Così
facendo ci si condanna a non comprendere appieno le valenze dell'epoca
di trasformazioni produttive, e delle loro conseguenze per l'intera
società, che stiamo vivendo e subendo.E soprattutto si rischia assai di
perdere di vista la condizione reale delle donne e degli uomini che
lavorano, trasfigurandoli in immagini idealizzate o cristallizzate in
santini del passato. Credo che qui, proprio qui si sia incistata una,
non l'unica ma forse la principale delle cause della crisi, di
radicamento, consenso e prospettive della sinistra. O meglio di tutte le
sinistre, sociali e politiche, socialdemocratiche o radicali che
fossero. Succede quando si continua a pensare politicamente, e quindi a
immaginare soggetti, modelli organizzativi, rivendicazioni e proposte,
tutti riferiti a un modo di produrre e di lavorare che non corrisponde
più alle sue forme contemporanee. Magari anche quando i comparti e i
settori, i luoghi e le mansioni possono, a uno sguardo disattento e
superficiale, apparire quelli di sempre.
Diverse
voci, non isolate ma altrettanto inascoltate, hanno provato almeno
dalla metà degli anni Novanta a richiamare le sinistre tutte alla
necessità di confrontarsi con un vero e proprio "salto di paradigma",
con una e più mutazioni irreversibili che investivano profondamente il
lavoro contemporaneo. Sarebbe lungo ricordarle tutte. Credo che, da
ultimo nel dibattito italiano, sia assai utile confrontarsi con le tesi
recentemente presentate da Roberto Ciccarelli nel suo forza lavoro. Il
lato oscuro della rivoluzione digitale (DeriveApprodi, Roma 2018). In un
testo ricchissimo di dati d'inchiesta attuali e di puntuali riferimenti
letterari e filosofici, Ciccarelli mette a fuoco il paradosso dei
paradossi, ovvero il fatto che la condizione della lavoratrice e del
lavoratore oggi è quella di una "vita scandita da due polarità
simmetriche: l'iper-lavoro e il sotto-impiego." E che, in un mondo dove
si lavora sempre di più e sempre peggio, il lavoro stesso non è per
molti la garanzia di un reddito dignitoso. Anzi, al di là di quanti
vivono una condizione di disoccupazione e povertà assoluta, si attaglia a
un numero crescente di persone la definizione sociologica di working
poor, cioè di "povero (nonostante sia) al lavoro." Il filosofo e
giornalista de il manifesto ci invita però, opportunamente, a prendere
congedo anche dalla rappresentazione vittimizzante del "caso umano" che
viene spesso riproposta dagli schermi televisivi. Una rappresentazione
che rischia di creare impotenza, rafforzando la percezione di una
diffusa subalternità, che "non crea conoscenza delle cause che l'hanno
prodotta, né produce un rovesciamento politico delle prospettive."
Speculare
a tale approccio mi pare sia quello "futurologico" il quale, sia che
adotti una visione tecnottimistica sia uno sguardo apocalittico, prevede
tout court la "fine del lavoro" o – come nel recente post di Beppe
Grillo – la "fine della società del lavoro." Poche righe che ben
esemplificano il medesimo vizio di astrazione che viene compiuto da
quanti si attardano nella celebrazione del "Lavoro" novecentesco. Qui
l'irruzione delle tecnologie informatiche e cibernetiche, fino al
dischiudersi delle prospettive dell'intelligenza artificiale e
dell'automazione totale dei processi produttivi, è presentata come un
esito neutro e astorico, il risultato di un'evoluzione scientifica che
sembra nata come Minerva dalla testa di Giove. Grillo pare non vedere, o
forse non vuole vedere, le vive forze sociali, le donne e gli uomini in
carne e ossa, gli ineguali rapporti di proprietà e poteri sottostanti, i
loro conflitti e antagonismi, che sono stati e sono il motore primo
delle trasformazioni produttive contemporanee. Non è un caso che
Ciccarelli ci sproni a ripuntare i riflettori sulla "forza lavoro",
sulla sua attività e sulla sua soggettività: proprio nel momento in cui
sembra che "le merci appaiano misteriosamente nelle nostre case" e che
"il denaro sia l'incarnazione della volontà matematica di un algoritmo" è
al soggetto e ai soggetti, resi invisibili, di ogni processo produttivo
e riproduttivo che bisogna tornare a guardare.
È
su questo che si misura e deve misurarsi la sostanziale differenza tra
una nostra concezione, e conseguente proposta, in materia di "reddito" e
quella agitata e avanzata dalla prima forza politica del Paese, il
Movimento 5Stelle. A partire dalla distanza, che dev'essere qui
sottolineata, tra l'evocazione fantascientifica di Grillo e le
misure di politica economica proposte dal candidato premier Di Maio e
dai suoi consulenti in materia: mentre il primo parla di un "reddito per
nascita", i secondi paiono più prosaicamente allineati alle politiche
sociali e del lavoro che sono state imposte nell'ultimo ventennio dai
governi neoliberisti dell'Europa centro-settentrionale, penso in
particolare alle riforme "Hartz IV" del sistema di Welfare tedesco.
Ovvero la promessa di un "reddito minimo" rigidamente vincolata
all'obbligo di accettare un lavoro quale che sia, meccanismo funzionale
ai processi in corso di distruzione di ogni garanzia e tutela sul
mercato del lavoro, passo ulteriore verso precarizzazion e e impoverimento della condizione sociale dei molti.
Se
invece, da sinistra, vogliamo provare a riprendere le inascoltate
intuizioni degli ultimi vent'anni (senza dimenticare che esse avevano
pure prodotto, all'inizio della scorsa legislatura, una proposta di
legge popolare che, pur con tutti i suoi e i nostri limiti, avevamo
cercato di introdurre nei lavori parlamentari), è a tutt'altra idea di
reddito che dobbiamo rivolgerci.
Aggredendola da due versanti.
Innanzitutto dal riconoscimento che, a monte delle grandi trasformazioni in atto, vi è la "messa al lavoro" della vita di tutti noi, in ogni suo aspetto, ovvero l'appropriazione da parte capitalistica delle intelligenze e delle energie, del tempo e della cooperazione di milioni di donne e uomini. La ricchezza socialmente prodotta è il frutto di questa "forza lavoro" complessiva la cui fatica, materiale e intellettuale, è solo parzialmente (e talvolta nient'affatto) retribuita. È, ad esempio, ciò di cui parla Yanis Varoufakis con la rivendicazione, avanzata da DiEM25 nella sua piattaforma per un "New Deal europeo", di un Universal Basic Dividend finanziato dai "ritorni di capitale" legati all'innovazione tecnologica.
In secondo luogo dalla presa d'atto, nell'attuale frammentazione sociale, dell'inadeguatezza degli strumenti di Welfare in vigore e della necessità di misure, universali e incondizionate, che affrontino le drammatiche ingiustizie sociali, sia sotto il profilo redistributivo sia sotto quello di una nuova regolazione del mercato del lavoro. In tale prospettiva garantire a tutti e a ciascuno un reddito dignitoso significherebbe salvare milioni di persone dalla povertà, assoluta o relativa che sia; sottrarne molte di più al ricatto del lavoro ipersfruttato e sottopagato, talvolta addirittura della prestazione gratuita; restituire piena autonomia di attività e di vita – "autodeterminazione" come rivendicano le donne di Non Una di Meno – alle persone. Una misura realisticamente utopica, cioè possibile, da conquistare nel quadro di una radicale riforma, su scala europea, delle politiche fiscali e sociali. Su cui sfidare chi, mistificando il significato del "reddito di cittadinanza", ha fin qui illuso milioni di elettori.
Una proposta che necessita un enorme sforzo d'innovazione culturale, di mobilitazione sociale, d'iniziativa politica. E che, per realizzarsi, richiede conflitto, rottura delle compatibilità date, a partire dai vincoli tecnocratici di bilancio. Ma è anche e soprattutto da qui che una sinistra, che voglia intercettare le domande di cambiamento sociale,deve ripartire e rigenerarsi.
Aggredendola da due versanti.
Innanzitutto dal riconoscimento che, a monte delle grandi trasformazioni in atto, vi è la "messa al lavoro" della vita di tutti noi, in ogni suo aspetto, ovvero l'appropriazione da parte capitalistica delle intelligenze e delle energie, del tempo e della cooperazione di milioni di donne e uomini. La ricchezza socialmente prodotta è il frutto di questa "forza lavoro" complessiva la cui fatica, materiale e intellettuale, è solo parzialmente (e talvolta nient'affatto) retribuita. È, ad esempio, ciò di cui parla Yanis Varoufakis con la rivendicazione, avanzata da DiEM25 nella sua piattaforma per un "New Deal europeo", di un Universal Basic Dividend finanziato dai "ritorni di capitale" legati all'innovazione tecnologica.
In secondo luogo dalla presa d'atto, nell'attuale frammentazione sociale, dell'inadeguatezza degli strumenti di Welfare in vigore e della necessità di misure, universali e incondizionate, che affrontino le drammatiche ingiustizie sociali, sia sotto il profilo redistributivo sia sotto quello di una nuova regolazione del mercato del lavoro. In tale prospettiva garantire a tutti e a ciascuno un reddito dignitoso significherebbe salvare milioni di persone dalla povertà, assoluta o relativa che sia; sottrarne molte di più al ricatto del lavoro ipersfruttato e sottopagato, talvolta addirittura della prestazione gratuita; restituire piena autonomia di attività e di vita – "autodeterminazione" come rivendicano le donne di Non Una di Meno – alle persone. Una misura realisticamente utopica, cioè possibile, da conquistare nel quadro di una radicale riforma, su scala europea, delle politiche fiscali e sociali. Su cui sfidare chi, mistificando il significato del "reddito di cittadinanza", ha fin qui illuso milioni di elettori.
Una proposta che necessita un enorme sforzo d'innovazione culturale, di mobilitazione sociale, d'iniziativa politica. E che, per realizzarsi, richiede conflitto, rottura delle compatibilità date, a partire dai vincoli tecnocratici di bilancio. Ma è anche e soprattutto da qui che una sinistra, che voglia intercettare le domande di cambiamento sociale,deve ripartire e rigenerarsi.
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