giovedì 26 aprile 2012

Il Quebec diventa «bien commun»

Grande mobilitazione a Montreal per fermare i progetti di sfruttamento del famigerato Plan Nord. Cresce la rabbia contro quello che è stato definito un «Klondike del nuovo millennio» 

Fonte  il manifesto | Autore: Maria Teresa Carbone
La Giornata mondiale della Terra, nella sua declinazione italiana, è – con alcune eccezioni – una celebrazione piuttosto melensa, l’occasione per promuovere sagge scelte quotidiane, da alcuni definite pomposamente «salva-pianeta». Ma per rendersi conto che, se vogliamo lasciare ai nostri figli uno spazio decente in cui vivere, non è sufficiente chiudere il rubinetto mentre ci si lava i denti, basta guardare la manifestazione organizzata domenica scorsa a Montreal dal comitato 22 aprile (data appunto in cui cade l’Earth Day): nonostante la temperatura rigida, la gigantesca Place des Festivals – dove hanno sede alcune delle più importanti istituzioni culturali cittadine – si è riempita di una folla allegramente eterogenea per aspetto e età, ma compatta nella sua protesta contro le scelte ultra-neoliberiste del governo locale del Québec e di quello federale di Ottawa, e soprattutto contro il cosiddetto Plan Nord, sostenuto dal primo ministro quebecchese Jean Charest e dal suo Partito liberale.
Sui cartelli e sugli striscioni, quasi tutti fatti in casa con materiali di riciclo, il faccione belloccio e insipido di Charest completo di un bel naso rosso da pagliaccio o slogan molto diretti: «Chi semina vento, raccoglie tempesta», «Io partecipo, tu partecipi, lui/lei partecipa… loro profittano», «Gli eletti devono ascoltare gli elettori e non la sete di denaro del mondo finanziario». E infine, i più semplici e forse i più efficaci: Bien commun, bien propre (che, accanto al concetto ormai universale di «bene comune», gioca sul doppio significato di propre, «pulito» e «proprio») e – inalberato su una grande cornice vuota – Rien à vendre, «Nulla in vendita».
Ma in effetti, almeno secondo il Partito liberale, da vendere c’è moltissimo. Per capire la vastità del Plan Nord e del suo possibile impatto ambientale, è utile però, prima di tutto, mettere in fila alcuni dati. La regione interessata dal progetto – del quale si parla, senza esagerare, come di un «Klondike per il nuovo millennio» – ricopre oltre la metà del territorio del Québec, provincia canadese a maggioranza francofona, grande cinque volte l’Italia. Spazi immensi e per lo più disabitati: se la maggior parte dei sette milioni di quebecchesi si accalca – si fa per dire – a sud e in particolare lungo le rive del maestoso fiume San Lorenzo, qui vivono in tutto circa 120mila persone, di cui 35mila «autoctoni», indiani americani insomma, innu, cri, naskapi, inuit, giustamente preoccupati per il cataclisma che rischia di sconvolgere per sempre le loro terre e i loro ritmi di vita. Perché, qui sta il punto, il nord del Québec è ricchissimo di risorse minerarie, dall’uranio ai diamanti all’oro, e il Plan Nord consiste appunto nell’aprire le porte alle multinazionali del settore invitate a condurre «progetti di esplorazione e sfruttamento» in quello che sarà, secondo il primo ministro quebecchese, «il cantiere di una generazione».
Nel concreto, il governo del Québec ha stanziato l’anno scorso mezzo miliardo di dollari da utilizzare nei prossimi cinque anni per partecipare a progetti «strategici» realizzati da compagnie private: «Una buona occasione – ha detto Charest – per affacciarsi sull’industria senza diventare operatori minerari». E a giudicare dalle cifre più recenti, sembra che le multinazionali, alcune delle quali hanno base in Cina e in India, non aspettassero altro: attualmente gli investimenti sul Plan Nord superano i venti miliardi di dollari e non passa giorno senza che nuove proposte vengano sottoposte a Québec Investissement, la società incaricata di gestire il piano, tanto che alcune località della regione, come Fermont, sono già state travolte dal boom minerario, con conseguente crisi degli alloggi e dei servizi pubblici.
Il premier quebecchese si frega le mani, parlando sconsideratamente di «potenziale illimitato», ma le critiche gli piovono addosso da tutte le parti. Protestano gli ecologisti, ma anche economisti come Jacques Parizeau, ex primo ministro del Québec, che ha invitato il governo a mettere in piedi un meccanismo di reciprocità che imponga almeno alle imprese straniere di cedere alla provincia canadese maggiori partecipazioni sui loro introiti. La combinazione tra una vecchia legge mineraria e un sistema fiscale molto favorevole alle imprese fa sì infatti che di tutto questo gigantesco giro d’affari il Québec profitti solo molto marginalmente. Oltre al danno, la beffa: «L’anno scorso 10 compagnie su 19 attive nella regione non hanno versato un solo centesimo a noialtri cittadini che siamo i proprietari, e anche se il governo sostiene di avere aumentato le royalties, gli effetti sono ancora del tutto insufficienti», ha scritto in un piccolo pamphlet Dominic Champagne, intellettuale e uomo di teatro, ideatore della manifestazione di domenica.
Non solo: anche un altro dato su cui fa leva Charest per propagandare la bontà del Plan Nord, l’aumento di occupazione nel Québec settentrionale, si rivela zoppicante. Da un lato c’è chi fa notare come in diversi casi le multinazionali, soprattutto quelle cinesi, preferiscano impiegare manodopera “importata” dai loro paesi; dall’altro proprio il Programma per i lavoratori stranieri temporanei, avviato nella provincia canadese anglofona dell’Alberta in seguito al boom delle sabbie bituminose (altro esempio di sfruttamento del territorio con effetti disastrosi sull’ambiente), non rappresenta un esempio incoraggiante: oltre 50 mila lavoratori immigrati che compiono lavori durissimi per un salario minimo e possono essere cacciati da un momento all’altro, perché il loro permesso di soggiorno è legato al datore di lavoro.
Ma ovviamente è soprattutto sui possibili rischi ambientali – dall’inquinamento da uranio nelle acque dei fiumi dove oggi nuotano i salmoni alle conseguenze sulla vegetazione e sulla fauna delle megainfrastrutture stradali e delle grandi dighe di cui è prevista la costruzione – che si è insistito alla manifestazione del 22 aprile, anche perché nelle prospettive neoliberiste del governo quebecchese, e di quello canadese in generale, non c’è solo il Plan Nord. L’elenco in effetti è piuttosto inquietante: il Canada si è ritirato dal Protocollo di Kyoto per coprire politicamente lo sfruttamento delle sabbie bituminose nell’Alberta; nel golfo del San Lorenzo, da Anticosti a Gaspé, gli impianti petroliferi funzionano a pieno ritmo senza che sia del tutto chiaro a chi vadano i profitti di questi giacimenti il cui valore pare ammonti a diverse centinaia di miliardi di dollari («come si spiega che oggi si pompi il petrolio senza versare nessun dividendo allo stato? che i permessi di Anticosti siano stati ceduti in grande segretezza a privati senza rivelarne il prezzo?» ha scritto ancora Dominic Champagne nel suo pamphlet); infine, nella grande valle del San Lorenzo lo sfruttamento del gas di scisto è allo studio, ma i cittadini non hanno ancora trovato orecchie disposte ad ascoltarli, benché il governo abbia concesso senza preavviso alle imprese private il permesso di fare test in zone abitate e coltivate da secoli.
Se poi si aggiunge che, in contemporanea, il governo del Québec, come quello federale, è pronto a scucire incredibili quantità di denaro – proprio come dalle nostre parti – in armamenti, mentre – proprio come dalle nostre parti – taglia sulle spese sociali, la scuola e l’istruzione, si capisce perché alla manifestazione di domenica tantissime persone, non solo giovani, inalberassero sul bavero dei cappotti il quadratino rosso, simbolo degli studenti in lotta da mesi contro l’aumento vertiginoso delle tasse universitarie, e uno degli slogan ricorrenti sui cartelli dicesse semplicemente Je suis en colère, «Sono incazzato».
Se questa rabbia diffusa e trasversale basterà contro quello che è stato descritto come una nuova forma di colonialismo, è da vedere. «In Africa come in Canada le società private obbediscono a una medesima logica», ha scritto Alain Deneault in un saggio intitolato Noir Canada: «Si tratta di impossessarsi delle risorse di un paese per trarne profitti finanziari immensi in borsa e iscriverne infine gli attivi al sicuro nei paradisi fiscali».

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