Con una nota ufficiale,
il presidente del Partito democratico ha spiegato che il passo indietro
del segretario è immediatamente esecutivo e verrà formalizzato lunedì.
Già convocata l'assemblea del partito: dovrebbe tenersi a fine aprile e
potrebbe eleggere il segretario, così come avvenuto con Franceschini
dopo Veltroni nel 2009 e con Epifani dopo Bersani nel 2013.
F. Q.
Da
dimissioni virtuali a passo indietro reale. Il tentativo di
Matteo Renzi di provare a gestire il
post elezioni del Pd è durato 48 ore. Assediato dalle
minoranze interne, scaricato da tutte le anime del
partito, il segretario ha deciso di
lasciare per davvero.
Subito. E non, come annunciato lunedì scorso, dopo aver seguito in
prima persona a delicata fase successiva alla batosta elettorale senza precedenti incassata il
4 marzo. Dopo due giorni di
retroscena e di attacchi da ogni dove, l’ex Rottamatore ha gettato la spugna.
L’ufficialità è arrivata in serata, con una nota diramata dal presidente dem
Matteo Orfini, che – statuto alla mano – ha indicato tempi e modi dell’
uscita di scena di colui che sarà ricordato come il
segretario che ha portato il partito sotto quota 20%. Due le tappe indicate da
Orfini: assemblea e direzione, entrambe già convocate. “
Matteo Renzi si è formalmente dimesso lunedì – ha scritto
Orfini – Come da lui richiesto nella lettera di
dimissioni, e come previsto dallo statuto, ho immediatamente annunciato la
convocazione dell’assemblea nazionale per gli adempimenti conseguenti”. E ancora: “Contestualmente ho convocato la
direzione nazionale che sarà aperta dalla relazione del
vicesegretario Martina. Nella direzione – si legge nel comunicato –
discuteremo le scelte politiche che il Pd dovrà assumere nelle prossime settimane”. “Continuare a discutere di un fatto ormai avvenuto (le
dimissioni del segretario, ndr) come non vi fossero state non ha molto senso – ha aggiunto Orfini – Come non lo ha disquisire del
percorso conseguente le dimissioni che è chiaramente definito dal nostro
statuto e che non consente margini interpretativi né
soluzioni creative“.
La traduzione dal politichese era arrivata poco prima grazie alle dichiarazioni del portavoce nazionale del Pd Matteo Richetti, che, ospite a
Carta Bianca, ha annunciato cosa accadrà durante l’appuntamento della prossima settimana: “Con
Veltroni e
Bersani il percorso è stato lo stesso – ha detto il deputato di area renziana – Lunedì faremo una
direzione che individuerà la
reggenza del partito. Non so se ci sarà
Renzi e se non ci sarà sarà la
dimostrazione che ha fatto un passo indietro anche fisico”. Anche Richetti, poi, ha spiegato che le prossime mosse sono dettate dalle
regole dello statuto, secondo cui “il vicesegretario del Pd ha un’investitura pari del
segretario“. Quindi
Maurizio Martina. Che a questo punto, a meno di sviluppi diversi, guiderà la
delegazione del Pd al
Colle per le consultazioni con il presidente della
Repubblica. Con lui ci saranno i neo capigruppo dem di
Camera e
Senato. Chi saranno? Le minoranze dem puntano su una
gestione collegiale delle decisioni, quindi anche nella scelta di chi guiderà i gruppi a
Montecitorio e
Palazzo Madama. Anche in questo caso i
retroscena si sprecano, come quello che vedrebbe
Maria Elena Boschi in pole per una carica politica o istituzionale per volere dello stesso Matteo Renzi. Una
ricostruzione, quest’ultima, smentita direttamente dalla
diretta interessata con una nota ufficiale: “Sono costretta a
ripetere ciò che ho detto ieri e nei giorni scorsi – ha detto l’ex sottosegretaria alla Presidenza del consiglio – Non sono
interessata, né in pista, per ricoprire né il ruolo di
capogruppo, né quello di vicepresidente della
Camera. Prego cortesemente di non tirare in ballo il mio nome per
ruoli cui non aspiro e che altri amici del Pd potranno egregiamente
svolgere“. La Boschi si è tirata fuori, insomma,
sgombrando il campo da ipotetiche
ingerenze renziane nella scelta di ruoli chiave della prossima
legislatura.
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