Fonte:
il manifesto
| Autore:
Daniela Preziosi
Ieri il primo appuntamento. Pochi big, molte idee, sette minuti a intervento. Si parla di metodo e programma
«Inizia un percorso». Gli organizzatori si raccomandano di non
scrivere molto più di questo. Perché l’appuntamento di oggi a Firenze,
la «partenza» del «non partito» – lanciato dal manifesto per i beni
comuni e per «un’altra politica nelle forme e nelle passioni» il 29
marzo scorso, e di cui si è discusso, e anche parecchio, sulle pagine
del manifesto e sulla rete – è una vera partenza al buio. Si annunciano
molti partecipanti, e infatti è stata prenotata una platea da 1500
persone. Ma la giornata di oggi è stata scandita con quattro interventi
iniziali, di quattro dei primi firmatari del manifesto, una sorta di
relazione introduttiva a quattro voci (Marco Revelli, Nicoletta Pirotta,
Claudio Giorno della Val Susa e Paul Ginsborg). In sala sarà
distribuito un testo di Luciano Gallino, intitolato provocatoriamente
«Come creare un milione di posti di lavoro».
Per il resto, si procede senza rete: sette minuti a intervento, ciascuno degli interventi potrà fare la sua proposta e indicare la direzione verso cui dovrebbe salpare la nave.
Non sono previste special guest: il sindaco De Magistris ha inviato gli auguri ma non ci sarà, Nichi Vendola lo stesso, per impegni di campagna elettorale, ma ci sarà il suo braccio destro Nicola Fratoianni. Ci sarà invece Paolo Ferrero, segretario del Prc. Ma per tutti varrà la regola dei sette minuti.
Di certo è che si discuterà di due prime «discriminanti», come è stato chiaro dai testi ricevuti in questi giorni da chi ha annunciato la propria partecipazione allegando una «motivazione»: il no alla riforma del pareggio in bilancio in costituzione e alla riforma del lavoro in discussione in parlamento. Per il momento sono gli unici due punti fermi di un «programma» che non c’è, ancora (l’assenza di progetto è una delle critiche mosse al non-partito da Rossana Rossanda) ed è tutto da discutere, e scrivere, e approfondire, nella successiva «due giorni» immaginata per giugno.
Il «progetto» sarà il core business della discussione. La differenza fra «bene comune» e «beni comuni», anche: anche perché è fresco di ieri l’intervento con cui Asor Rosa (sul manifesto) rintraccia la «dottrina del bene comune » di Tommaso d’Aquino nel «progetto» del soggetto politico nuovo.
E poi c’è il tema della forma del non-partito, e le questioni di «metodo». Perché il soggetto politico nuovo propone, almeno nelle intenzioni, «un salto di paradigma anche negli strumenti organizzativi», spiega Marco Revelli, «che non possono essere quelli tradizionali – centralistici, verticali e gerarchici – delle burocrazie dominanti, ma che sappiano praticare, all’opposto, l’orizzontalità della rete, la comunicazione decentrata, l’eguaglianza nella parola e nell’ascolto tra diversi. Tutto questo vuol dire, come ci è stato contestato, rimuovere il “conflitto sociale”? Cancellare le “forme di organizzazione” in nome di uno spontaneismo un po’ anarchico? O non significa, piuttosto, ripensare il conflitto – e insieme l’organizzazione – nelle forme in cui ce lo ripropone quello che Gallino ha definito il finanz-capitalismo (che non cancella le classi sociali, ma che le ridisegna in forma del tutto inedita)? D’altra parte, che ne penseremmo se qualcuno, dopo il 1848, avesse continuato a proporre i vecchi club del 1789, come strumenti della lotta politica e la jacquerie contadina come via all’emancipazione?».
Last but not least, la questione del nome. C’è persino chi chiede di andare avanti prima di decidere. Insieme ai criteri per nominare un coordinamento nazionale, anche il nome si decide oggi, verrà scelto dalla platea da una rosa di quattro selezionata sul sito. Sono: Alba, Alleanza lavoro benicomuni ambiente; Lavoro e beni comuni; alternativa democratica; e infine Italia Bene Comune.
Quest’ultimo non passerebbe inosservato. Perché è anche il nome che Bersani ha scelto per la campagna delle amministrative del suo Pd. Facendo per l’occasione stampare migliaia di felpe blu con slogan più tanto di collo e polsini tricolori. Un’appropriazione indebita per il partito che fino all’ultimo non ha voluto schierarsi apertamente con i referendum per l’acqua pubblica, quelli che poi hanno portato al voto 27 milioni di persone. E un partito che ha votato due decreti Monti per le liberalizzazioni che i referendari hanno definito «tentativi sfrontati di negare il risultato di quei referendum». Salvo poi utilizzarne il logo del «bene comune» per marketing elettorale, dopo aver scoperto che funziona, ora che il vento è cambiato.
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