, per l’individuazione delle risorse locali su cui fare leva.
È ovvio che la prima e fondamentale fonte di risorse finanziarie deve essere l’azzeramento dell’evasione fiscale e delle spese in armamenti, interventi bellici, Grandi opere e Grandi eventi devastanti; e che altre risorse possono essere reperite nelle tasche dei ricchi (anche se inseguirle nei loro ricettacoli non è semplice). Ma il finanziamento del programma e dei progetti in cui il programma generale si articola richiede comunque che venga spezzata la duplice gabbia (locale ed europea) del patto di stabilità e dei suoi annessi: pareggio di bilancio e fiscal compact. La rinegoziazione del debito pubblico, sotto forma di moratoria o di default selettivo, è l’unica alternativa praticabile al cosiddetto «default disordinato»: cioè alla deriva, per niente graduale, verso il disastro a cui la politica europea sta condannando, uno dietro l’altro, tutti i paesi dell’Unione: partendo dalla Grecia; a seguire con Portogallo, Spagna e Italia; per poi passare alla Francia e arrivare al cuore del continente – la Germania; che non trarrà certo vantaggio dalla disfatta dei suoi partner – e produrre così una catastrofe di dimensioni planetarie; che è probabilmente molto più vicina di quanto ci facciano credere. Rivendicare, insieme agli altri paesi oggi sotto tiro, una rinegoziazione congiunta del debito è l’unico modo per contrastare il dogma del «non c’è alternativa»: che è il nocciolo delle politiche del governo Monti, dei partiti che lo sostengono, degli altri governi europei avviati verso il disastro. Misure di ordine finanziario a cui si fa spesso riferimento, come la separazione tra banca commerciale e banca d’affari (confinando eventualmente la seconda nel ruolo di bad bank da liquidare), la (ri)-nazionalizzazione dei principali istituti di credito (costava meno ricomprarli che cercare salvarli con i miliardi messi a loro disposizione dalla Bce), l’istituzione degli euro-bond (a condizione, però che finanzino progetti locali e non una nuova ondata di Grandi Opere devastanti), l’introduzione di monete a circolazione locale, parallele e non intercambiabili o sostitutive dell’euro (la cui scomparsa è l’ultima cosa da augurarsi) per alimentare scambi circoscritti a singoli territori, e altro ancora, sono tutte misure subordinate a una rinegoziazione del debito pubblico.
Governare la decrescita
«Ma il default, in qualsiasi forma, è un disastro», ripetono economisti di destra e sinistra. Così nessuno si occupa di come attenuarne gli effetti, se ci si va incontro comunque. Ma esiste, a breve o a lungo termine, un’alternativa? E se c’è, qual è? Una crescita del Pil sufficiente a far fronte agli interessi, al fiscal compact, alle continue ondate speculative, e «poi» anche al finanziamento di un nuovo sviluppo? E con quali prodotti, quale ricerca, quali mercati, quali forze imprenditoriali, quale governance? Su questo punto non ci sono risposte: come se il mercato fosse una macchina che ha solo bisogno di una spinta per rimettersi in moto; e poi andare avanti da sola (devastando, va da sé, l’ambiente). La verità è che l’alternativa tra crescita e decrescita è stata spazzata via dai fatti: la crescita non ci sarà più, per lo meno in questa parte del mondo (e sempre meno, e sempre più devastante, anche nelle altre). Non ci sarà alcun ritorno alla «normalità» di un tempo: perché il mondo di domani, come già quello di oggi, sarà in preda a sconvolgimenti continui, non solo economici e finanziari, ma soprattutto ambientali; e a rischi sempre maggiori di svolte autoritarie. Per questo «non c’è più tempo». Quanto alla decrescita, il problema non è come perseguirla, ma come governarla. E per farlo bisogna mettere al centro le cose che si vogliono e possono fare per stare tutti meglio; o meno peggio. Creando gli strumenti per deciderle e realizzarle insieme.
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