La nazionale italiana di cybersecurity è arrivata sesta agli europei. Ma la storia di come si diventa “hacker buoni” nel nostro Paese (e si trova lavoro) è piuttosto complicata
Non ci sono dati attendibili su quanti posti di lavoro servano nel settore italiano della cybersecurity. Quante opportunità ci sono per i nostri hacker etici, gli esperti di sicurezza che decidono di fare della loro passione una professione? I ragazzi che sperimentano cosa vuol dire fare un pentest, configurare un firewall, studiare le possibili debolezze di un software o un sistema, sembra quasi che nascano per caso, senza rendersi neanche ben conto dell’enorme opportunità lavorativa che si apre davanti a loro.
La nostra economia è infatti sempre più dipendente dal digitale e dalla sua sicurezza. Solo il segmento del ransomware, spiegano gli esperti dell’azienda di cybersecurity Check Point, costa alle imprese 11,5 miliardi di dollari all’anno. Ed è la punta dell’iceberg: ci sono i furti di identità digitale, gli attacchi ai grandi collettori di dati personali (come Facebook, che ha perso 30 milioni di identità in una aggressione digitale realizzata conoscendo molto bene i meccanismi di funzionamento di frontend e backend del social network).
Come ha spiegato più volte anche Mikko Hyppönen, superstar finlandese del mondo della security e direttore ricerca di F-Secure, “nel settore c’è una cronica mancanza di talenti. Servono molte più persone”. Lo conferma anche il texano Greg Fitzgerald, direttore marketing di Jask, startup che vuole automatizzare con l’intelligenza artificiale molte funzioni di monitoraggio della sicurezza online come alternativa (e per loro opportunità di business) alla cronica mancanza di esperti e operatori di cybersecurity: “Nelle aziende americane mancano due milioni di esperti di sicurezza, probabilmente venti milioni in tutto il mondo.
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