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Per quanto tempo ancora si parlerà dell’omicidio di Giulio
Regeni? Sicuramente fino a quando i caparbi genitori saranno in vita. Finché gli
amici e il movimento spontaneo formatosi in questi anni sul suo orrendo caso ne
sventoleranno ancora gli striscioni gialli, che anche amministrazioni pubbliche
determinate hanno esposto davanti a sedi istituzionali. Uno striscione magari
ritoccato, perché aveva nel tempo smarrito uno dei due princìpi che si
rivendica per quello strazio: giustizia. Chiedere giustizia è un atto
profondamente politico. Domanda allo Stato egiziano quell’approccio che non ha
mai manifestato davanti all’oscura vicenda. Non saranno i comuni d’Italia, né Amnesty
International fattasi promotrice della campagna, a riuscire a inchiodare il
presidente al Sisi di fronte a responsabilità dei suoi apparati di sicurezza
che risultano implicati nel rapimento, nell’efferata tortura, nell’assassinio
del ricercatore friulano. Direttamente neppure
i governi italiani che in questi tre anni si sono succeduti possono a imporre alcunché
agli omologhi d’oltre Mediterraneo. Chiedere giustizia sì. Possono, anzi
debbono.
Lo potevano i premier Renzi e Gentiloni che, invece,
dopo un inziale azione chiarificatrice hanno abbandonato ogni volontà di difesa
anche della memoria d’un cittadino che ha finito i suoi giorni seviziato da
sgherri di Stato. Lo può l’attuale presidente del Consiglio Conte che, invece,
non s’occupa affatto della questione, al più delegando alla terza carica dello
Stato, Roberto Fico, un appello ai Parlamenti d’Europa “per trovare la verità”. Meglio di niente, ma praticamente niente. Perché
non è su questo terreno che l’Egitto risponde. Anche l’interruzione dei
rapporti fra il Parlamento italiano ed egiziano (il dittatore Sisi conserva
ancora il simulacro della democrazia rappresentativa) serve a poco. Diverso
sarebbe l’interruzione dei rapporti diplomatici, durata un batter di ciglia nel
2016, e ovviamente ancor più il blocco di quelli commerciali. Ma tutto questo i
governi italiani di prima, col Pd, e d’ora, con Cinquestelle e Lega, non lo
fanno, perché Confindustria preme e gli interessi dei giganti dell’economia
come l’Eni ancor più. Forse non si tratta neppure di don Abbondio della
politica nostrana, che “il coraggio non
se lo posson dare”.
I nostri politici sono cinici, di tante questioni se ne fregano. Valutano esclusivamente quelle che hanno un ritorno: elettorale, d’immagine, d’interesse, per quanto sull’interesse privato confezionano abitini pubblici, lo mostrano i favori fra i leghisti ladroni della prim’ora (il clan Bossi) e l’attuale leadership d’un Carroccio che dalla Padania viaggia per tutta la penisola. E guarda ovviamente all’estero. A quelle terre dove imprese grandi e piccine della cosiddetta ‘Italia del fare’ fanno i propri affari. E’ qui che i legami fra Italia ed Egitto si saldano ancor più, anziché fermarsi per chiarire ragioni di Stato sull’omicidio d’un italiano nella capitale d’un Paese sedicente amico, da parte di poliziotti e agenti segreti egiziani che eseguivano ordini provenienti da apparati nazionali. Non solo le Istituzioni, i politici d’Egitto stanno impedendo da tre anni lo sviluppo d’indagini, la stessa magistratura locale non collabora con quella italiana e la ostacola come denunciato dai procuratori romani. Questo è il regime di al Sisi, che i Regeni d’Egitto li ha iniziati a far sparire, incarcerare, uccidere da molto tempo prima del nostro concittadino. E prosegue nell’opera. Se questo è un governo amico, chiediamo ai nostri governanti quale verità, quale giustizia si potranno ottenere.
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