global project
Appunti dei comitati veneti verso l'assemblea nazionale di Roma del 26 gennaio.
Il
cambiamento climatico è un oggetto sfuggente. Sappiamo che esiste
grazie ai dati scientifici che ne mostrano la gravità, i report
ufficiali evocano scenari apocalittici, ma rimane un fenomeno di cui non
è possibile fare esperienza individuale. I migranti climatici si
sommano a quelli in marcia a causa di guerre e violenze. Siamo sempre
più soggetti a fenomeni metereologici estremi, ma il dubbio rimane
. Come
è possibile essere certi che una specifica anomalia metereologica,
oppure una specifica ondata migratoria, siano davvero ascrivibili all
crisi climatica? Non solo. Il climate change produce un effetto
paradossale, più la scienza del genere umano affina i suoi strumenti di
calcolo e di previsione, più esso viene messo a fuoco, meno ci si sente
socialmente in grado di dare una risposta radicale al problema. Ci si
chiede come sia possibile (lo dice il noto rapporto dell'IPCC) ridurre le emissioni nette di CO2 a zero entro il 2050,
Qualcuno
ha sottolineato come il cambiamento climatico sposti la posta in gioco
dei movimenti, prima ogni lotta prevedeva la sostanza storica come
sfondo immutabile della propria vicenda, oggi è quella stessa sostanza
storica ad essere la posta in gioco.
Eppure
non è più tempo di attardarsi. Forse tocca aprire la finestra,
scrollarsi di dosso lo scoraggiamento e guardare oltre con uno sguardo
nuovo. Là fuori, nel mondo come in Italia, grandi "fette" di società
cominciano, al netto della teorica inafferrabilità del fenomeno, a
metterlo a fuoco tra le proprie coordinate culturali e ad avvertirne la
materialità nel presente. Non ci riferiamo esclusivamente ai milioni di
persone che, dal Sud del Mondo, sono costrette a migrare da terre
prosciugate dal colonialismo e poi colpite da siccità e
desertificazioni, ma pensiamo all'Europa e dunque all'Italia, dove un
modello dissennato di sviluppo ci costringe a convivere con livelli
sempre più intollerabili di inquinamento dell'aria e dell'acqua, ad
assistere alla recidiva ricerca di nuove fonti di combustibile fossile
(o alla costruzione di infrastrutture per la loro erogazione), alla
deforestazione e al consumo di suolo che compromettono la capacità dei
territori di rispondere con efficacia ai fenomeni di una crisi climatica
che è già qui. A ben vedere, tutti questi elementi citati sono
consustanziali ad un modello di sviluppo che il nostro paese conosce
bene, quello delle grandi opere. Anche a casa nostra si è dispiegato un
capitalismo estrattivo e di rapina. La risorsa da sfruttare è il
territorio, ovvero quella "rete della vita" che tiene insieme natura
umana e non umana. Pensiamo al TAV della Val di Susa. Il progetto
dell'opera dichiara, ad un tempo, guerra all' ambiente, al legame
sociale e all distribuzione equa della ricchezza. Se la costruzione del
TAV dovesse andare a pieno regime, ciò implicherebbe la distruzione di
un ecosistema montano da sommarsi alle incalcolabili emissioni di un
cantiere che si prevede almeno ventennale. Nel frattempo, già oggi, la
forma sociale che i valligiani hanno sedimentato storicamente e
rafforzato attorno alla lotta, è messa a dura prova dalla repressione,
mentre fondi pubblici che potrebbero essere investiti altrimenti,
principalmente nella messa in sicurezza del territorio attraverso opere
diffuse e mirate, nella la scuola o nella sanità, sono invece dirottati
verso aziende dal dubbio codice etico e verso un'opera del tutto
insostenibile.
L'idea
ottocentesca di progresso (certamente superata, ma mai estinta), quando
il prestigio si misurava in metri, tonnellate e acri in una gara al
gigantismo tra stati-nazione, è ancora la matrice culturale alla base
del successo della grande opera: gigante, faraonica, ma soprattutto
strutturalmente irreversibile.
In
Italia, imprenditori ed industriali hanno così messo a punto un sistema
di sicuro guadagno (dove c'è poca innovazione di impresa e tanto
parassitismo), la politica istituzionale, dal canto suo, (oltre alla
tentazione delle tangenti) continua a puntare al prestigio derivante
dalla grande opera.
Questo
è il mix letale all'opera nel MOSE, opera non finita, obsoleta fin dal
progetto, generatrice di un vero e proprio sistema mafioso che ha
bruciato in corruzione circa un miliardo e mezzo, sprecandone finora
altri quattro (soldi dei contribuenti ovviamente). Inoltre, ammesso e
non concesso che il MOSE verrà mai terminato, ciò che lo metterà
sicuramente in crisi è l'innalzamento del medio mare previsto per i
prossimi decenni (fonte: Nature). Infatti si prevede un
innalzamento futuro del livello dell'acqua tale per cui le dighe del
MOSE dovrebbero rimanere chiuse per molto più tempo del previsto,
causando una diminuzione dello scambio di ossigeno tra laguna e mare,
sancendo così la possibile morte dell'ecosistema lagunare e della sua
ecologia culturale, sociale ed economica.
L'esempio
del MOSE ci insegna che la grande opera deve essere abbandonata poiché
la sua irreversibilità non tiene conto dell'orizzonte dei cambiamenti
climatici che imporrà al territorio nuove capacità di adattamento. Ma
tale capacità di adattamento non ci verrà regalata, sarà il frutto di
una conquista o non sarà affatto. Non si tratta, bisogna chiarirlo, di
accontentarsi di improbabili accorgimenti, senza mettere in discussione
la cornice capitalistica. Non ci riferiamo nemmeno solo alla stretta
attualità della vergognosa retromarcia del governo e del Movimento 5
stelle in particolare, sulla questione delle grandi opere. Non basterà
infatti bloccare il tratto valsusino del TAV (decisione non ancora
presa, ma attesa in vista delle Europee) e non basterà il tiramolla
sulle trivelle per fare dimenticare le vergogne dell'ILVA, del Terzo
Valico, del TAP, del MUOS. Non basterà ciò per cancellare l'ignavia
sulle grandi navi, sul MOSE e la lista potrebbe continuare.
Quello
a cui miriamo è una trasformazione del modello di sviluppo, possibile
solo se esisterà un movimento radicale (transnazionale e plurale) di
critica al capitalismo attuale.
La sostenibilità è un miraggio, utile solo a chi aggrava la crisi climatica.
Lasciamoci
alle spalle le retoriche della sostenibilità. Ciò non vuol dire che non
serva battersi in quelle specifiche vertenze che mirano ad ottenere
minori impatti ambientali, ma il nostro orizzonte politico non è
ovviamente quello delle COP governative, tra l'altro sempre più svuotate
dai nuovi negazionisti à la Trump o à la Bolsonaro.
Se
prendiamo per buono il suggerimento di Jason Moore, sostituire al
termine Antropocene quello di Capitalocene, emerge con chiarezza la
responsabilità storica del capitalismo nella crisi climatica che stiamo
attraversando. È chiaro che la lotta contro le nuove forme di
sfruttamento nell'epoca della gig economy e delle piattaforme
digitali è importante, come è importante iniziare a pretendere lavoro a
basso impatto ambientale: si pensi a quanto, ad esempio, il settore
della logistica sommi condizioni di lavoro dure e precarie ad una
quantità immane di emissioni. Va però onestamente ammesso che per troppo
tempo i movimenti hanno trascurato la messa in forma della natura da
parte del capitale, lasciando libera l'avanzata di quest'ultimo sul
terreno della riproduzione, quello caratterizzato dal lavoro di cura (in
particolare delle donne), da quello servile, ma anche da quello "della
natura a buon mercato". È' questa, tra l'altro, una delle ragioni per
cui tra le protagoniste dei movimenti ecologisti del nord Europa,
troviamo in forza soggettività femministe, trans e queer.
Se,
giustamente, la decrescita è per molte e molti una priorità, è
illusorio pensare che sia possibile decrescere nel capitalismo. Non è
solo il fatto che il capitale abbia strutturalmente bisogno di crescita
per riprodursi, ma anche il fatto che, se l'orizzonte non muta, non è
realistico chiedere a chi è subalterno di decrescere. Se coloro i quali
si battono per la decrescita sono degli interlocutori, e lo sono, anche
per il semplice fatto che stanno dentro le lotte ed i comitati, con loro
la discussione deve vertere su una applicazione della decrescita in
chiave anticapitalista, ovvero fuori dalla convinzione che un
cambiamento individuale dei consumi o che un ritorno a piccole comunità
omogenee possano essere strumenti sufficienti contro la crisi climatica
(qui semplifichiamo brutalmente per necessità di spazio). Chi è povero,
subalterno, chi ha poco non si priverà del poco che ha se prima non si
rivoluziona culturalmente la nozione di piacere, se non si afferma,
nelle pratiche sociali e di lotta, che la felicità non è questione
riducibile alla propria capacità di consumo individuale.
Che
significa ciò? Che dobbiamo squalificare dalla nostra lotta il tema
delle forme di vita (cioè di come si vive e ci si comporta, anche
individualmente, dentro il climate-change) e ridurre tutto ad
un tema di organizzazione e di azione collettiva? Niente affatto,
l'organizzazione dei movimenti dentro la crisi climatica non può
prescindere da una nuova attenzione alle forme di vita:
all'alimentazione, all'energia, al ciclo dei rifiuti, alla mobilità e
così via. Non è possibile separare organizzazione e comportamenti, etica
collettiva ed individuale. Su questo abbiamo molto da imparare se
vogliamo allargare il nostro raggio d'azione.
L'intreccio
tra organizzazione e forme di vita deve essere inoltre utile a
disinnescare il meccanismo psicologico per cui la responsabilità
individuale nei confronti del clima si trasforma in senso di colpa che
funziona da livellatore sociale. Non siamo tutte e tutti ugualmente
responsabili della crisi climatica. Vi è il tema del privilegio di
razza, di classe e di genere che diversifica il peso dei singoli e delle
comunità di fronte ai problemi del climate change, questo a
sua volta non è separabile dalla responsabilità storica dei capitalisti
che arriva fino alle attuali élite finanziarie. Nostro è lo slogan: "La
riconversione ecologica la paghino i ricchi". La responsabilità di
costruire un ethos all'altezza della crisi è collettiva, ma sono i
grandi patrimoni, le grandi concentrazioni di capitale transnazionale
che debbono essere intaccati per procurare le risorse necessarie.
Il comune
I beni comuni non sono categorie merceologiche, non sono tali per natura, ma solo quando qualcuno ne conquista un uso comune. I commons
sono materiali ed immateriali, territoriali ed urbani. Spesso queste
dimensioni si compenetrano, come nel caso di Venezia, dove la cosiddetta
natura (l'acqua, la flora, la fauna e la morfologia lagunari), non è
separabile dall'arcipelago edificato e dal modo di vita. Dove tale
intreccio ha permesso la sedimentazione di un capitale simbolico
collettivo unico al mondo. Ciò che non è unico è l'effetto distruttivo
del turismo di massa (di cui le grandi navi sono la manifestazione più
arrogante) sul tessuto sociale. Un effetto che mette a rischio il
patrimonio di forme di vita peculiari che è l'eredità inestimabile di
centinaia di città e centri storici in tutta Europa. Non dimentichiamo
infatti che il turismo è, non da ieri, una delle prime industrie
mondiali.
Perché siamo convinti che la categoria del comune
può giocare un ruolo importante nella nostra lotta? Perché il pubblico,
non solo il privato, è oggi una dimensione che appare sempre più supina
agli interessi del capitale. Reclamare un settore pubblico che funzioni
è un anacronismo, il pubblico funziona già, solo che, dall'affermazione
del neoliberismo, ha scelto di farlo a discapito del bene comune.
Se
pensiamo alla campagna contro le grandi opere, la nazionalizzazione non
rappresenta per noi la soluzione. Se si discute di sovranità si discuta
del peso storico, soprattuto nel Sud Globale, delle lotte per la
sovranità alimentare, lotte che poco c'entrano con la nostalgia per i
rassicuranti confini della nazione. Inoltre la dannosità di una grande
opera non varia a seconda della committenza pubblica o privata e la
rapina perpetrata attraverso il modello a cui ci opponiamo si regge su
un intreccio strettissimo tra Stato ed impresa. Non vediamo forse questo
intreccio plasticamente rappresentato nella trasversalità istituzionale
delle recenti piazze pro grandi opere? Dove Lega e PD marciano insieme,
accompagnando le associazioni imprenditoriali ed industriali.
Il comune
è un campo di battaglia. In questa battaglia il cosiddetto uso politico
del diritto (sperimentato soprattutto a livello municipalista) è uno
strumento importante, ma non esaustivo.
Il
divenire comune di un bene raramente si ottiene senza un percorso di
lotta che lo reclami. Senza agire sui rapporti di forza. Senza conflitto
la legge rimane un ostacolo per il comune, non un alleato. Non siamo
interessati al virtuosismo del giurista, ma alla dimensione giuridica
come ulteriore terreno di precipitazione delle lotte. Senza contare che,
a volte, un bene comune può essere messo al sicuro da un provvedimento
legislativo, altre volte dal suo mantenimento fuori dalla portata del
diritto. In ogni caso, una riattivazione del discorso sui beni comuni è
una delle condizioni che può offrire respiro e strumenti ad un movimento
contro le grandi opere e per la giustizia climatica.
I comitati
Per
noi l'obbiettivo è chiaro ed ambizioso. Non si tratta di costruire un
palcoscenico per auto-rappresentarsi, non si tratta della sopravvivenza
di singole organizzazioni o di aree di affinità, della proposta di
costruire cartelli o partiti, né di praticare l'egemonia su quel misero
spazio che le forze reazionarie ci hanno lasciato. Evitiamo di
riprodurre la tristezza di spettacoli ben noti.
Ci
si doterà degli strumenti organizzativi necessari, ma il desiderio è
che da questo percorso nasca un movimento, uno spazio ampio, una spinta
sociale reale e radicale che sviluppi un lavoro di lungo periodo. Al di
là dei buoni propositi è questa l'unica condizione per un salto di
qualità.
Però è bene dire che
non partiamo da zero. I comitati territoriali, alcuni storici, alcuni
recenti, rappresentano un patrimonio unico in cui si sono sedimentati
anni di lotte e di conoscenza di parte, di legame sociale e di
conflitti. Un grande patrimonio, ma con il limite della difficoltà, al
di là dei tanti casi di solidarietà, di costruire un terreno comune che
non dimentichi certo le singole vertenze, ma che conferisca maggiore
forza dentro un punto di vista ed un percorso comuni.
Crediamo che la sfida sia duplice.
Prima
di tutto, come comitati, siamo chiamati ad un salto di qualità. Forse
non lo abbiamo messo a fuoco, ma tutti, battendoci contro le grandi
opere inutili e imposte, ci battiamo contro un modello di sviluppo che
corre nella direzione dell'inasprimento della crisi climatica. D'altro
canto, i milioni di persone che in Italia (ma anche in Europa e nel
mondo) sentono l'esigenza di combattere i cambiamenti climatici sono in
ascolto, sono contrari alle grandi opere e sono finora privi (questo
almeno vale per il bel paese) di spazi di movimento che, con radicalità
ed intelligenza, offrano loro un terreno per mettere insieme forme di
vita e conflitto.
La
questione grandi opere rappresenta certamente una contraddizione per il
sedicente governo del cambiamento. Noi crediamo che questa
contraddizione vada acuita se vogliamo portare a casa dei risultati.
Dunque serve un'azione che, come nei mesi scorsi, sia repentina e
continuata. Non possiamo fare nostra alcuna posizione che oggi si
assesti sull'idea di un lasciar fare il governo in carica. La Lega
comanda, i Cinque Stelle vacillano tra un'analisi costi benefici e un
finto reddito di cittadinanza per non soccombere nei consensi. E'
possibile, anche se non scontato, che in vista delle Europee arrivi una
(almeno parziale) bocciatura del TAV. Che cosa dimostra tutto ciò? Che
spazi di contrattazione si aprono attraverso le lotte, del resto, come è
possibile fidarsi dei dispositivi partecipativi della Casaleggio?
In
seconda battuta è bene chiarire che oggi abbiamo bisogno della massima
apertura. Oltre le differenze va aperto il confronto con tante e tanti,
non solo tra le decine di comitati che già da mesi si mobilitano, ma
anche con quei singoli e quelle organizzazioni che si occupano da anni
di attivismo climatico, con le reti che si muovono attorno ai beni
comuni, con i gruppi della decrescita, con le soggettività femministe,
queer, con Non Una di Meno, con i centri sociali, con le esperienze del
municipalismo.
Abbiamo bisogno, per continuare come stiamo procedendo, di una grande piazza a Roma, il prossimo 23 marzo.
Comitato No Grandi Navi, Venezia
Comitato No Dal Molin, Vicenza
Comitato Zero pfas, Padova
Comitato No Pedemontana, Treviso
Opzione Zero, Mira
Nessun commento:
Posta un commento