Mentre le cronache ormai descrivono il crollo verticale delle vendite Fiat, «con le redazioni che cadono sorpresissime dal pero», Pino Cabras si diverte a mettere in fila due articoli del 2010, scritti a ridosso del referendum di Pomigliano, «quando Otelma Marchionne ci regalava la previsione sbruffona di fare 6 milioni di auto l’anno, se solo i sindacati si fossero tolti dal suo scroto manageriale». Il primo servizio, del “Corriere della Sera”, descrive le posizioni del Pd; il secondo è un editoriale di Giulietto Chiesa. «Potrete apprezzare quanto le posizioni del Pd avessero i piedi saldamente appoggiati sulle nuvole – scrive Cabras su “Megachip” – e quanto invece l’articolo di Chiesa sia confermato alla virgola col passare degli anni». Due anni dopo, mentre la Fiat affonda, il Pd “suicida” la Costituzione votando il pareggio di bilancio, e «tiene il sacco a Otelma Monti quando vaneggia di numeri futuri come il tasso di crescita del 2020».
Intervistato da Maria Teresa Meli per il “Corriere”, nell’agosto 2010 l’allora sindaco torinese Sergio Chiamparino – per inciso: massimo supporter politico dell’inutile linea Tav Torino-Lione – si dichiara “non pentito”, come irriducibile fan di Marchionne, persino dopo la lacerante discriminazione di Pomigliano contro gli operai Fiom: «Non capisco come il sindacato non possa cogliere l’occasione che viene offerta: credo che nel referendum il sì all’accordo vincerà e quindi penso che la Fiom dovrà ripensarci». Sin dall’avvento dell’era Marchionne, ricorda la Meli, persino la sinistra cosiddetta alternativa ha subìto il fascino dell’amministratore delegato della Fiat. Lo stesso Fausto Bertinotti ne tesseva le lodi, collocandolo tra i “borghesi buoni”, salvo poi cambiare idea, scandalizzato proprio dal braccio di ferro su Pomigliano: «Peggio di un ricatto, un atto di violenza», per cancellare il contratto nazionale di lavoro e costringere gli operai a dipendere dall’impresa: «Mi sbalordisco che i leader, i dirigenti e gli intellettuali di centrosinistra si mobilitino contro la legge-bavaglio delle intercettazioni e si disinteressino del fatto che questo accordo mette il bavaglio agli operai».
Nel Pd, invece – con la sola accezione di Sergio Cofferati – il fronte pro-Marchionne resta sulle sue posizioni, scrive la Meli nel 2010. Tanto che Pierluigi Bersani arriva a compiere una piccola svolta e prende le distanze dalla Fiom. Ma il più agguerrito dell’ala filo-Marchionne, scrive il “Corriere”, è il futuro sindaco torinese Piero Fassino, che da Chiamparino ha ereditato anche la sgradevole “crociata” contro la valle di Susa per imporre, senza spiegazioni credibili, una maxi-opera come la Torino-Lione. «Se Marchionne non avesse fatto tutto quel che ha fatto finora, non ci troveremmo qui a discutere di Fiat perché la Fiat non esisterebbe», dichiara Fassino, secondo cui la Fiom ha perso l’ultimo treno per salvare posti di lavoro nel settore auto, con l’assurda “pretesa” di tutelare i lavoratori anche di fronte al rischio che, semplicemente, il lavoro non ci sia più. L’ex leader dei Ds non si fa domande sullo stile padronale di Mister Fiat: se Marchionne insiste con la sua linea, vuol dire che ha ragione, punto e basta. Del resto, non è lui lo specialista?
La pensa esattamente all’opposto Giulietto Chiesa: «Di Pomigliano dovremo parlare a lungo. Anzi, più che parlarne, su questa trincea dovremo combattere. Perché questo è l’inizio di una svolta epocale, in cui chi comanda cerca di imporre le sue nuove regole alla società intera. Regole di una nuova guerra di classe. Regole di un potere che traballa, senza prospettive e destino, ma che per questo diventa feroce e pronto a tutto». Nell’editoriale “Le scimmie del capitalismo impazzito” – apparso il 30 giugno 2010 su “La Voce delle Voci” – Giulietto Chiesa entra di petto nel terreno minato della politica, quello nel quale i politici Chiamparino e Fassino evitano accuratamente di metter piede, preferendo limitarsi a parlare di automobili. «Noi, che stiamo dalla parte di chi subisce la violenza, abbiamo perduto: se ti costringono, con la pistola alla tempia, a scegliere tra il vivere e il morire, l’esito è scontato». Secondo Chiesa, però l’esito diventa meno scontato «se si misura l’enormità del ricatto e dell’offesa inferta ai lavoratori, se si misura il tradimento di quasi tutte le centrali sindacali; se si misura l’assenza, l’insulso balbettamento del Pd, quando non i decibel scomposti dei peana innalzati a Marchionne dai maggiordomi torinesi Fassino e Chiamparino».
Considerato l’unisono filo-padronale del mainstream televisivo e giornalistico, «allora il risultato ottenuto dalla caparbia resistenza della Fiom assume dimensioni straordinarie: che fanno pensare che la partita non è affatto perduta». Difatti: «La Fiat non è contenta del risultato e la Confindustria neppure: si aspettavano di stravincere e così non è stato». Un mezzo guaio, per loro che sognavano di estendere i contratti-capestro a tutte le fabbriche italiane. Certo, il sindacato si è presentato allo scontro diviso e disarmato: «Soprattutto perché, non avendo elaborato, pensato, immaginato, disegnato un programma di radicale riconversione industriale (l’unico in grado di difendere e rilanciare l’occupazione, ma in altra direzione), non ha potuto contrastare la mortifera atmosfera che promana da un’azienda, la Fiat, e da un settore, quello dell’auto, destinati ad affondare nella crisi. E in tempi rapidi».
Senza una chiara visione del disastro che incombe, continua Giulietto Chiesa sempre nel 2010, non si può proporre nessuna alternativa: «Senza aver capito che l’automobile non è più un futuro per nessuno, non si può nemmeno gridare a gran voce che la scimmia al comando è definitivamente impazzita. E che le sue promesse – per le quali la maggioranza, costretta, ha comunque votato – sono non soltanto cattive ma anche irrealizzabili». Ovvero: «La Fiat non produrrà comunque i sei milioni di vetture che ha detto di voler progettare. E, se li producesse, non li potrebbe vendere. Perché se comprimi il mercato della domanda (come sta avvenendo drammaticamente in tutte le direzioni) la tua offerta non troverà acquirenti. Quello che si vede è soltanto una cosa: un attacco strategico ai diritti, da usare subito». Pomigliano? Un “cadavere” da tenere in vita per qualche mese: «Quando comincerà a puzzare, verrà seppellito, esattamente come Termini Imerese, con la scusa che il mercato non tira. Amen».
In realtà, aggiunge Chiesa sempre nell’ormai lontano 2010, sta accadendo qualcosa di molto più importante: «Il capitalismo finanziario è senza una linea e una guida, e assomiglia sempre di più a una guerra per bande senza esclusione di colpi». E il capitalismo industriale? «E’ di fronte ai limiti dello sviluppo, e non ha più i margini per ripetere quello che ha fatto per quasi un secolo: cioè non può più mantenere un retroterra relativamente privilegiato, relativamente fidato. Il gigantesco surplus che realizzava sulle spalle del mondo povero veniva in parte erogato per tenere relativamente alto il tenore di vita delle classi lavoratrici dei paesi ricchi, soprattutto dei ceti medi». Il “privilegio” attenuava i conflitti sociali e garantiva un mercato interno: quello dei produttori, divenuti anche consumatori. Oggi il film sta finendo, siamo ai titoli di coda: addio ai lussi del consumo di massa spronato dalla pressione televisiva, nessuno potrà più costringere i lavoratori a indebitarsi per continuare a consumare.
E’ un cambio di marcia epocale, ma attenzione: «Non si potrà farlo lentamente», perché «la crisi arriva galoppando». Agire “lentamente” significherebbe usare l’arma lunga della seduzione, con cui milioni di persone sono state manipolate per generazioni: ma non c’è più tempo, e allora «bisognerà farlo con il bastone». Per questo, aggiunge Chiesa, «Marchionne c’è andato giù duro dopo essere andato a scuola negli Usa». Solo che, appunto, è più facile massacrare un pubblico lavoratore «che è stato in ginocchio per ottant’anni: non è detto che funzioni in un paese che ancora non è stato piegato del tutto». Per cui, l’operazione “fine dei consumi, fine dei diritti” non ha un esito scontato: «Pomigliano è un laboratorio sperimentale per vedere se ce la possono fare». Ciò rende inquieti i dominatori, aggiunge Chiesa, è il fatto che hanno il fiato corto e non dispongono di nessun progetto per il futuro: «Vanno a tentoni, anche se, avendo il bastone in mano, possono fare molti danni». Finale già scritto: cadranno. Solo che «corriamo il rischio di rimanere anche noi sotto le loro macerie».
C’è un solo modo per evitare il disastro: «Innalzare la bandiera della verità, che è la bandiera di una transizione consapevole verso la società che verrà dopo questa, ormai in agonia». Certo non ci si può aspettare che sia la Fiom a sobbarcarsi un’impresa così titanica, che sarebbe «un compito collettivo delle classi lavoratrici e dell’intellettualità italiana». Peccato però che il vero problema, e cioè la transizione – smettere di parlare di cose morte, come l’automobile, e pensare seriamente al futuro di tutti – non ha ancora la minima cittadinanza politica tra gli addetti ai lavori. Era il 2010, e Giulietto Chiesa proponeva antidoti. Primo, riuscire a vedere la profondità di una crisi storica, irreversibile: condizione essenziale per cominciare a fronteggiarla, nell’interesse dei più deboli. Secondo: «Liberarci di un’élite politica della sinistra e della democrazia che è ormai piuttosto simile a una cupola, complice del potere: con questi non si può andare da nessuna parte, per la semplice ragione che nemmeno loro sanno dove andare».
In altre parole: «La “nostra” transizione non la può guidare Marchionne. Se ne ha in mente una, come Pomigliano dimostra, quella non è la nostra. La transizione non può venire da Berlusconi, né da Bersani, né da Epifani. Loro sono gli organi della scimmia al comando dell’aereo che sta precipitando». La transizione, quella vera, «dobbiamo pensarla noi e organizzarci per imporla, con il sostegno della gente». Sono passati due anni, dice oggi Pino Cabras, e i ciechi di ieri non hanno fatto che peggiorare: «Gli inservienti dei poteri forti applaudono al chiaroveggente vampiro». Una questione di metodo, anche questa. «I servi svendono i nostri diritti e intanto si tengono a galla con i milioni di finanziamento pubblico, a dispetto della loro disastrosa e meschina incapacità». Noi, aggiunge Cabras, attivo nel laboratorio politico “Alternativa” fondato da Giulietto Chiesa, «per finanziare un’attività politica faticosa e controcorrente usiamo mezzi poverissimi. Ma se saremo in tanti faremo un’organizzazione capace di resistere e scacceremo i servi. Pensateci».
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