Il bambino, mezzo addormentato, trasportato dal padre in una valigia, quasi fosse un abito, è la nuova immagine simbolo del conflitto in Siria.
Shady Hamadi Scrittore
Uno scatto destinato a finire nel dimenticatoio nel giro di
ventiquattro ore, facendo ripiombare il consueto silenzio sulla crisi
siriana che è, probabilmente, la peggiore al livello umanitario dal
secondo dopoguerra a oggi. Questa immagine, come molte altre che hanno
fatto il giro del web, rappresenta la routine dell’indignazione a rate: viene pubblicata una foto anomale – come quella di Houda,
la bambina che alza le braccia al cielo mentre il fotografo le sta per
scattare una foto, pensando che la macchina fotografica sia una pistola o
lo scatto del piccolo Aylan Kurdi,
riverso deceduto in una spiaggia – milioni di persone la condividono,
si scrivono articoli in cui si ricorda la tragedia del Paese
mediorientale, si dibatte un po’ e finisce tutto – ancora una volta – nello sgabuzzino dei ricordi.
Il problema di questa indignazione a rate è serio perché
si pensa di rispondere alla voce della propria coscienza, quella che ci
dice di fare qualcosa, condividendo la foto o mettendo un like. Ma questa è una amara illusione
che ci spinge a fuggire dalla responsabilità morale e dall’azione
concreta. Quest’ultima significa appelli; raccolta firme e costruire un
dialogo fra società civili. Proprio questo punto è forse il più
importante: cosa vogliono i siriani?
Cosa rappresenta per loro l’immagine di quel bambino? La risposta a questa ultima domanda può essere risolta in una parola: l’esilio,
cioè la costrizione all’abbandono della propria casa o terra a causa di
motivazioni politiche che portano alla violenza. Dovremmo essere
indignati che nel 2018 ci siano ancora popoli costretti a diventare
esuli. Allora, partendo da ciò, dobbiamo anche sapere che il bambino
nella foto, se arriverà in Italia, non sarà parte di un invasione ma del
nostro immobilismo.
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