Ve
lo riproponiamo, in fondo a questo articolo, cercando di evidenziare
alcuni elementi centrali dell’inchiesta e soprattutto di cogliere una
trasformazione radicale e in qualche misura “epocale” della sfera
politica in questi ultimi decenni.
Partiamo da alcune certezze.
1.
Praticamente tutte le liste presentate a queste elezioni – tranne
Potere al Popolo, diciamo subito – sono degli aggregati di interessi
societari diversi. Spiccano, percentualmente, i semisconosciuti di “10
volte meglio”, che riescono a realizzare l’invidiabile record di
totalizzare più incarichi dirigenziali che candidati (molti ne hanno più
d’uno). La parte del leone la fa naturalmente Forza Italia, ma è tutto
il centrodestra a mostrarsi come una federazione di aziende e/o
amministratori.
2.
I fascisti “duri e puri” (Casapound e Fratelli d’Italia, soprattutto)
non sono diversi dagli altri; anzi, in alcuni casi spuntano notevoli
relazioni affaristiche tra i “fascisti del terzo millennio” e la Lega di
Salvini.
3.
Il Pd è leggermente indietro in questa graduatoria non perché sia
“migliore”, ma per il ruolo svolto degli ultimi decenni (rappresentare
politicamente interessi soprattutto sovra o multi-nazionali).
Possiamo
insomma dire che la “discesa in campo della società civile”, lungi da
contrassegnare una svolta etica, ha radicalizzato la trasformazione
della sfera politica in affare privato.
Qualcuno
potrebbe dire che in realtà la classe politica italiana ha sempre fatto
gli interessi delle imprese. Ed è verissimo, senza alcun dubbio. Ma i
vecchi partiti politici scomparsi con la fine della “prima repubblica” –
venticinque anni fa, più o meno, esattamente da quando sono stati
firmati i trattati di Maastricht – erano ancora dei “corpi intermedi”
costituiti su basi di classe e con una visione di lungo periodo
corrispondente a quegli interessi.
“Interessi
di classe” in senso proprio: c’era chi rappresentava soprattutto le
piccole imprese, chi teneva insieme industria pubblica e piccoli
proprietari terrieri, chi faceva della classe operaia il proprio punto
di forza. Tutti quei partiti, insomma, trasformavano gli interessi
sociali in progetti politici, li mediavano tra loro nella dinamica
parlamentare (il corredo di mazzette era implicito, ma era non l’aspetto
principale), li concretizzavano in leggi. Per tutti valeva il principio
di far prevalere gli interessi della propria classe (o settori di
qualche classe) all’interno di una pratica di governo capace di tenere
comunque conto dell’insieme delle figure sociali esistenti.
Detto
in termini rozzi, per mantenere un certo livello di pace sociale si
trovava modo di redistribuire quote di ricchezza prodotta anche a quei
settori che ai e poi mai avrebbero potuto var valere i propri interessi
come principali.
La
“privatizzazione della politica” avvenuta negli ultimi due decenni è
un’altra cosa. Qui i candidati-imprenditori non lavorano per “una classe
capitalistica”, ma esclusivamente per la propria azienda (o alleanze di
aziende). Possono e debbono, ovviamente, mediare con gli altri gruppi o
singoli manager, ma è scomparsa la “visione d’insieme”, la necessità
introiettata di “tenere insieme” la complessità sociale.
Questo
piano progettuale è stato del resto assunto e delegato agli organismì
sovranazionali (Unione Europea, Troika, Ocse, ecc), che definiscono anno
dopo anno i confini della gestione pubblica. Gli attuali
politici-manager (o proprietari) possono dunque concentrarsi
esclusivamente sulla difesa-affermazione dei propri interessi aziendali o
di gruppo, all’interno di quella cornice definita da altri.
Questo
spiega anche il paradosso tutto italiano degli ultimi venti anni: la
moltiplicazione dei “partiti” pur in presenza di leggi elettorali
maggioritarie, teoricamente disegnata per restringere al minimo
(tendenzialmente solo due). Il cui corollario è la crescita esponenziale
dei “cambi di casacca” (che problema c’è se bisogna soltanto difendere
al meglio il business e qualche asset?).
La
“fine della politica” è questa roba qui. Per questo, sia detto fra noi,
è anche scomparsa quella “sinistra” che immaginava il gioco delle
alleanze come combinazione di sigle in qualche modo “simili”, con
orizzonti di senso e programmi in fondo non troppo distanti. Quella
continuità tra sigle diverse si è interrotta per sempre,
strutturalmente, per ragioni economiche e sociali (non solo per la
protervia di un D’Alema, insomma).
E
non a caso soltanto ora poteva prendere forma, in modo chiaro,
un’alternativa politica che può esistere solo se è “di sistema”, non
l’ennesimo prodotto sullo scaffale della “politica”.
Buona lettura.
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