mercoledì 16 marzo 2016

La Banca centrale europea e i dogmi liberisti che uccidono l’Europa.

La moneta unica, costruita attorno alla richiesta di bilanci statali in pareggio o addirittura in surplus, rende la politica fiscale inservibile per sollevare l’Europa dalla sua crisi, senza che la politica monetaria perseguita da Draghi possa svolgere una qualche funzione supplente. Non ci sono vie d’uscita se il circuito democratico non riconquista la politica monetaria.



micromega di Paolo Pini e Alessandro Somma
La Banca centrale europea non ha grandi margini di manovra. Il suo statuto le affida il compito di tenere i prezzi sotto controllo e dunque di occuparsi di inflazione e di deflazione, mentre nulla dice a proposito di lavoro: diversamente dalla Federal Reserve, la Banca centrale statunitense, non deve, o meglio non può, perseguire l’obbiettivo della piena occupazione. Il Governatore Draghi ama ripeterlo ai governi nazionali e alle istituzioni europee, a cui ricorda spesso e volentieri che la BCE non si può sottrarre dallo svolgere il suo ruolo in ambito monetario, ma chiedendo al contempo a chi ha il controllo della politica fiscale di svolgere il suo.
Come si sa, stabilità dei prezzi e piena occupazione sono valori in frequente contrasto. Valori richiamati entrambi dai Trattati europei nella loro formulazione originaria, che però, nel corso degli anni, è stata alterata per ottenere una decisa prevalenza del primo valore sul secondo.
Per avere l’inflazione sotto controllo, si narra, occorre tenere bassa la quantità di denaro in circolazione, mentre l’opposto vale per creare posti di lavoro: per incrementare i livelli occupazionali occorre far crescere produzione e consumi. Il particolare stato in cui si trova da alcuni anni l’economia europea è però quello della deflazione, sicché i due obiettivi potrebbero essere compatibili e dunque perseguiti congiuntamente. È lo scenario entro cui si muove Mario Draghi, le cui misure, che pure hanno un significato politico di enorme rilevanza, sono però assunte al riparo dal meccanismo democratico: da quello nazionale a quello europeo, peraltro ampiamente insufficiente. Una circostanza, questa, che da sola vale a screditarle.

Peraltro le misure assunte dalla Banca centrale europea non sembrano funzionare neppure sul piano economico: da quando ha deciso di intervenire con il quantitative easing la deflazione non è scomparsa affatto, mentre la ripresa, che molti avevano salutato come un dato acquisito, si è  recentemente indebolita.

Da tempo Draghi si adopera per incrementare la circolazione di denaro, incentivata attraverso due espedienti. Il primo mira a rifornire le banche di denaro fresco, che queste ottengono vendendo alla Banca centrale europea i titoli del debito pubblico in loro possesso: è il senso del cosiddetto quantitative easing. Il secondo espediente mira a rendere sconveniente per le banche la scelta di lasciare fermo il loro denaro, finalità ottenuta con l’azzeramento dei tassi di interesse e altre misure collegate.

In questo contesto depressivo, però, non è detto che il denaro in circolazione sia destinato all’economia reale, ovvero a chi produce beni e servizi, che dunque può incrementare l’occupazione, e con essa la capacità di spesa dei consumatori. Può infatti accadere che le banche non allentino la stretta creditizia, e che preferiscano investire in operazioni finanziarie comunque rischiose, ma più redditizie a breve termine rispetto all’investimento nell’economia reale, quindi rispetto ai prestiti alle imprese o alle famiglie. Con il risultato che si creeranno nuove bolle, destinate prima o poi a scoppiare e dunque a far precipitare l’Europa in nuove crisi economiche e finanziarie. Inoltre può accadere che le banche non intendano affatto far  circolare il denaro, e  per questo decidano di scaricare sui correntisti il maggior costo legato alla scelta di tenerlo fermo.

Ma non è tutto. Le misure della Banca centrale europea fanno crollare il rendimento dei titoli del debito, e questo è solo parzialmente un bene per i Paesi indebitati. Se infatti il rendimento dei titoli è pressoché nullo, essi verranno sempre meno acquistati dai risparmiatori degli Stati emittenti e sempre più dai professionisti della speculazione finanziaria. Con il risultato che gli Stati risulteranno sempre più esposti agli umori dei mercati e sempre meno controllabili da parte dei loro cittadini. Il tutto incentivato dalle recenti misure sul salvataggio interno delle banche, il cosiddetto bail-in, pensato ad arte per spingere i correntisti verso l’investimento finanziario dei loro depositi.

La verità è che siamo in presenza della cosiddetta trappola della liquidità, ovvero in una situazione nella quale le politiche monetarie non sono in grado di rilanciare con la riduzione dei tassi di interesse la domanda di beni, consumi ed investimenti. La scarsità della domanda dipende infatti dalla mancanza di lavoro e dalla sua svalutazione, alla base di un impoverimento generalizzato che avrebbe bisogno prioritariamente di politiche fiscali espansive accompagnante da politiche monetarie coerenti. Occorrerebbe insomma stimolare direttamente la domanda, laddove le politiche monetarie, facendo leva sull’offerta di credito, agiscono solo indirettamente su di essa. Le misure della Banca centrale europea, insomma, non faranno altro che produrre nuovi indebitamenti, oltretutto non sopportabili dagli istituti di credito alla luce dei nuovi parametri contemplati nell’ambito dell’Unione bancaria.

A questo punto emerge il paradosso dell’Europa che, proprio quando ne avrebbe più bisogno, ha posto il divieto di politiche fiscali espansioniste, decidendo di elevare l’austerità a dogma indiscutibile. La moneta unica, costruita attorno alla richiesta di bilanci statali in pareggio o addirittura in surplus, rende la politica fiscale inservibile per sollevare l’Europa dalla sua crisi, senza che la politica monetaria perseguita da Mario Draghi possa svolgere una qualche funzione supplente.
Se tutto ciò vale per una situazione normale, gli effetti sono moltiplicati se la moneta unica e le sue politiche operano in un contesto deflazionistico, nel quale gli ostacoli alla crescita sono particolarmente evidenti.

Anche ove fosse accolta la richiesta di maggiore flessibilità e dunque i vincoli sulle politiche fiscali venissero alleggeriti, e anche ove i deficit fossero finanziati indirettamente e persino direttamente dalla Banca centrale europea, i singoli Stati dovrebbero comunque fare i conti con il vincolo esterno, che come è noto contempla forti limitazioni, oltre che del deficit, anche del debito pubblico.

Ma non è tutto. I deficit di bilancio, per un verso efficaci nel far crescere la domanda di beni nei Paesi a minor tasso di crescita, attiverebbero per un altro flussi di importazioni tali da determinare deficit commerciali: squilibri difficilmente assorbibili da meccanismi automatici quali le variazioni del tasso di cambio per la semplice ragione che la flessibilità del tasso di cambio nell’Eurozona non esiste, e fuori di essa è piuttosto limitata e comunque vincolata da altri fattori. Il risultato sarebbe allora quello di accrescere il rischio dei deficit gemelli in presenza di moneta unica, di renderli non sostenibili e pertanto di richiedere poi politiche deflazionistiche per ridurre entrambi. Per alcuni, questo è un tipico problema strutturale, peraltro atteso, di un’area non omogenea nella quale il vincolo della moneta unica avvantaggia i Paesi forti e indebolisce quelli deboli, vincolo che si dimostra sempre più un capestro al quale l’Europa, incapace di uscirne, si sta progressivamente impiccando.

C’è a questo punto da chiedersi come mai si seguano le ricette espansive implementate dalla Banca centrale europea e quelle restrittive volute dalla Commissione, se queste non sono mai state decise democraticamente dai Parlamenti nazionali. Almeno se si escludono i pochi che hanno stoltamente votato l’inserimento in Costituzione del pareggio o dell’equilibrio di bilancio: come l’Italia di Mario Monti convintamente sostenuta da quel Partito Democratico che ora simula dissidi con la Commissione Juncker.

E proprio questo è il punto: non ci sono vie d’uscita se il circuito democratico non riconquista la politica monetaria, che deve tornare a coordinarsi con la politica di bilancio nell’ambito di scelte operate dai Parlamenti. Tutto il contrario di quanto avviene in Europa, dove la politica monetaria è decisa dai tecnocrati della Banca centrale europea, e quella di bilancio dai tecnocrati della Commissione europea.

È questo lo schema che occorre abbattere e che invece resiste al punto da ispirare soluzioni scarsamente fondate, oltre che dal punto di vista politico, anche da quello economico: come l’idea secondo cui la Banca centrale europea potrebbe versare direttamente soldi nei conti correnti dei cittadini europei, in tal modo stimolando la domanda nel rispetto della sua autonomia dal circuito della politica. Idea buona forse per salvare il dogma della verginità dei mercati, ma non certo per tornare a decisioni democratiche sul modo di riorientare l’Europa verso la crescita sostenibile e a monte alla piena occupazione.

A queste condizioni è sempre più urgente chiedersi se esistano alternative europee, e lavorare per definirle e imporle, prima che l’unica risposta plausibile resti l’alternativa all’Europa.

(15 marzo 2016)

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