Trascorsi oltre due mesi dalla scomparsa di Giulio Regeni al Cairo, una costante emerge dalle ricostruzioni sin qui fornite dalle autorità egiziane: il tentativo di esonerare le istituzioni da ogni responsabilità per la tortura e l’uccisione del giovane ricercatore italiano (un’azione contro le buone relazioni tra Italia ed Egitto, un incidente stradale, una festa terminata male, una rissa per motivi personali fino alla banda di criminali xenofobi), col corredo di offese e dileggio nei confronti della vittima.
Riccardo Noury Portavoce di Amnesty International Italia
I dati forniti dal Centro El Nadeem per la riabilitazione delle vittime della violenza e della tortura, una delle più autorevoli organizzazioni per i diritti umani egiziane, attiva dal 1993 e di cui il ministero della Salute ha ordinato recentemente la chiusura, ci dicono che l’omicidio di Giulio Regeni non è affatto un caso isolato.
Secondo El Nadeem, nel 2015 vi sono stati 464 casi di sparizione forzata e 1176 casi di tortura, quasi 500 dei quali con esito mortale. Quest’anno, nel solo mese di febbraio, i casi di tortura sono stati 88, otto dei quali con esito mortale.
Le circostanze e la data della scomparsa (il quinto anniversario della “rivoluzione del 25 gennaio” 2011, coi precedenti segnati da militarizzazione e repressione), i metodi di tortura cui è stato sottoposto (gli stessi usati così spesso dagli apparati di sicurezza), l’indisponibilità a collaborare nella ricerca della verità, l’assegnazione iniziale delle indagini a un funzionario di polizia condannato nel 2003 per un caso di tortura mortale e in seguito accusato di aver torturato, incriminato per false accuse e ucciso manifestanti nel 2011: tutto questo ci dice che vi è la possibilità concreta che le forze di sicurezza egiziane siano responsabili dell’omicidio di Giulio Regeni.
Ultima circostanza sospetta. In Italia non si è appreso, ma i media indipendenti arabi ne hanno parlato molto: nei giorni in cui Giulio Regeni scompariva, due attivisti egiziani andavano incontro, sempre al Cairo, allo stesso destino: Mohamed Hemdan, arrestato il 18 gennaio sul posto di lavoro e ritrovato morto in un obitorio il 25 gennaio, e Ahmed Galal, arrestato il 19 gennaio a un posto di blocco e ritrovato a sua volta morto in un obitorio il 3 febbraio.
Secondo il ministro dell’Interno Magdy Abdel Ghaffar (proveniente dall’intelligence e sotto il cui dicastero, dal marzo 2015, i casi di tortura sono aumentati esponenzialmente), Hemdan e Galal sono ufficialmente morti durante uno scontro a fuoco con le forze di sicurezza. Chissà perché, il primo aveva le unghie strappate e ferite da arma da taglio, il secondo un foro di proiettile in testa e lividi su tutto il corpo.
Nessun commento:
Posta un commento