Perché è così decisivo stare con o contro Maduro?
Qualcuno resuscita il termine idiota di “campismo”, come se ci trovassimo ancora nel mondo diviso in due, quello precedente al 1989 e alla caduta del Muro, che decretò in pochi mesi la fine del “campo socialista”. Quando, insomma, si era obbligati a difendere “uno dei nostri” anche se tutti sapevano che era quasi indifendibile.
A quel tempo funzionava così da entrambe le parti, e resta nella storia la battuta di un presidente statunitense tra i più rispettati – il “democratico” Franklin Delano Roosevelt – a proposito del dittatore nicaraguense Anastasio Somoza: «Sarà pure un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana». Ci pensarono poi i Sandinisti, nel 1979, a metter fine a quella dittatura, mica i “democratici” che dicevano di voler diffondere la democrazia…
Oggi, nel mondo attraversato dalla fine della “globalizzazione” e dall’emergere di più poli in conflitto tra loro (Usa, Unione Europea, Cina, Russia, quelli principali), ognuno con caratteristiche diverse ma ben piantati nel modo di produzione capitalistico, rispolverare “i campi contrapposti” come sistemi alternativi non ha molto senso.
Anche se, nel caso del Venezuela e in generale dei paesi dell’Alba Latino-Americana, aggrediti in questi ultimi anni dagli Usa con golpe suave (Brasile, Argentina, Ecuador, Paraguay) oppure classicamente militari (Honduras), in effetti c’entra molto un senso di vicinanza politico-sociale con paesi e governi che hanno cominciato a mettere in atto riforma politiche ed economiche di stampo nettamente progressista.
Comunque, non è questo il punto. Anche chi non condivide in toto le politiche di Chavez e Maduro, o non ama il socialismo bolivariano, deve interrogarsi sul vero problema in ballo in questo autentico assalto occidentale al governo venezuelano per imporre un regime change con qualsiasi mezzo. Anche con la guerra.
Sul fatto che Maduro abbia ottenuto un’ampia maggioranza nelle ultime elezioni presidenziali, a maggio 2018, ci sono pochi dubbi. Che elezioni siano state regolari, anche (si vota in elettronico presentando l’impronta digitale, quindi non si possono fare facilmente brogli di dimensioni significative; ed in ogni caso la “certificazione” sulla correttezza è arrivata anche da una commissione internazionale presieduta da Jimmy Carter (ex presidente degli Stati Uniti).
Dunque la domanda è: un popolo può scegliersi o no il governo che preferisce? Può decidere o no di usare le proprie risorse nel modo che crede migliore?
Insomma: esiste ancora o no il “diritto di autodeterminazione dei popoli?”
Se sì, bisogna lasciare in pace il Venezuela. Anche abolendo parecchie sanzioni economiche, perché è indecente strangolare economicamente un paese e poi accusare il suo governo di non essere in grado di garantire il benessere di quel popolo…
Se no, allora si fiancheggiano i golpisti. Che non sono soltanto i minoritari complici interni, da Guaidò in giù, ma soprattutto gli Stati Uniti (indimenticabile l’appunto di Bolton sullo spostamento di truppe dall’Afghanistan alla Colombia, per preparare l’invasione…).
La domanda sull’autodeterminazione dei popoli vale infatti anche per noi, che vediamo da molti anni come sia impossibile – dentro l’Unione Europea, non “in Europa” – decidere liberamente sulle politiche economiche, industriali, monetarie, sociali.
Lo diciamo da internazionalisti impenitenti, da sempre al fianco di tutti i popoli in lotta per liberarsi:
«E allora, non chiedere mai per chi suoni la campana. Essa suona per te». Questa volta dal Venezuela.
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