martedì 29 gennaio 2019

Industria zootecnica e riscaldamento globale


 
 dinamopress Danilo Gatto
Di fronte al fenomeno del riscaldamento globale, il dibattito si è spesso concentrato sulle responsabilità che hanno nelle emissioni di gas serra le industrie dei trasporti e la produzione dei combustibili fossili. Raramente, invece, si discute dell’enorme impatto del settore zootecnico
Nuovi dati sullo scioglimento dei ghiacciai sono ora disponibili. Uno studio condotto da un team di scienziati capeggiati da Eric Rignot dell’Università della California, dimostra come le attuali conoscenze in merito al fenomeno dello scioglimento dei ghiacciai dell’Antartide potrebbero rivelarsi del tutto parziali. Lo studio riporta, infatti, come non soltanto la piattaforma di ghiaccio occidentale, a lungo considerata la più instabile, continui a sciogliersi a velocità molto elevata a causa di una corrente tiepida che scivola al di sotto dello strato glaciale rendendolo estremamente vulnerabile; accanto a essa, la piattaforma di ghiaccio orientale, fino a poco tempo fa ritenuta relativamente al riparo dal riscaldamento globale grazie alle basse temperature e a una base per lo più al di sopra del livello del mare, pare stia andando incontro a un processo di scioglimento estremamente veloce.
La prestigiosa rivista americana Science conferma: «lo studio stabilisce che, al momento, l’Antartide manda nel mare, ogni anno, sei volte più ghiaccio rispetto a quanto ne mandava nel 1979. Nel corso dei 40 anni considerati nello studio, l’Antartide ha aggiunto circa 13.8 millimetri al livello del mare, per la maggior parte provenienti dalla piattaforma occidentale. Ma quella orientale, in particolare l’area conosciuta come Wilkes Land, è stata responsabile di più del 30% del contributo dell’Antartide all’innalzamento del livello del mare». È lo stesso autore dello studio a confermare che «una volta destabilizzati questi ghiacciai, non esiste alcun pulsante rosso per fermare il processo» che vede nell’irruzione di acque calde al di sotto della piattaforma di ghiaccio orientale, irruzione dovuta all’intensificarsi dei venti polari come contrasto alle temperature provenienti dal resto del mondo, una delle cause principali. Il timore realistico dell’incremento di questo scontro tra differenti temperature non ha però evitato la ritardata ricerca di soluzioni in merito alla riduzione di emissione dei gas serra, principali responsabili del surriscaldamento globale e, quindi, delle temperature sempre più calde che vanno a scontrarsi con quelle polari dell’Antartide.
Ma se sono oramai note a tutti le responsabilità delle emissioni di gas serra per quanto riguarda il cambiamento climatico, meno note sono le attività specifiche che ne stanno alla base e che, troppo spesso, vengono frettolosamente derubricate a generiche “attività umane”. Tra queste vi sono sicuramente l’industria dei trasporti che, stando all’Agenzia europea dell’ambiente, è responsabile di più di un quinto delle emissioni totali di gas serra, e la produzione e l’utilizzo di combustibili fossili quali, ad esempio, petrolio e carbone. Raramente, però, si ragiona su un’altra fonte di inquinamento che, per gas serra prodotti, è paragonabile alle precedenti: il settore zootecnico. La produzione di alimenti animali, stando allo storico rapporto FAO del 2006 Livestock’s long shadow, sviluppato e integrato in studi successivi, è la causa di circa il 18% delle emissioni di gas serra, sostanzialmente un quinto del totale. E le cifre sono destinate a ingrandirsi: è la stessa FAO a mettere in guardia da un incremento di circa il 70% della richiesta di prodotti animali entro il 2050, anno in cui la popolazione mondiale potrebbe arrivare attorno ai dieci miliardi di individui.
Ma la produzione di carne e derivati non è responsabile soltanto delle emissioni di gas serra generate dai processi digestivi degli animali allevati e dal protossido di azoto liberato nel corso della decomposizione del letame: l’inquinamento delle acque a causa di rifiuti animali, antibiotici, ormoni e pesticidi, e la deforestazione di intere aree verdi per far spazio a pascoli e coltivazioni di mangimi, aggravano i numeri precedenti, rendendo potenzialmente l’industria zootecnica la più letale, oltre che per i circa 50 miliardi di animali allevati annualmente, anche per l’equilibrio ambientale. In particolare, la deforestazione gioca un ruolo cruciale: l’erosione del suolo e l’impoverimento della biodiversità rischiano di accelerare ancor più il processo di innalzamento delle temperature globali e ciò a causa della scomparsa degli agenti naturali preposti alla preservazione e al mantenimento degli equilibri ecosistemici. Il WWF stima, ad esempio, che circa 1 milione e 600 mila ettari di foresta amazzonica, su un totale di 650 milioni di ettari di superficie, vengono distrutti annualmente a causa della deforestazione. Negli ultimi 50 anni si sarebbe perso circa un quinto dell’intera regione. Tra le cause maggiori vi è, oltre alla distruzione di intere aree per far spazio ai pascoli, la produzione di soia destinata ai mangimi degli animali allevati; infatti, circa il 75% della soia prodotta nel mondo è destinata a tale uso. Ciò pone problemi, oltre che ecologici, anche squisitamente politici: in primis, la progressiva sottrazione delle terre alle popolazioni che abitano le zone interessate, vedi, tra gli altri, il caso dei Mapuche della Patagonia privati dei loro territori dal gruppo Benetton che, in quelle stesse terre, alleva circa 300 mila capi di bestiame in vista della produzione di lana e carne; e poi, in un mondo in cui le disuguaglianze aumentano a dismisura (nel 2017 circa 821 milioni di persone vivevano in stato di denutrizione), l’impiego di enormi quantità di vegetali per sfamare animali da cui produrre carne destinata al consumo dei paesi ricchi del mondo, è l’ennesimo schiaffo in faccia a una povertà che non accenna minimamente ad arrestarsi. Politiche di redistribuzione della ricchezza che ignorano questo fattore non sono altro che l’ulteriore tentativo di garantire un’enorme ricchezza a chi è già spropositatamente ricco, negandola a chi è povero. E ciò è ancor più grave quando, già da tempo, è riconosciuta unanimemente la perfetta compatibilità tra l’organismo umano e una dieta vegetale ben pianificata, in grado di garantire un’adeguata nutrizione a tutti e una riduzione drastica di emissioni e inquinamento.
Il motivo alla base di mancati interventi politici nel settore zootecnico, al fine di ridurre l’impatto ambientale e ridistribuire la ricchezza prodotta, sta nell’enorme quantità di profitti che quest’industria garantisce: soltanto negli Stati Uniti, come conferma il rapporto Economic Analysis of Animal Agriculture, il comparto zootecnico ha registrato introiti attorno ai 21 miliardi di dollari nel periodo che va dal 2004 al 2014. Numeri sicuramente destinati a crescere visto l’incremento della domanda proveniente dai cosiddetti paesi in via di sviluppo.
Le soluzioni prospettate dalla COP21 di Parigi, nel dicembre 2015, al fine di ridurre le emissioni mantenendo l’innalzamento climatico al di sotto dei 2°C, potrebbero rivelarsi tutt’altro che sufficienti se non verrà preso in seria considerazione l’impatto ambientale dell’intero settore zootecnico. A quel punto, come dice Rignot, non ci sarebbe davvero nessun pulsante rosso da premere per interrompere il processo.

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