lunedì 28 gennaio 2019

Dimon a Davos: “il mercato ha fallito”

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Diciamo la verità: tutti abbiamo sempre desiderato poter mettere il naso nel vertice di Davos, organizzato ogni anni dalle più grandi multinazionali globali per riunire decisori politici delle principali potenze, amministratori delegati, finanzieri di altissimo livello. Quel che i potenti si dicono tra loro – non in segreto, ma comunque sotto il filtro del discorso pubblico soppesato parola per parola – resta una delle chiavi decisive per capire l’evoluzione del sistema globale nel suo complesso. Non perché sia “verità rivelata”, ma perché esprime la loro sintesi interpretativa di una massa di dati e interessi confliggenti che a tutti noi, in buona parte, resta inattingibile.

Ci aiuta ancora una volta Guido Salerno Aletta, editorialista di Milano Finanza e altre testate specializzate, che un occhio disincantato è riuscito a buttarcelo.
Oltre al “clima” di disarmo che traspira dal suo resoconto – l’immagine della Merkel solitaria che si aggira senza trovare interlocutori di peso almeno pari, quest’anno, dice quasi tutto – ci ha molto colpito il discorso del “compagno” Jamie Dimon.
Per chi non lo conosce: Dimon è presidente e amministratore delegato di JPMorgan Chase, la più grande delle quattro maggiori banche d’affari americane; dunque della più grande banca privata del pianeta. Avete capito bene: è proprio la banca che – solo sei anni fa – produceva uno studio in cui si consigliava ai paesi europei di “sbarazzarsi di quelle costituzioni antifasciste e socialiste” che impedivano la crescita economica…
Per la precisione, quel rapporto diceva: “Quando la crisi è iniziata era diffusa l’idea che questi limiti intrinseci avessero natura prettamente economica: debito pubblico troppo alto, problemi legati ai mutui e alle banche, tassi di cambio reali non convergenti, e varie rigidità strutturali. Ma col tempo è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica. I sistemi politici dei paesi del sud, e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea.”
Il discorso, in particolare, veniva concentrato sui paesi dell’Europa meridionale: I sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo.
I sistemi politici e costituzionali del sud presentano tipicamente le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; e la licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo.”
Consigli” che l’Unione Europea aveva già raccolto da almeno un decennio, ma che da allora sono stati trasformati in “riforme” a passo di carica. Con qualche inciampo significativo, come quello che va registrando l’ex banchiere Emmanuel Macron in Francia…
Tranquilli, non siamo impazziti e Jamie Dimon non è passato nelle fila della Rivoluzione. Però il riassunto del suo discorso a Davos è un certificato di morte per il modello economico che proprio lui e i suoi colleghi – finanzieri globali e multinazionali – hanno voluto, elaborato, articolato e imposto a forza di attacchi speculativi durissimi contro chi si attardava nell’eseguire le loro indicazioni. E’ insomma gente come Dimon che indirizza – per peso specifico e esperienza secolare – “i mercati”.
Parlando da statunitense, ha dovuto registrare che il sistema formativo nella prima superpotenza non funziona più. L’istruzione pubblica è stata fatta collassare intenzionalmente, favorendo scuole e università private dalle rette così alte che molti studenti (e le loro famiglie) sno costretti a sottoscrivere dei mutui che li inchiodano praticamente per tutta la vita. Il successo di questa strategia è stata la fine dell’istruzione in generale, negli sa. Restano un pugno di università private di altissimo livello (nomi famosi come Yale, Harvard, Mit, Princeton, e pochissime altre) che però proprio non possono – per selezione censitaria all’ingresso e capacità di accogliere grandi numeri di allievi – “i milioni di laureati che servono a far progredire l’economia con innovazioni continue, come invece avviene in Cina o in Giappone.”
Ma nella realtà la tendenza è ancora più drammatica, perché “E’ in atto, ormai da anni un reverse-drain-brain: arrivano tanti giovani stranieri, volenterosi e determinati, che studiano sodo, che fanno qualche anno di training e che poi tornano a casa. Le crisi del 2001 e del 2008 hanno indotto centinaia di migliaia di persone, giovani e meno giovani, specialmente indiani e cinesi, a lasciare gli Usa.”
La privatizzazione della conoscenza di alto livello ha prodotto il risultato opposto a quello desiderato: invece di attrarre e trattenere le più promettenti menti del pianeta, consolidando così nel futuro il “primato americano”, forma competenze che servono ad altri paesi; in primo luogo quelle della potenze asiatiche in ascesa. Una genialata tipicamente Usa…
La soluzione è teoricamente semplice (“aridatece la scuola pubblicaaaa!!”), ma praticamente molto problematica, perché un sistema di istruzione di buon livello si costruisce nell’arco dei decenni, con investimenti massicci e soprattutto duraturi, buoni salari per i docenti, gratuità (o addirittura sostegno economico) per i figli dei ceti popolari, ecc. Dunque, anche volendo invertire subito la rotta (cosa che Trump non sembra proprio intenzionato a fare), i risultati si vedrebbero tra almeno 20 anni, quando il sorpasso cinese – oggi appena iniziato – sarà bell’e concluso.
Discorso simile, ma forse ancora più rivelatore, la sanità (“la sanità privata americana assorbe circa il doppio delle risorse di quelle europee, gestite dal sistema pubblico su base universalistica”). Un imbecille formato alla Bocconi direbbe “ma dov’è il problema? E’ spesa privata, mica pubblica…” Uno che conosce discretamente il sistema neoliberista, come Dimon, gli sta dicendo che la spesa sanitaria di un paese è comunque Prodotto interno lordo che se ne va in cure invece che in altri scopi produttivi; e non fa alcuna differenza se la spesa è pubblica o privata. E’ spesa, comunque. Anche qui, soluzione teorica semplice (ricostruire la sanità pubblica, aumentando le tasse a imprese e grandi possidenti beneficati da 40 anni di flat tax), ma praticamente e politicamente difficilissima, se non altro perché la quantità di personale medico di livello medio-alto occorrente richiede tempi di formazione molto lunghi.
Idem per il problema dei problemi di qualsiasi società tecnologicamente avanzata: le grandi infrastrutture di trasporto, servizio e comunicazione (“basta vedere che cosa succede in California, dove la gestione privata delle reti elettriche e del sistema idrico è ormai al collasso”). Il confronto con la Cina è in questo caso particolarmente impietoso, vista la dimensione ciclopica del progetto Via della Seta e delle risorse qui investite.
Quanto basta per far dire, senza allungare troppo l’elenco dei settori strategici in difficoltà, “Siamo di fronte ad un clamoroso fallimento del mercato. A partire dagli anni ’80 l’America si è deindustrializzata a favore del Messico; poi, dal 2000, a favore della Cina. Ha abbandonato la manifattura per la FIRE Economy (Finance, Insurance, Real Estate), mentre la tecnologia informatica sviluppata nella Silicon Valley non compensa la perdita di posti di lavoro del Continente intero”.
Il che riporta, quasi incidentalmente, al problema del rapporto tra potere economico-politico e popolazioni, al ruolo svolto dall’automazione e robotizzazione della produzione (sia fisica che gestionale-amministrativa), alle enormi masse di disoccupati in crescita in un sistema che – soprattutto nelle aree a capitalismo “maturo”, Usa e Europa – diventano elementi di instabilità a tutto campo (sia politico – i “populismi” non sono nati dalle infatuazioni ideologiche – che economico, visto che si tratta di “domanda potenziale ma non solvibile”, quindi una strozzatura del mercato che frena a sua volta la crescita).
Come si vede, senza magari volerlo, il discorso di Dimon ci consegna la più radicale e devastante critica del modello neoliberista. E una quantità di argomenti sconfinato a favore dell’”economia mista”. Che non è la “rivoluzione”, ma un altro tipo di capitalismo. E, se dobbiamo prendere sul serio l’analisi di un premio Nobel come Paul Krugman, si tratta di un capitalismo che almeno per il 30% deve essere “in mano pubblica”.
Ossia un capitalismo di stato.
Adesso capiamo meglio la solitudine inconsolabile della Merkel a Davos, madrina di un ordoliberismo che è andato per almeno tre decenni nella direzione opposta partendo invece da una solida base di quel tipo. Il “fallimento del mercato” è anche un fallimento della classe politica che ha obbedito ciecamente alle indicazioni dei “mercati”. Ma mentre una nuova classe politica si può in fondo trovare abbastanza rapidamente (anni comunque, non certo i tempi rapidi dei cialtroni usa-e-getta che vediamo all’opera in Italia dalla “seconda repubblica” a oggi), un altro sistema economico richiede tempi lunghi e risorse rilevanti. Soprattutto, richiede n altro modo di pensare…
Discorso che vale dunque sia per gli Stati Uniti che per l’Unione Europea, templi che si vanno desertificando di quello che fin qui era apparso come l’implacabile “pensiero unico” (ther’is no altenative).
E’ tempo di alternative, possibilmente radicali, o altrimenti inefficaci. Per questo, per una volta, ci permettiamo di chiamae Dimon “compagno”. Per uno come lui non ci può essere insulto più sanguinoso…
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L’America? A me pare da tempo un po’ declinante. Parola di Jamie Dimon

Guido Salerno Aletta
Quest’anno, a Davos, sembrava di stare in un grande magazzino nella settimana dei saldi di fine stagione. Vetrine un po’ disadorne, senza i modelli di alta moda sfoggiati in passato. Sugli scaffali, gli evergreen: i capi che non possono mancare nel guardaroba. Tutto già visto e rivisto. I venditori non convincono più tanto: il pubblico, più confuso che persuaso, è incuriosito dai prodotti nuovi.
E’ in tono minore, l’edizione di quest’anno del World Economic Forum: sono mancate le sciabolate di Donald Trump, che l’anno scorso aveva maramaldeggiato promettendo sfracelli globali, pur di riportare l’America ai fasti del passato; ed ancor più non c’è stato nessuno capace di incarnare il potere vero, come fece l’anno ancora precedente il Presidente cinese Xi Jinping, paladino della libertà dei mercati, che si era imposto con il carisma di chi incarna la millenaria storia cinese.
Assente per via dello shutdown, Trump è stato rappresentato dal Segretario di Stato Mike Pompeo. Neppure il Presidente francese Emmanuel Macron si è fatto vivo, anche perché alla vigilia aveva già ricevuto a Parigi la gran parte dei vertici delle aziende presenti a Davos. Frastornati per le continue manifestazioni dei Gilets Jaunes, e chissà se davvero rassicurati dalle parole del Presidente francese, che ha confermato loro che il passo delle riforme continuerà ad essere celere e deciso, palesando che il Debat national, avviato dal Presidente per suscitare il dibattito con la cittadinanza e le istituzioni locali, non è altro che cellophane.
Solo il fantasma di Theresa May, la Premier britannica alle prese con il caos politico ed istituzionale londinese, che rende impossibile prevedere l’esito della Brexit.
E’ rimasta sola, la Cancelliera Angela Merkel, a fare da testimonial della stagione della globalizzazione che fu trionfante, e del multilateralismo che ora viene strattonato: nessuna nazione può far da sé, ha ribadito. Parole che sono volteggiate senza rete, visto che il G7 è in frantumi, l’America di Trump si è ritirata un po’ da tutti gli Accordi recenti: dal COP 21 sull’ambiente, dal TPP in materia di liberalizzazione del commercio, dal JCPOA sul nucleare iraniano; impone dazi unilaterali al mondo intero sull’acciaio e l’alluminio, per difendere gli interessi strategici statunitensi, ed insiste sulla Cina per forzare la mano nei colloqui in corso per riequilibrare i saldi commerciali, sempre peggiori.
Tra un’America che va per conto suo, un’Inghilterra che non sa dove andare, un’Europa che sbarella tra sovranismi e populismi, laFrancia e la Germania che si arroccano in una riedizione del Sacro Romano Impero Germanico con l’Accordo di cooperazione ed integrazione appena firmato ad Aquisgrana, ben poco entusiasmo ha suscitato la passerella dei capitani d’industria e dei finanzieri: tutti alle prese con troppi interrogativi e sempre meno certezze.
Perché, in fondo, oltre alle sopraggiunte inquietudini politiche, ormai è venuta meno la copertura che negli anni scorsi era stata assicurata dalla politica monetaria delle Banche centrali di Stati Uniti ed Unione Europea. Un diluvio di liquidità che ha ampiamente compensato, con l’enorme crescita del volume del debito, la repressione finanziaria derivante dalla riduzione dei tassi. E, purtroppo, senza neppure raggiungere l’obiettivo di una inflazione stabile dei prezzi al consumo, vicina ma non superiore al 2%, secondo il mantra ossessivo di questi anni.
Tre sono stati gli interventi più eterodossi, che hanno rappresentato in modo esemplare le tensioni globali, americane, cinesi ed europee: quelli di Jamie Dimon, Ceo di JPMorgan; Jack Ma, Ceo di Alibaba; Giuseppe Conte, il nostro Presidente del Consiglio dei Ministri.
Jamie Dimon ha detto finalmente la verità sul declino degli Usa: l’istruzione è una vera e propria emergenza nazionale, così come l’assistenza sanitaria e le infrastrutture avrebbero bisogno di altrettanti interventi radicali. Non per caso, si tratta di investimenti in beni pubblici e di consumi sociali, che sono stati sempre più trascurati.
In America, il settore pubblico si è ritratto dal settore della formazione di massa, sia professionale che superiore, e non bastano un pugno di università di fama mondiale a garantire la formazione dei milioni di laureati che servono a far progredire l’economia con innovazioni continue, come invece avviene in Cina o in Giappone. Gli immigrati che hanno conseguito una elevata professionalità, formati nelle università e poi addestrati nelle imprese americane, tornano sempre più spesso nei Paesi di origine, dove mettono a frutto ciò che hanno imparato.
E’ in atto, ormai da anni un reverse-drain-brain: arrivano tanti giovani stranieri, volenterosi e determinati, che studiano sodo, che fanno qualche anno di training e che poi tornano a casa. Le crisi del 2001 e del 2008 hanno indotto centinaia di migliaia di persone, giovani e meno giovani, specialmente indiani e cinesi, a lasciare gli Usa.
Inutile poi parlare del costo esorbitante della sanità privata americana, che assorbe circa il doppio delle risorse di quelle europee, gestite dal sistema pubblico su base universalistica. Dell’abbandono delle infrastrutture basta vedere che cosa succede in California, dove la gestione privata delle reti elettriche e del sistema idrico è ormai al collasso.
Siamo di fronte ad un clamoroso fallimento del mercato. A partire dagli anni ’80 l’America si è deindustrializzata a favore del Messico; poi, dal 2000, a favore della Cina. Ha abbandonato la manifattura per la FIRE Economy (Finance, Insurance, Real Estate), mentre la tecnologia informatica sviluppata nella Silicon Valley non compensa la perdita di posti di lavoro del Continente intero.
Jack Ma ha tracciato un quadro ancor più preoccupante: a suo avviso, la rivoluzione tecnologica in corso, con la completa digitalizzazione dei dati e le innovazioni determinate dall’intelligenza artificiale, può innescare un nuovo conflitto mondiale, così come successe in passato. Anche allora, furono scatenati le rivoluzioni tecnologiche: davano luogo a nuovi assetti di potere economico e quindi politico, su base internazionale, e turbavano così profondamente gli equilibri da rendere inevitabile il conflitto armato.
Giuseppe Conte, alla guida di un governo di coalizione che in Italia riassume le tendenze populiste e sovraniste che agitano l’Europa, si è soffermato su due questioni: l’euro e la politica del rigore fiscale; la riduzione del ruolo dello Stato nell’economia a favore dell’iniziativa privata che richiede grande flessibilità nel mercato del lavoro. Si è trattato di promesse non mantenute, in entrambi i casi.
Una moneta forte, con una bassa inflazione, non solo non ha aiutato la crescita, ma ha fatto incrementare il rapporto debito/pil nonostante la disciplina fiscale che l’Italia ha rispettato per decenni, con la spesa primaria, quella al netto degli interessi, sempre inferiore al gettito fiscale.
Non basta: il ritrarsi della Stato dalla produzione diretta di beni e servizi, in favore di un sistema di mercato che sarebbe stato più efficiente, e le liberalizzazioni del mercato del lavoro e dei salari, hanno comportato una riduzione drastica del livello di benessere. Anche le classi medie, che si erano affrancate dal timore della povertà, sono cadute nuovamente nel gorgo dell’instabilità. Conte ha concluso auspicando un cambiamento radicale: “un’Europa del popolo, fatta dal popolo per il popolo”. Davvero inusitato, per un consesso in cui il potere è del Denaro, fatto dal Denaro per il Denaro.
Nessuna certezza per il futuro, quest’anno, a Davos. Si guarda al passato per meglio interpretare il futuro: un inedito spiraglio di saggezza, mentre soffia forte il vento del cambiamento.

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