martedì 1 gennaio 2019

La produttività ci ha fregato

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Talvolta si fa così fatica che chi ci riesce un po’ sovversivo lo è per davvero: ricordarsi che il lavoro non è il fine ma uno strumento per migliorare la propria qualità di vita, non viene naturale. Il pensiero dominante è un altro, sintomo evidente che c’è qualcosa di profondamente sbagliato nella cultura di una società moderna di cui la politica è specchio. Le lotte per il lavoro sono infatti così spente rispetto agli scorsi decenni che parlare di miglioramenti sembra una presa in giro – la maggior parte delle lotte di oggi sono per conservare qualcosa, come la chiusura di una fabbrica, piuttosto che per reclamare diritti non ancora concessi. Per invertire la tendenza bisogna partire dal ricostruire il nesso tra lavoro e libertà, ridando a ciascuno il giusto valore.
Simone Fana si occupa di servizi per il lavoro e formazione professionale. Ha scritto per riviste e settimanali su tematiche legate al mercato del lavoro e alla riduzione dell’orario e in un libro fresco di stampa, “Tempo rubato”, tira le fila della situazione, sostenendo che i vantaggi del restituire tempo libero ai lavoratori, portando l’orario giornaliero a 6 ore, si tradurrebbe in benefici per la società tutta oltre a fungere da volano verso un modello di sviluppo economico più sostenibile. Qualcosa che suona come una rivoluzione in un momento storico in cui si allungano i tempi di lavoro e si riducono le retribuzioni orarie e le vette del progresso tecnico coincidono con il ritorno di forme antiche di sfruttamento della forza lavoro.

Perché esiste tanta resistenza nel portare all’ordine del giorno una simile proposta?
Non è stato più un argomento perché sostanzialmente, per trent’anni, l’idea dominante è stata quella della produttività a tutti i costi.
In Italia il tempo massimo di lavoro settimanale è di 40 ore, in genere diviso in 8 ore al giorno. Una disposizione che risale agli anni Venti. Da allora è cambiato tutto, questo no, perché?
La riduzione dell’orario di lavoro in Italia e in Occidente ha seguito il ciclo di lotte operaie che si sono succedute nel secolo scorso. Il trend di riduzione dell’orario ha conosciuto una tendenza positiva tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e la metà degli anni ’70 del Novecento. Dagli anni ’80 questa tendenza si è interrotta a causa di una reazione del fronte padronale. Dall’Inghilterra agli Stati Uniti e in tutta Europa i governi hanno introdotto politiche di liberalizzazione dei rapporti di lavoro, indebolendo il potere dei sindacati nel controllare l’organizzazione del lavoro. Questo è avvenuto perché il ciclo di lotte precedenti aveva messo a repentaglio i margini di profitto del sistema, impedendo alle imprese di poter ridurre i salari e agire sugli orari di lavoro per aumentare la produttività. Insomma, si è trattato di una risposta politica per schiacciare l’avanzata del movimento dei lavoratori. Non è un caso che tra gli anni ‘90 e 2000 abbiamo assistito a un aumento degli orari (salvo rare eccezioni) nonostante il salto tecnologico in corso.

Nel libro scrivi: «La riduzione avrebbe il beneficio di aumentare i livelli di occupazione e anche i salari orari». Come esattamente? Sembrerebbe una manovra dai risvolti rivoluzionari.
In primo luogo, perché la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario impone alle imprese, specie in alcuni settori produttivi di assumere più lavoratori per rispondere alla domanda di beni e servizi. Dovendo contare su minor tempo di lavoro per addetto, le imprese che intendano produrre la stessa quantità di beni e di servizi dovranno aumentare il proprio organico. Questo discorso è particolarmente vero per il settore pubblico, che sconta oggi carenze di organico in vari comparti (dalla sanità, alla scuola per passare alla ricerca e all’università). Per il tipo di bene prodotto questi settori non possono ricorrere a tecnologie che sostituiscano il lavoro umano, ma devono assumere più personale per rispondere a una domanda di quei beni e servizi che rimane immutata (sanità, formazione, mobilità) e che oggi è in parte insoddisfatta (11 milioni di persone sono costrette a rinunciare alle cure mediche a causa della privatizzazione della spesa sanitaria). Sul versante dei salari il beneficio della riduzione dell’orario è collegato da un lato all’aumento del numero di occupati, all’effetto positivo che genera sui consumi interni. Dall’altro lato, la riduzione dell’orario a parità di salario ostacola la possibilità di ricorrere a modelli flessibili di retribuzione (come il cottimo) sganciati dall’orario di lavoro, che si stanno diffondendo in vari settori del mercato del lavoro.
Gli straordinari mutamenti che attraversano i modi di produzione contemporanei e la velocità del progresso tecnologico sollevano un’opportunità unica per ridurre il tempo dedicato al lavoro. Ma quel che stiamo vedendo accadere è l’esatto contrario. Pensiamo ad Amazon e alle condizioni di lavoro di coloro che lavorano alle consegne, per esempio. Come si conciliano queste realtà?
Questo accade perché l’innovazione tecnologica non è un fenomeno neutrale. Le macchine sono introdotte dalle imprese per aumentare la produttività e ridurre i costi di produzione (tra cui anche i salari). Questo obiettivo avviene spesso intensificando i turni di lavoro. Il motto è produrre di più in minor tempo e con un costo più basso. Amazon, ma non solo, è l’esempio di questo modello in cui convivono le vette più alte dell’innovazione tecnologica con i punti più bassi delle condizioni di lavoro. Il punto è il potere di controllo sull’uso delle macchine, se questo resta concentrato in poche mani la condizione dei lavoratori può solo peggiorare.
Se ammettiamo che l’innovazione tecnologica e i processi di automazione riducono la domanda di lavoro vivo, una parte della distribuzione del reddito prodotto dalle nuove tecnologie potrebbe essere redistribuito sotto forma di reddito di cittadinanza?
Il potenziale della rivoluzione tecnologica in corso è enorme e può consentire di distribuire il prodotto sotto forma di un reddito di base, nel momento in cui riduce parallelamente la domanda di lavoro vivo. Ma anche qui, se vogliamo che l’istituzione del reddito di base sia parte di una trasformazione nel modo di produrre e consumare, e che si rifletta nell’insieme delle relazioni sociali, allora è necessario inserire il reddito in una trasformazione complessiva dei rapporti sociali, a partire da un maggiore coinvolgimento dei lavoratori nel “come” e “cosa” produrre.
Qual è la tendenza in Europa sul fronte di una riduzione d’orario?
Ci sono tendenze diverse. Ad esempio, l’accordo siglato in Germania tra sindacati e Confindustria sulle 28 ore non lo considero un passo in avanti, perché riguarda solo una piccola quota di lavoratori, occupati in settori produttivi in crescita e solidi, mentre un’ampia fascia di lavoratori è schiacciata in una condizione di bassi salari e con un regime di orario determinato esclusivamente in base ai bisogni delle imprese. È una misura che divide il mondo del lavoro, anziché unirlo. Ci sono segnali interessanti invece in Svezia dove la sperimentazione della riduzione dell’orario a parità di salario sta dando buoni frutti, peraltro dimostrando che la riduzione dell’orario di lavoro produce effetti positivi anche sulla produttività. Anche in Danimarca i segnali sono positivi. In generale, l’Europa di oggi è un continente segnato da squilibri profondi e da equilibri politici diversi, per cui non sorprende che anche il tema della riduzione dell’orario di lavoro presenti differenze significative.
Liberarsi dal lavoro porterebbe a un mutamento della società?
Non penso che sia sufficiente liberarsi dal lavoro per trasformare la società. Il punto resta cambiare un sistema economico che si regge sullo sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici, sul primato delle ragioni del profitto sui bisogni della maggioranza delle persone. Bisogna modificare radicalmente il modello di sviluppo e l’assetto delle relazioni sociali, mettendo al centro la libertà di chi lavora. Credo che la riduzione dell’orario di lavoro costituisca un tassello necessario per migliorare la qualità del lavoro e contestualmente una misura che restituisca tempo di vita a ognuno di noi. Tempo da investire nella cura delle relazioni sociali, in una partecipazione consapevole alla vita delle comunità e perché no anche agli affetti e alla realizzazione di sé. Il potenziamento della sfera pubblica e la salute della democrazia ha bisogno di cittadini che possano investire tempo. Quel tempo che ci viene quotidianamente sottratto per i profitti di pochi. Io credo che questa rivoluzione sia possibile, ma per realizzarsi abbia bisogno di una battaglia sociale e politica. Non avverrà in maniera automatica o per gentile concessione di chi controlla i meccanismi di produzione del reddito e della ricchezza.
Quali falsi miti dovremo abbattere per tendere a questo tipo di futuro?
Il primo è quello per cui lavorando di più si produce di più e i lavoratori e le lavoratrici guadagneranno proporzionalmente. Questa teoria è stata smentita dalla realtà degli ultimi decenni, in cui l’intensificazione dei turni di lavoro è andata di pari passo con l’aumento delle diseguaglianze sociali. Un altro mito da sfatare è che l’innovazione tecnologica produca di per sé benefici per tutti, anche qui si tratta di un inganno smentito dalla realtà di tutti i giorni. Infine, e direi la cosa più importante, è smettere di credere che gli interessi di chi vive di lavoro siano analoghi a quelli di chi vive di rendite e profitti. Esiste un conflitto irriducibile nella società, la riduzione dell’orario di lavoro è un obiettivo che può essere raggiunto solo con una battaglia politica e sociale.

a cura di Livia Mordenti
Giornalista, vive tra Roma e Milano. Spesso in treno, dove tasta il polso del Paese

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