contropiano
Il totale cedimento alla disciplina fiscale europea da parte del
governo italiano, condito da una ridicola contrattazione fatta di
muscoli e pugni sul tavolo evaporati nel nulla di una vuota retorica, ha
portato ad un drastico ridimensionamento del deficit, dal 2.4% al 2.04%
del PIL. Cerchiamo in particolare di vedere cosa è rimasto, all’interno
della Legge di bilancio, della promessa di eliminare la famigerata Legge Fornero e sostituirla con ‘quota 100’.
Il relativo decreto legge indica, nella parte dedicata ai provvedimenti in materia pensionistica, che: “In via sperimentale,
per il triennio 2019-2021, gli iscritti (…) all’INPS (…) possono
conseguire il diritto alla pensione anticipata al raggiungimento di
un’età anagrafica di almeno 62 anni e di un’età contributiva di almeno
38 anni”.
Le primissime parole lasciano davvero stupefatti! Un
provvedimento in materia pensionistica che per propria natura e logica
non potrebbe che avere carattere strutturale a tempo indefinito, salvo
colpi di scena fuori programma o salvo tagli di spesa sociale massicci
su altri capitoli, decadrà automaticamente dal 2021. Dal 2022 ‘quota
100’ sarà solo un ricordo del contingente beneficio temporaneo goduto da
tre coorti anagrafiche. Sembra uno scherzo, ma purtroppo non lo è. Ma
la farsa non finisce qui.
Poche parole dopo, nel testo, si rimarca che quota 100 è
raggiungibile con almeno 38 anni di contributi e almeno 62 anni di età.
Tutto fuorché una quota flessibile come sembrava dovesse essere
all’inizio: per intenderci, niente pensione a 63+37, 64+36 o 65+35. Si
tratta di un elemento che evidentemente restringe di molto la platea di
potenziali beneficiari, che infatti passa dagli iniziali 450.000 a
315.000. Inoltre, scompare dal testo ogni riferimento ai 41 anni di
contributi come requisito per un accesso universale, indipendente
dall’età anagrafica, alla pensione. Rimane invece intatta l’età
contributiva, già prevista dalla Legge Fornero, per la cosiddetta
pensione anticipata, che per il 2018 era giunta a 42 anni e 10 mesi per
gli uomini e 41 e 10 mesi per le donne. In questo caso una variazione
positiva, ovvero lo sganciamento di tale limite dalla revisione biennale
basata sull’allungamento della vita media attesa, viene subito
rimangiata dall’introduzione di finestre trimestrali per i lavoratori
del settore privato e semestrali per i lavoratori del settore pubblico.
Finestra significa, in gergo, dilazione del momento in cui
effettivamente si inizia a ricevere la rendita pensionistica, rispetto
al momento in cui si è raggiunto il requisito anagrafico-contributivo
per il diritto alla pensione. Lo stratagemma delle cosiddette finestre
era già stato usato molte volte in passato come formula strisciante per
ottenere aumenti di fatto dell’età pensionabile senza renderlo esplicito.
Questa formula occulta viene ora riciclata dal governo pentaleghista
come arma di riduzione dell’impatto finanziario della riforma
pensionistica. L’introduzione delle finestre trimestrali e semestrali,
peraltro, verrà applicata anche all’uscita tramite quota 100, che quindi
nella sua concreta attuazione diventerà quota 100 + 3 mesi per i
lavoratori del settore privato e quota 100 + 6 mesi per i dipendenti
pubblici.
Ma ancora non è finita. A dimostrazione di una riforma che non
rappresenta in alcun modo una vera rottura con gli schemi previdenziali
del passato, la pensione di vecchiaia, sino al 2018 conseguibile a 66
anni e 7 mesi, non verrà sganciata dalla deleteria misura sancita dalla
Legge Sacconi che prevedeva l’adeguamento automatico dell’età di uscita
dal lavoro all’evoluzione della vita media attesa.
Con la riforma previdenziale gialloverde resta dunque l’agganciamento
tra età pensionabile e vita media. Dal 2019, infatti, la pensione di
vecchiaia aumenterà, secondo la logica in essere della revisione
biennale, da 66 anni e 7 mesi a 67 anni e, in caso di auspicabile
crescita della vita media attesa, continuerà ad aumentare negli anni a
venire. Non solo, ma l’attuale testo prevede che persino quota 100,
nell’ambito del suo effimero triennio di applicazione, dopo un solo
biennio di invariabilità, dal 2021 si adegui, per ciò che riguarda il
combinato anagrafico + contributivo, all’eventuale aumento della vita
media attesa, potendo quindi divenire ipoteticamente quota 101 per
l’anno 2021 (per poi scomparire miseramente dal 2022).
Nel complesso, un provvedimento che già di per sé aveva un carattere
di forte parzialità e insufficienza è stato letteralmente stravolto nel
merito e, cosa ben più grave, nell’estensione temporale.
Va detto, a priori che, ancor prima delle sue clamorose limitazioni
appena descritte, la proposta di quota 100 in quanto tale non rompeva in
alcun modo il tratto essenziale che caratterizza negativamente il sistema previdenziale italiano, analogamente ai suoi omologhi europei: la logica contributiva.
Questa logica, introdotta dalla Riforma Dini del 1995, impone che un
accesso più precoce alla pensione, laddove consentito, sia accompagnato
da un taglio della pensione attesa. Aumenti della vita media attesa,
inoltre, si riverberano, a parità di età pensionabile, sull’importo
della pensione, secondo il concetto per cui ciò che hai risparmiato in
vita te lo puoi giocare sul numero di anni che mediamente ti restano da
vivere. È una logica perversa che sposta interamente i benefici sociali
di un aumento della vita media attesa alternativamente su una riduzione
della pensione o su un aumento dell’età di uscita dal lavoro. Se si
campa di più, insomma, bisogna lavorare per forza di più o in
alternativa accontentarsi di pensioni da fame. Per questo semplice
motivo qualsiasi pensione anticipata, dentro la dimensione contributiva, comporta una penalizzazione
in termini di pensione ricevuta. La riduzione dell’assegno
pensionistico con quota 100 in effetti oscillerebbe tra il 30% e il 35%
rispetto alla pensione di vecchiaia ottenuta a 67 anni. Un’enormità!
Sembra incredibile, ma l’elenco di sorprese avvelenate della riforma
pensionistica non è ancora concluso e va persino oltre le limitazioni
della flessibilità in uscita. Un’altra clamorosa penalizzazione, in
questo caso riservata ai soli dipendenti pubblici, è il differimento del
godimento del TFS (trattamento di fine servizio, omologo del TFR
esistente nei rapporti di lavoro del settore privato) al compimento dei
67 anni per i dipendenti pubblici che opteranno per quota 100. L’attesa
per usufruirne per chi uscirà con 62 anni sarebbe addirittura di 5 anni.
Si tratta di un provvedimento privo di qualsiasi logica che non sia la
riduzione arbitraria di un diritto, finalizzata al risparmio di risorse
da parte dello Stato.
Infine, le ultime due ciliegine sulla torta. La prima riguarda
l’ennesimo ridimensionamento della perequazione delle pensioni
all’inflazione. Le pensioni, essendo fissate per via legale al momento
del pensionamento, necessiterebbero di un adeguamento automatico del
loro importo alla dinamica dei prezzi futuri. Nel corso degli anni gli
adeguamenti sono stati via via sempre più ristretti a partire dalle
pensioni più alte, con intensi effetti anche sulle pensioni medie. Dopo
anni di varie restrizioni (dalla Fornero a Renzi), dal 2019 la
perequazione delle pensioni si sarebbe dovuta finalmente ricalibrare
sulla base della Legge 188/2000 con adeguamenti del 100% dell’inflazione
per le pensioni più basse, e piuttosto elevati anche per le pensioni
medio-alte. Il governo, invece, in continuità con i precedenti, è
intervenuto in modo restrittivo anche su questo capitolo fissando per il
2019-21 adeguamenti solo parziali al crescere della pensione, che
vengono ridotti addirittura fino al 50% circa dell’inflazione per
pensioni pari a circa 2000/2500 euro al mese.
La seconda ciliegina sulla torta è il taglio lineare delle cosiddette
pensioni d’oro, operazione di marketing d’accatto voluta dai 5stelle.
Per le pensioni che superano la soglia, senza dubbio molto elevata, dei
90.000 euro annui si prevedono tagli lineari arbitrari che andranno dal
10% al 40% del loro importo, in modo crescente al crescere della loro
entità. Non è qui in discussione l’indubitabile carattere di privilegio
di una pensione di 4000 o 5000 euro al mese o persino cifre più elevate.
È però il metodo integralmente arbitrario, che sfugge a qualsiasi
logica di progressività universale, ad essere del tutto discutibile, in
quanto si colpisce linearmente una singola categoria di redditi, per di
più centrati su un’unica fascia generazionale – ovvero redditi da
pensione legati per lo più a redditi elevati da lavoro dipendente. Al
contempo, nella stessa manovra finanziaria, si riduce la progressività
del sistema fiscale tramite la riforma della cosiddetta ‘flat tax’
e non si muove un dito per prelevare risorse né dai redditi da capitale
né dalle rendite finanziarie. Insomma, si toglie un po’ di “oro” ai
pensionati benestanti spacciandolo per una coraggiosa redistribuzione
del reddito.
In conclusione, emergono i contorni di una riforma che non solo non
mette in discussione in alcun modo la logica di fondo del sistema
contributivo, che ha ridotto le pensioni
attese dagli attuali lavoratori ad assegni da fame, ma rinuncia persino
ad un’applicazione coerente e duratura dell’unica misura davvero
favorevole, seppur in modo intrinsecamente penalizzante, alla grande
maggioranza dei lavoratori-pensionati. A tutto questo si aggiungono
cavilli diffusi di ulteriore riduzione di benefici, limiti e tagli
lineari caotici privi di logiche redistributive universalistiche.
Assistiamo così, anche in questo ambito, a quella che è a tutti gli
effetti una riproposizione del quadro generale che questo governo sta
disegnando: il consenso derivante dalla astuta cattura del sacrosanto
malcontento popolare viene sistematicamente incanalato in provvedimenti
che non toccano le logiche ultime della austerità europea, e si
rivelano, alla luce dei fatti, nel migliore dei casi, mere operazioni propagandistiche di cortissimo respiro. Tale dinamica si ripresenta persino nella riforma pensionistica, ossia uno dei baluardi principali della propaganda pre-elettorale. Lo stridore tra il ventilato ‘cambiamento’ e la ben più reale e quotidiana ‘continuità’ diviene sempre più assordante.
* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/
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domenica 20 gennaio 2019
Il naufragio delle promesse pensionistiche: quota 100 ridotta al nulla
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