martedì 29 gennaio 2019

Una vergogna chiamata Pillon .

Il disegno di legge sull’affido dei figli si accanisce sui più deboli: i bambini e le donne. Riservando privilegi ai benestanti.


Una vergogna chiamata Pillon Risulta piuttosto bizzarro trovare citata nella relazione illustrativa del disegno di legge Pillon una frase di Arturo Carlo Jemolo in cui la famiglia viene definitiva come «un’isola che il diritto può solo lambire», quando tutto il disegno di legge è improntato su di una regolamentazione rigida e standardizzata di uno dei momenti più delicati della vita familiare come quella della fine del rapporto coniugale. I 24 articoli del testo sono un crescendo di imposizioni indirizzate a limitare la libertà decisionale degli ex coniugi rispetto a quanto riguarda la gestione dei propri figli, relegati a una posizione passiva e declassati nella tutela dei loro diritti che il legislatore del 1975 aveva posto al centro della normativa della famiglia definita per appunto puerocentrica. Benché il testo sia stato presentato come un intervento finalizzato a esaltare il concetto della co-genitorialità in una prospettiva paritaria nei tempi e nelle modalità di accudimento dei figli, all’atto pratico si rivela uno strumento eversivo dei principi che hanno guidato il legislatore e in netta contraddizione rispetto a quanto affermato dagli studi più accreditati sul trattamento del conflitto familiare.


La gestione della separazione coniugale viene delegata a soggetti terzi senza alcuna valutazione rispetto alla peculiarità che ogni vicenda mostra. Non si riconosce dignità a una delle esperienze più dolorose e traumatiche, in cui ciascuno scopre nell’altro un altro uomo e un’altra donna. Tutto questo provoca un dolore radicale. La separazione è accompagnata da una molteplicità di emozioni che vengono raramente compresi dall’ambiente familiare, dove rischiano di sfociare in rabbia, cattiveria e altri atteggiamenti distruttivi a discapito in primo luogo dei figli.


La mediazione imposta dall’alto
In questo contesto di forte emotività il ddl Pillon obbliga i genitori di figli minorenni ad attivare un procedimento di mediazione familiare «che li possa aiutare a trovare un accordo nell’interesse dei minori». Il tutto si tradurrebbe nell’imporre a due persone in guerra, nel momento più acceso del conflitto, a riattivare un dialogo per costruire un armonico rapporto. Il testo introduce il tentativo di mediazione come condizione di procedibilità, addebitando il costo del procedimento, a esclusione del primo incontro, totalmente a carico delle parti, per le quali non viene prevista alcuna possibilità di accedere al gratuito patrocinio in caso di difficoltà economiche. Tale previsione è in netto contrasto con quanto sostenuto dagli operatori e studiosi di mediazione che si oppongono a ogni forma di “mediazione coatta”, considerata una contraddizione in termini, data l’assoluta incompatibilità tra obbligo e mediazione.

La riattivazione del dialogo mediante l’esperienza mediatoria deve essere il frutto di un processo interiore delle parti.

L’imposizione rischia di burocratizzare le relazioni, deresponsabilizzando, passivizzando e patologizzando le parti. Il problema non è tanto il raggiungimento di accordi o provvedimenti che possono anche formalmente maturare, ma l’effettiva esecuzione e la durata nel tempo delle decisioni raggiunte. In assenza di un consenso e di un’ intesa autentica, l’accordo raggiunto rischia di inserirsi in una contrattazione in cui le dinamiche relazionali potrebbero indurre il coniuge più debole, non necessariamente la moglie, ad accettare condizioni sfavorevoli. Per di più, la Convenzione di Istanbul alla quale l’Italia ha aderito nel 2014, raccomanda di proibire la mediazione in caso di violenza.

Eppure, in un momento storico in cui il nostro Paese assiste a una recrudescenza delle violenze in ambito familiare, Pillon si sforza di negare la violenza domestica. Si premura di reprimere e sanzionare i casi di denunce false da parte delle donne, ma minimizza la violenza maschile contro le donne nelle relazioni di intimità. La degrada a “conflittualità”. E la parola violenza compare una sola volta nel testo, indefinita.


Uguaglianza solo apparente
Non solo nelle statistiche ma anche «nella mia esperienza pluriennale di avvocata a difesa di donne che hanno subito violenza domestica», dice Maria Virgilio, detta Milli, presidente della associazione GIUdIT, Giuriste d’Italia, «sono decisamente minoritari i casi in cui le donne denunciano falsamente. Semmai è il contrario: anche quando le donne che mi chiedono di sostenerle nella separazione assumono - dopo averci molto riflettuto - la decisione di interrompere, con il ricorso al giudice civile, una relazione violenta, anche in quei casi scelgono di non esternare al giudice gli atti di violenza subita. Pur di separarsi e porre fine alla relazione violenta. Di quella sessuale non vogliono parlare. Di quella fisica non hanno chiesto la documentazione. Quella psicologica e quella economica fanno fatica a riconoscerla e a nominarla come tale. Eppure l’iniziativa giudiziale delle separazioni è prevalente da parte delle donne. Il disegno di legge Pillon le intimidisce, le tacita, le ostacola, soprattutto nei casi di contesti violenti sia verso la partner sia verso i figli/e».

In un crescendo di imposizioni il ddl Pillon prevede una spartizione “salomonica” della vita privata e sociale dei figli minorenni, senza alcun limite di età e quindi anche lattanti, tra i due genitori chiamati a trascorrere almeno 12 giorni al mese con i propri figli, in casa distinte, e a occuparsi direttamente del loro mantenimento. Una previsione che risulta totalmente scardinata dalla quotidianità con la quale si scontreranno tutti i protagonisti della vicenda separativa. In primo luogo i figli. A differenza dei genitori, subiscono sempre la separazione coniugale senza vederne un beneficio per sé e, molto spesso, senza comprenderne le ragioni. Per quante rassicurazioni si possano fornire, la vita dei figli cambia radicalmente. Per questo il loro diritto a ritrovare un equilibrio ed una serenità interrotta deve prevalere su quello dei genitori, sulle loro paure e sulle loro rivendicazioni. Chiedere a bambini di sommare al trauma della separazione anche la perdita di ogni riferimento, cambiando casa ogni 12 giorni, abitudini alimentari, modalità di accudimento, equivarrebbe a post-porre ogni loro interesse, alle esigenze organizzative dei genitori. E se i genitori vivono in località lontane (basti pesare ai quartieri delle grandi città), o devono cambiare città per motivi lavorativi? Cosa ne sarebbe del prioritario interesse del minore al centro di innumerevoli pronunce della Corte di Cassazione chiamata a definire le modalità di assegnazione della casa coniugale?

Le previsioni contenute nel ddl Pillon, tra l’altro, basano la previsione di una co-genitorialità su di una inverosimile uguaglianza tra i coniugi i quali, seppur subiscano entrambi un impoverimento a seguito di un incremento delle spese della gestione quotidiana, hanno diverse opportunità di accesso al mercato del lavoro, in presenza di elevati tassi di disoccupazione femminile e di un radicato gap salariale a danno delle lavoratrici, e quindi delle mamme, spesso costrette ad abbandonare il proprio lavoro per potere accudire i figli. Di fatto nel disegno di legge Pillon vengono introdotti parametri standardizzati in una omologazione dei diversi vissuti separativi.

Un’ideologia miserabile e patriarcale
L’avvocata Maria Teresa Semeraro, una delle maggiori esperte della materia, ritiene che «le previsioni del mantenimento diretto da parte di ciascun genitore e della suddivisione delle voci di spesa violino la norma vigente che prevede che figli/e debbano continuare a godere dello stesso tenore di vita goduto durante la convivenza con entrambi i loro genitori. La realistica disparità delle capacità economiche tra i genitori in favore del padre, così come risulta statisticamente nella maggior parte delle famiglie, comporta che secondo il ddl Pillon figli/e di genitori non più conviventi potrebbero essere abbigliati con le migliori griffe, vivere per quindici giorni al mese in una più che confortevole casa e negli altri quindici giorni mangiare “pane e cipolle” e dormire in letti a castello».

Il ddl Pillon, dice l’avvocata Semeraro, «fa propria l’ideologia di un piccolo gruppo di miserevoli uomini che non accettano la gestione di una co-genitorialità tra due soggetti titolari di uguali diritti e che credono che per essere buoni padri occorra ripristinare, attraverso il potere economico, la patria potestà e la potestà maritale abolita nel 1975 con la legge di riforma del diritto di famiglia».

Solo alcune queste, delle tante criticità di questo disegno di legge che non introduce strumenti di ausilio per la gestione della vicenda separativa, ma la rende una spiaggia per i pochi eletti con disponibilità economiche o un miraggio per i tanti coniugi che si vedranno ingabbiati in relazioni familiari conflittuali se non violente, riducendo l’accudimento dei figli ad una pianificazione di tempi e costi. Un gioco al massacro, in cui tutti perdono e nulla si salva. Come nulla è salvabile del ddl Pillon.

(Professoressa Associata in Sociologia del diritto, Università di Bologna)

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