Lino Banfi è stato protagonista di un grande film sul lavoro precario e le politiche attive: Vieni avanti cretino.
Film comico, ma per nulla scemo. «La vostra soddisfazione, è il nostro
miglior premio»: la frase che rapprende il cambio d’epoca nella
fabbrica, dalla catena di montaggio alla piena automazione cibernetica.
Certo, lo ricordiamo tutti per la commedia sexy: la fabbrica dei
fantasmi sessuali dei maschi, che Berlusconi come nessun altro fece sua –
per denaro e per la sua vita senile. Ma la nomina nella commissione
italiana per l’Unesco, resa pubblica da Di Maio lo scorso lunedì mentre
presentava – non è stato un caso – il reddito di cittadinanza, non ha
che fare col suo passato: si tratta del suo presente televisivo, il
nonno degli italici telespettatori.
Sì, quel maschio che inseguiva imbranato Edwige Fenech, mentre nel paese divampavano femministe e autonomi, è invecchiato. Come tutti i vecchi italianissimi, ha la pensione (rigorosamente calcolata col metodo retributivo) con la quale elargisce la “paghetta” a figli e nipoti. Chiunque sa che i soldi, se donati, impegnano: d’improvviso ci si accorge che l’adolescenza non finisce mai e, se non finisce l’adolescenza, neanche la famiglia può tramontare. Tanto, la precarietà del lavoro rende sempre giovani. Giovani o giovanili, perennemente figli o nipoti, sempre incapaci di osare.
Vista così, non ci sono dubbi: nessuno meglio di Lino Banfi può rappresentare l’Italia all’Unesco.
È di questi giorni pure la bella inchiesta sull’università italiana e il suo fallimento, a firma di Milena Gabanelli e Orsola Riva. Cosa ci dicono i numeri? Ciò che ha gridato l’Onda studentesca, tra il 2008 e il 2010. Il numero chiuso, introdotto nel ‘99 dal Governo D’Alema, si è ormai esteso a macchia d’olio: 2.827 corsi di su 4.560 non hanno più l’accesso libero. Dal 2008 a oggi il numero dei docenti, causa il blocco del turnover e il taglio drastico dei finanziamenti pubblici, si è ridotto di 10.000 unità. Sì, ma lo urlammo nel silenzio allora, quella italiana è l’università più povera d’Europa: spendiamo solo lo 0,9 per cento del PIL, contro l’1,2 della Germania, l’1,3 della Spagna, l’1,5 della Francia, l’1,9 della Gran Bretagna. Non stupisce dunque che nel Bel Paese abbiamo il più basso numero di laureati d’Europa. Nonostante questo, e nonostante dal 2008 a oggi 2 milioni di giovani formati abbiano lasciato l’Italia, mezzo milione di giovani sono sovra-istruiti per il lavoro che precariamente svolgono – ciò grazie allo spirito di rapina o al nanismo delle imprese.
Tra la sconfitta dell’Onda – sotto i colpi di Berlusconi e i parlamentari comprati, della complicità PD con lo sfondamento forzista, dell’immobilismo della CGIL – e l’Italia di Lino Banfi c’è un legame strettissimo. La generazione sconfitta, quando ha potuto, ha mollato sprezzante il paese. Chi nella palude è rimasto intrappolato, non fa altro che lavorare per vivacchiare. Vota poco o quasi mai. Spesso adolescente senza tregua, “sgraffigna” qui e là e difficilmente alza la testa contro il datore di lavoro – ha il palato troppo fino per cedere alla durezza dello scontro sindacale. Certo, c’è chi continua a lottare e lo farà senza sosta negli anni bui che incombono, e le donne giovanissime e meno giovani indicano la direzione, ma si tratta di cogliere una tendenza, guardando anche – senza mai farsi spaventare – i grandi numeri. L’Italia è il paese più vecchio d’Europa, il secondo più vecchio del mondo. Trionfano Banfi e Salvini perché sono loro che parlano alle pance pasciute degli anziani con la pensione, gli elettori appunto. Alle pance, soprattutto, dei maschi che invecchiano, mentre giovani e “negri” sono quelli che vanno deportati d’improvviso, resi schiavi nel basso Lazio o lasciati morire al largo della Libia.
Paese fallito, società vecchia, virilità perduta in cerca di riscatto. In una parola: barbarie. Che a breve, approvata la legge sulla legittima difesa (d’accordo un italiano su due), sarà anche armata. La finzione antropologica di Thomas Hobbes cala la maschera e si mostra per quello che è: frutto maturo del capitalismo avanzato, homo homini lupus.
Ma anche oggi, come fece Walter Benjamin mentre il nazismo trionfava, dobbiamo conquistare un concetto positivo di barbarie o, ma è la stessa cosa, di povertà (d’esperienza). «Ricominciare da capo; iniziare dal Nuovo; farcela con il Poco»: proprio nel momento in cui il pericolo è massimo, i barbari sanno costruire, inventare, tessere e rattoppare, comporre e desiderare. L’autoritarismo italico, tra l’altro, al momento non è un argine reazionario così solido da impedire ai gilet gialli di mettere a soqquadro la Francia. Di più: non fermerà i piccoli grandi conflitti del lavoro, nonostante la passività non sia irrilevante; di certo non bloccherà la marea femminista; non potrà frenare l’impeto di mettersi ancora in mare, per interrompere il massacro mediterraneo. Ma ai poveri – e tra loro spiccano anche quegli anziani che, pur di ricominciare a lottare, hanno imparato a dimenticare e a non prendersi troppo sul serio – spetta un doppio movimento: «fare piazza pulita», come solo i barbari sanno fare; non smettere mai di costruire istituzioni inedite. Tra queste, pensando a quanto ci dicono i numeri sull’università, sempre più decisive quelle del sapere. Veramente «implacabili» saranno coloro che avranno la capacità di trasformare la conoscenza in un’ascia da guerra.
Sì, quel maschio che inseguiva imbranato Edwige Fenech, mentre nel paese divampavano femministe e autonomi, è invecchiato. Come tutti i vecchi italianissimi, ha la pensione (rigorosamente calcolata col metodo retributivo) con la quale elargisce la “paghetta” a figli e nipoti. Chiunque sa che i soldi, se donati, impegnano: d’improvviso ci si accorge che l’adolescenza non finisce mai e, se non finisce l’adolescenza, neanche la famiglia può tramontare. Tanto, la precarietà del lavoro rende sempre giovani. Giovani o giovanili, perennemente figli o nipoti, sempre incapaci di osare.
Vista così, non ci sono dubbi: nessuno meglio di Lino Banfi può rappresentare l’Italia all’Unesco.
È di questi giorni pure la bella inchiesta sull’università italiana e il suo fallimento, a firma di Milena Gabanelli e Orsola Riva. Cosa ci dicono i numeri? Ciò che ha gridato l’Onda studentesca, tra il 2008 e il 2010. Il numero chiuso, introdotto nel ‘99 dal Governo D’Alema, si è ormai esteso a macchia d’olio: 2.827 corsi di su 4.560 non hanno più l’accesso libero. Dal 2008 a oggi il numero dei docenti, causa il blocco del turnover e il taglio drastico dei finanziamenti pubblici, si è ridotto di 10.000 unità. Sì, ma lo urlammo nel silenzio allora, quella italiana è l’università più povera d’Europa: spendiamo solo lo 0,9 per cento del PIL, contro l’1,2 della Germania, l’1,3 della Spagna, l’1,5 della Francia, l’1,9 della Gran Bretagna. Non stupisce dunque che nel Bel Paese abbiamo il più basso numero di laureati d’Europa. Nonostante questo, e nonostante dal 2008 a oggi 2 milioni di giovani formati abbiano lasciato l’Italia, mezzo milione di giovani sono sovra-istruiti per il lavoro che precariamente svolgono – ciò grazie allo spirito di rapina o al nanismo delle imprese.
Tra la sconfitta dell’Onda – sotto i colpi di Berlusconi e i parlamentari comprati, della complicità PD con lo sfondamento forzista, dell’immobilismo della CGIL – e l’Italia di Lino Banfi c’è un legame strettissimo. La generazione sconfitta, quando ha potuto, ha mollato sprezzante il paese. Chi nella palude è rimasto intrappolato, non fa altro che lavorare per vivacchiare. Vota poco o quasi mai. Spesso adolescente senza tregua, “sgraffigna” qui e là e difficilmente alza la testa contro il datore di lavoro – ha il palato troppo fino per cedere alla durezza dello scontro sindacale. Certo, c’è chi continua a lottare e lo farà senza sosta negli anni bui che incombono, e le donne giovanissime e meno giovani indicano la direzione, ma si tratta di cogliere una tendenza, guardando anche – senza mai farsi spaventare – i grandi numeri. L’Italia è il paese più vecchio d’Europa, il secondo più vecchio del mondo. Trionfano Banfi e Salvini perché sono loro che parlano alle pance pasciute degli anziani con la pensione, gli elettori appunto. Alle pance, soprattutto, dei maschi che invecchiano, mentre giovani e “negri” sono quelli che vanno deportati d’improvviso, resi schiavi nel basso Lazio o lasciati morire al largo della Libia.
Paese fallito, società vecchia, virilità perduta in cerca di riscatto. In una parola: barbarie. Che a breve, approvata la legge sulla legittima difesa (d’accordo un italiano su due), sarà anche armata. La finzione antropologica di Thomas Hobbes cala la maschera e si mostra per quello che è: frutto maturo del capitalismo avanzato, homo homini lupus.
Ma anche oggi, come fece Walter Benjamin mentre il nazismo trionfava, dobbiamo conquistare un concetto positivo di barbarie o, ma è la stessa cosa, di povertà (d’esperienza). «Ricominciare da capo; iniziare dal Nuovo; farcela con il Poco»: proprio nel momento in cui il pericolo è massimo, i barbari sanno costruire, inventare, tessere e rattoppare, comporre e desiderare. L’autoritarismo italico, tra l’altro, al momento non è un argine reazionario così solido da impedire ai gilet gialli di mettere a soqquadro la Francia. Di più: non fermerà i piccoli grandi conflitti del lavoro, nonostante la passività non sia irrilevante; di certo non bloccherà la marea femminista; non potrà frenare l’impeto di mettersi ancora in mare, per interrompere il massacro mediterraneo. Ma ai poveri – e tra loro spiccano anche quegli anziani che, pur di ricominciare a lottare, hanno imparato a dimenticare e a non prendersi troppo sul serio – spetta un doppio movimento: «fare piazza pulita», come solo i barbari sanno fare; non smettere mai di costruire istituzioni inedite. Tra queste, pensando a quanto ci dicono i numeri sull’università, sempre più decisive quelle del sapere. Veramente «implacabili» saranno coloro che avranno la capacità di trasformare la conoscenza in un’ascia da guerra.
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